C’era un tempo in cui io e i miei amici avevamo vent’anni e, per abitudine e per vezzo, amavamo „chiuderci“. Con questa espressione mi riferisco a quella pratica di ricercare una qualche forma di profonda sofferenza sentimentale e spremerla fino all’essenza. E così, crogiolarsene, per giorni e giorni. La pratica aveva un doppio effetto: il primo, quello sociale, di ritrovare una corrispondenza di amorosi sensi con altri disgraziati affetti dalla medesima sciagura autoinflitta, il secondo quello di commutare il semplice ascolto di brani musicali in esperienza religiosa, perfino penitenziale. Tali aspetti convergevano nel 2002, durante l’ascolto di Neon Golden dei Notwist. Ogni pezzo sembrava la pagina di una storia d’amore imperfetta e sfuggente, pronunciata con la voce nasale di chi ti capisce davvero, su quel tappeto di blues indietronico per occasioni perse su cui le riviste scommettevano per il futuro del pop. Da Neon Golden è passata una vita. Noi siamo diventati grandi e meno insicuri, le previsioni delle riviste erano come sempre sbagliate e i Notwist sono comunque rimasti un buon gruppo, che di recente ha rinfrescato una carriere quasi trentennale con il suo primo live album, Superheroes, Ghostvillains & Stuff. Va da sé che se poi sul palco fanno pure Consequence, saremo felici di sentirci nuovamente così come allora paralizzati, ipnotizzati d’amore.