Nell’anno dell’annunciata chiusura (o, meglio chiamarlo, fallimento) di FICO e dei dati di Confcommercio che fotografano una città nella quale è presente un ristorante/bar ogni 35 abitanti, parlare ancora di cibo potrebbe fare effettivamente venire la nausea. Eppure molti erano stati i moniti a quel progetto di marketing territoriale chiamato city of food, che già al suo principio mostrava tutti i suoi difetti; una parabola discendente, oggi fuori controllo.
Dopo l’entusiasmo dei primi anni, infatti, nei quali abbiamo assistito a decine di new entry, inaugurazioni, nuovi locali scintillanti e chef di qua e di là, ci ritroviamo a non riuscire quasi più a orientarci in questo grande caos in cui non si sa più chi apre e chi chiude, chi specula e chi no, mentre i prezzi si alzano, la qualità peggiora e l’offerta cambia target, rivolgendosi più che altro ai cosiddetti city users.
Mettiamoci pure l‘inchiesta di Sofia Nardacchione e Andrea Giagnorio presentata qualche giorno fa durante il Festival dell’informazione Libera e dell’Impegno (Fili) organizzato dall’associazione Libera Bologna e da Libera Informazione che racconta di ristoranti spesso vuoti ma con fatturati altissimi per „un quadro pieno di ombre e preoccupazioni“, ed ecco che la faccenda assume un aspetto da affrontare seriamente e tutt’altro che rassicurante.
Questo significa che tutto fa schifo? Assolutamente no, e nulla ci toglierà dalla testa che bere e mangiare in compagnia e farlo in un luogo che ci fa stare bene, è un piacere al quale non vogliamo rinunciare. Il punto è che in questo contesto diventa molto più complicato riuscire a farlo.
Tutto ciò per dire che qui non ci troverete una classifica, ma una sorta di anti-guida con pochi posti che magari nelle classifiche di fine anno non finirebbero mai; piccole cose che abbiano avuto per noi (e per qualche pezzo di città) qualche tipo di significato positivo al di là della solita retorica e che dal nostro piccolo osservatorio siamo riusciti a intercettare durante quest’ultimo anno di food andato a male.