Fermo restando che i nomi più vivaci delle musiche degli altri continenti andrebbero visti sempre, non foss’altro che per toccare con timpano dove va la musica nel mondo, quantomeno dove è andata ultimamente, magari immaginarsi persino dove andrà domani (sforzo quest’ultimo assolutamente vano per chi non lavora nell’industria musicale o, caso pressoché estinto, nel giornalismo di settore).
Fermo restando che tra il 2018 e oggi, Ben Lamar Gay ha fatto uscire una manciata di dischi uno più bello dell’altro.
Fermo restando che i venerdì sera di JAZZMI, con una doppietta di concerti nel caldo accogliente del teatro della Triennale sono tra le cose migliori che Milano possa offrire in questo decennio.
Fermo restando tutto ciò e tanto altro si potrebbe dire sul jazz e le sue strade, quello con Ben Lamar Gay è un appuntamento che vale di più di un concerto, ancora di più in questi giorni di guerra e dolore, è uno sguardo affermativo sul mondo. In un’epoca in cui ogni giorno è una sorpresa e una devastante corsa verso il collasso.
Nelle orecchie di Ben Lamar Gay c’è la storia del sud, dell’Alabama e della (de)segregazione. E una storia più a sud, di Rio de Janeiro e dei ritmi della musica brasiliana che ancora si affacciano nel suo groove. E c’è la storia delle storie, delle mille migrazioni che si incontrano nella grande città di Chicago e da lì ripartono per il mondo. C’è un approccio consapevole alla memoria e all’ascolto, che è la ricetta definitiva per l’improvvisazione. „Open arms to open us“ scriveva Ben Lamar Gay dando il titolo al suo capolavoro, due anni fa. Braccia aperte al ritmo, alla danza, ma soprattutto braccia aperte al prossimo, al diverso. Di questo tempi si rischia la galera nel sostenere tutto ciò, ma i tempi cambieranno, passeranno come passa la musica. Per comprenderlo basterà sedersi su quella calda poltroncina e aprire le braccia, o meglio le orecchie.
Geschrieben von Filip J Cauz