Fabrizio Gifuni, dopo Carlo Emilio Gadda e Pier Paolo Pasolini, sceglie di cimentarsi con un altro fiume di parole inarrestabile, quello di un leader politico, di un uomo, di un padre che parla, ricorda, scrive, risponde, interroga, confessa, accusa, si congeda.

Sono trascorsi più di 40 anni dall’assassinio di Aldo Moro eppure quante persone hanno davvero lette le lettere scritte nei 55 giorni di prigionia e quanti hanno preferito dimenticarle? In quei giorni di solitudine e terrore, Moro si rivolge ai familiari, agli amici, ai colleghi di partito, ai rappresentanti delle istituzioni mentre la stampa metteva in discussione e cercava di arginare e screditare quelle stesse parole.

Si dice che «I corpi a cui non riusciamo a dare degna sepoltura tornano periodicamente a far sentire la propria voce«» e il merito di Gifuni è quello di fare luce sul palco e sulle coscienze, attraverso questo doloroso e ostinato lavoro di drammaturgia, su uno dei capitoli con più ombre della nostra storia.