La rivoluzione passa per il sudore. Succede sempre così, a maggior ragione nella musica. Una volta compiute e digerite poi, le rivoluzioni tendono a diventare cicliche e a passare dall’irruenza all’ispirazione. Una volta è il club, un’altra sono i palchi, una volta è l’impianto con i bassi che entrano nelle ossa, un’altra sono le chitarre taglienti in vena di acufene. Nel primo decennio dei Duemila si è passati così dalla Warp ai Libertines (chitarre sì, acufene meno), nel secondo dalla Houndstooth a un incredibile rifiorire di punk e post punk, con declinazioni ora rock’n’roll (Chubby and the Gang per esempio), ora wave/elettroniche (Squid), ora arty (Black Country, New Road, Black Midi), ora „Falliane“ (Shame, Yard Act).
A contendersi lo scettro di questo mondo per un brevissimo periodo ci sono stati due gruppi: gli Idles e i delfini dublinesi Fontaines D.C., che però hanno deciso di mettersi fuori gioco da soli svoltando verso gli Smiths. Lode ai re di Bristol quindi! I più potenti sul palco e su disco, i più esagitati, i più abili a creare e urlare anthem e i più vicini alle tematiche liberatorie della generazione Brexit: immigrazione, gender, mascolinità tossica, clima, politica imbalsamata e schiacciata sull’ultra liberalismo economico. C’è chi ha visto in questa permeabilità una ruffianeria di fondo – forse ricorderete le parole polemiche nei loro confronti di Lias Saoud dei Fat White Family e Jason Williamson del duo Sleaford Mods – ma, d’altra parte, è dalla notte dei tempi che ci perde in discussioni su chi abbia diritto alla certificazione „working class“ e non se ne viene mai a capo. Meglio cercare la verità (rivoluzionaria) nel sudore: e di quello ne scorrerà a litri stasera.
Geschrieben von Nicola Gerundino