C’è un corpo nel buio e nel silenzio difficile da seguire e il mio cervello grida luce. Mi dice fammi vedere, fammi provare, aumenta il ritmo, grida. Riempimi. E invece no, lei mi sta portando altrove, non è quella la storia che vuole raccontare. Mi sono accorta di dover educare la mia attenzione a quel momento, di dovermi concentrare perché offuscata da impulsi non reali, non attuali. Allora l’ho seguita nel silenzio, nel buio, ci ho provato. Lei racchiude la potenza di un corpo che sa esattamente quello che sta facendo ed è incredibile, ogni passo, ogni movimento del braccio, del torace, del piede, è consapevole.
Questa è la cosa più potente della danza. Guardo il mio corpo e sogno di poter conoscere l’esistenza di tutti quei muscoli e tendini e tensioni e sinuosità. E invece niente, sarà per la prossima vita. Però intanto mi proietto su di lei che continua a muoversi sul palco e aumenta il ritmo della musica e dei movimenti e dell’istinto che unisce le due cose. Nel linguaggio che Annamaria Ajmone usa per La notte è il mio giorno preferito, non è tutto come ci si aspetterebbe: entra ed esce dalla luce, dalla scena, dalla musica, si discosta dall’armonia trovando un’altra via, più istintiva e consapevole. Gesti antichi, gesti contemporanei. E poi la lingua, nel senso organico della parola. La vera protagonista.
Mentre rifletto su quanto sia difficile far danzare la lingua, mi rendo conto di un’altra cosa, che riguarda non solo lo spettacolo, ma che attraversa questi nostri giorni e le forme dei nostri bisogni. In questo corpo che si muove e che celebra la forma grezza dell’istinto e del buio, intravediamo una direzione che non prevede il far tornare le cose a “come erano prima” ma verso qualcosa che evidenzi i processi di elaborazione, una materia grezza da cui estrarre contenuti ed elementi inaspettati, fidandosi dell’errore, dell’organico e dello sporco, come potenziale di materia evolutiva. Intravediamo la distanza abissale tra noi e il concetto di “finito”, chiuso e perfetto. Non c’è carta patinata che possa supportare una fotografia di questa nostra realtà.
Ecco che resta un corpo che danza, che si muove al buio, che sfugge al suono e al tempo e tira fuori la lingua dal profondo dello stomaco e la innalza con orgoglio.
Geschrieben von Annika Pettini