Avrebbe potuto fare un disco pieno di ritornelli appiccicosi come „Mainstream“. Avrebbe potuto non studiare canto. Avrebbe potuto scegliere un produttore „importante“, invece di fare quasi tutto da sé e restare su Bomba Dischi. Avrebbe potuto essere uno di quei giovani-cantautori-indie che quando passano in un club „off“ a salutare gli amici pensano di essere sempre su un palco a dare spettacolo. Avrebbe potuto prendersela comoda, e probabilmente il suo nuovo album sarebbe stato comunque un successo e i suoi concerti comunque sold out.
La differenza tra Calcutta e i suoi cloni/colleghi „it.pop“ non sta solo nella scrittura e in un background musicale dove basso e alto si mescolano dentro canzoni pop piene di dettagli „weird“; la differenza sta nel fatto che a Calcutta sembra piaccia stare „scomodo“: una dimensione tra borderline e consapevolezza, un „lusso“ che va vissuto davvero per poterselo concedere. Il balzo in avanti di „Evergreen“ non sta nelle rime a effetto di „Pesto“ o nel misto di sarcasmo e ansia da prima serata quando Edoardo D’Erme va ospite da Fabio Fazio.
„Evergreen“ è un disco che spiazza nei particolari: negli intermezzi psichedelici („Dateo“), nei pezzi che attaccano come un rip off dei Royal Trux e poi tirano fuori citazioni pop visionarie („Nuda Nudissima“), nell’uso rétro della parola e dei riferimenti extra musicali („Kiwi“, „Hübner“), nelle orchestrazioni e negli arrangiamenti „sempreverdi“ dove gli anni 60 e 70 sono un orizzonte da fare proprio, magari con un testo a base di archi, Arbore e paranoia (il pezzo forte, „Rai“). Calcutta è un fenomeno POP, certo: però non di quelli da baraccone che (per ora) riempiono i palazzetti, ma di quelli che si trasformano in personaggio e finiscono (per sempre?) dentro un episodio di Topolino.
Geschrieben von Chiara Colli