Se, come il sottoscritto, a volte correte lungo tutto il vostro spettro emotivo nell’arco di due ore; se avete bisogno di fare tre cose diverse contemporaneamente per sentirvi vagamente calmi; se passate dalla rabbia alla tenerezza e dalla forza di fare qualunque cosa all’apatia esistenziale in un battito di ciglia, beh: questo è l’album che fa per voi. Quello e probabilmente un sacco di terapia – ma qui parliamo di musica.
Maiya Blaney tesse intricate campiture sonore che cesellano chitarre post-grunge insieme alla drum and bass più adrenalinica, il soul più sensuale a una sensibilità emo pofonda. C’è di tutto e tutto si svolge sotto le nostre orecchie alla velocità della luce. Sembra un gran casino, eppure una qualità ineffabile nell’arrangiamento di questi pezzi non ci fa percepire l’assurdità dell’operazione, anzi.
Alla fine si può parlare di indie o di alternative, ma sarebbe comunque fare un’ingiustizia alla creatività dell’artista di base a Brooklyn. È come se la Blaney portasse a compimento una tendenza ben presente nel panorama contemporaneo da metà anni dieci in poi, da Slowthai (ve lo ricordate Slowthai?) all’ultima Little Simz: la commistione tra generi di matrice afro americana e quelli indie rock di matrice britannica bianca.
Insomma è un po‘ come se un producer da camaretta prendesse Burial, Erykah Badu, Goldie, Kurt Cobain, Moor Mother e li frullasse insieme alla massima velocità. Il risultato è questo disco, collage sanguinolento di emozioni e suoni che non lascia in pace l’ascoltatore neanche per un secondo. Lo costringe ad una montagna russa che lascia storditi, ma su cui subito dopo non si vede l’ora di fare un altro giro – con il sangue che pulsa nelle tempie e un ghigno posseduto stampato un faccia.
Geschrieben von Giulio Pecci