Un uomo vestito in abito grigio e sneakers bianche cammina lentamente fino ad arrivare al centro del boccascena di un teatro completamente sold-out. Ha con sé solo una chitarra acustica e uno stereo portatile. Gli applausi e le urla di gioia che si irradiano in tutta la sala, gremita di gente fino all’inverosimile, contrastano con la scarna scenografia del palco, che mette in bella mostra scale, botole e impalcature che troneggiano dietro le quinte. A un certo punto l’uomo, il cui nome è David Byrne, dopo aver detto di avere un nastro che vuole far ascoltare al pubblico, si lancia con la sua Martin D-35 in un’infuocata esecuzione di Psycho Killer, uno dei pezzi più celebri del suo gruppo, i Talking Heads.
Sono queste le scene che si susseguono nei primi, iconici minuti di Stop Making Sense, da molti considerato come il miglior film concerto mai realizzato. Diretta da Jonathan Demme, regista premio Oscar per Il silenzio degli innocenti, la pellicola cattura i Talking Heads in quello che probabilmente è il loro momento di massimo fulgore. Le riprese del film si svolsero infatti durante tre concerti che la band newyorkese fece nel dicembre del 1983 al Pantages Theater di Los Angeles, alla fine del tour promozionale di Speaking in Tongues, il suo quinto album in studio.
A 40 anni dalla sua uscita nelle sale, Stop Making Sense torna nei cinema italiani soltanto per pochi giorni – in una versione completamente restaurata in 4K e con audio Dolby Atmos 7.1, curata da James Mockoski e Jerry Harrison, storico tastierista e chitarrista dei Talking Heads. Una vera e propria esperienza sensoriale a 360°, che oltre a (ri)valorizzare un film e un’esibizione a dir poco leggendari, cristallizza l’essenza di una band che, come poche altre nella storia, è stata in grado di mescolare influenze e sonorità provenienti da quasi ogni angolo del globo. Dopo un esordio fortemente legato alle correnti new wave e post-punk di fine anni ‘70, che ebbero come fulcro il CBGB, celeberrimo locale di New York incastonato tra le strade del Lower East Side, il gruppo si discostò gradualmente dal movimento underground della Grande Mela, fagocitando all’interno del proprio sound i trascinanti groove del funk, le poliritmie dell’afrobeat ma anche i respiri avanguardistici dell’art-rock e della musica postmoderna.
Un caleidoscopico mosaico di note che in Stop Making Sense brilla di luce propria, grazie a una micidiale serie di brani che spaziano in lungo e in largo all’interno del repertorio del gruppo.
Un caleidoscopico mosaico di note che in Stop Making Sense brilla di luce propria, grazie a una micidiale serie di brani che spaziano in lungo e in largo all’interno del repertorio del gruppo: da Burning Down the House a Life During Wartime, passando per This Must Be the Place (Naive Melody) e Once in a Lifetime. Questo crescendo rossiniano di energica eccentricità raggiunge il suo Zenith quando, dopo essere sparito per qualche minuto dietro al palco, Byrne torna in scena con indosso la celeberrima Big Suit. Un completo comicamente oversize, ispirato agli iperbolici costumi del teatro giapponese Nō, capace di trasformare il leader dei Talking Heads in una vera e propria “testa parlante” appoggiata sul corpo di un bizzarro golem vestito da yuppie.
A fare da contraltare a questa lunga serie di stravaganze visive e musicali ci pensa la pulitissima regia di Jonathan Demme, che grazie all’impiego di scenografie minimali, palette di colori neutri e la quasi totale assenza di inquadrature sul pubblico, permette di gustare fino in fondo la magica interazione tra i musicisti impegnati sul palco e le strampalate mosse di ballo di Byrne.
Nonostante l’implacabile passaggio del tempo, Stop Making Sense continua a essere una pietra miliare nella storia dei documentari rock. Una pellicola spartiacque per il suo genere, ambiziosa, visionaria e maledettamente elettrizzante. Se siete fan dei Talking Heads, sapete già dove andare il 17 novembre. Se non lo siete, dovreste comunque dare una chance a un film al quale molti altri registi si sono ispirati in questi ultimi 40 anni, ma che nessuno di loro è riuscito a imitare.
Geschrieben von Luca Barenghi