Fare vuoto, non nel senso della tabula rasa ma di liberare spazio, è un’operazione sottovalutata sul fronte delle politiche urbane. Gli spazi pubblici delle città si riempiono continuamente di nuovi ingombri: cartelli pubblicitari, cartelli stradali, cabine del gas, dell’elettricità (anche se non ci sono più quelle del telefono), padiglioni e tende mobili, palchi, pali, baracchini e chioschi, food truck, banchetti di associazioni più o meno umanitarie, mercati, panettoni di cemento, jersey di cemento, e poi i mezzi di trasporto, bici, motorini, monopattini, e sopra ogni altra cosa auto. Automobili sempre più grosse, ciccione, alte, che non ti fanno vedere dall’altra parte.
A questo scopo il Comune di Milano ha avviato un progetto di urbanistica tattica in collaborazione con Bloomberg Associates e con il supporto della National Association of City Transportation Officials (NACTO) Global Designing Cities Initiative, “Piazze Aperte”, che in meno di un anno ha liberato 4-5 piazze, marciapiedi, spazi pubblici dall’onnipresente egemonia dell’auto o da incroci ridondanti o pericolosi, cercando di restituirli agli abitanti. A questi sono stati affiancate altre operazioni concepite e realizzate dalle associazioni dei cittadini, con l’aiuto del Comune. Gli interventi sono localizzati in luoghi molto diversi tra loro: in centro come Porta Genova o Piazzale Lavater, in aree più periferiche, trascurate o in trasformazione come Rovereto o Barona, Comasina, Corvetto, San Siro.
Sono interventi realizzati con mezzi leggeri, ma segnicamente forti: vernice dai colori sgargianti sui pavimenti, piante in vaso, panchine o arredi ludici. Soprattutto è alleggerito il processo burocratico e progettuale, perché l’iter decisionale gode di scorciatoie considerevoli. Si tratta di un modello molto rodato in città grandi e piccole, da megalopoli come Mumbay e New York a città europee di media taglia, e fondato sull’idea che una rete di piccole azioni veloci e magari temporanee sulla città possa innescare miglioramenti più efficienti e graditi della pianificazione vecchio stile.
I più ostili a queste politiche sono spesso gli architetti, che per lo più reagiscono disgustati alla sciatteria delle soluzioni spaziali proposte e sostengono la necessità di una progettazione più accurata anche per soluzioni temporanee come queste. Seguono gli attivisti radicali, che criticano un altro aspetto della questione: questi interventi, nonostante producano un cambiamento generalmente positivo e condivisibile, sono troppo pochi e troppo reversibili (spesso addirittura esplicitamente temporanei), a fronte di un’urbanistica neoliberista aggressivamente piegata alle necessità dei grandi attori del Real Estate, che consuma migliaia di metri quadri di suolo e produce milioni di metri cubi di cemento e infrastrutture pesantissime. Vengono invece comunicati ai cittadini come se fossero in grado di agire realmente sull’equilibrio urbano, come se la loro rilevanza potesse compensare o addirittura cambiare il corso dell’urbanistica della speculazione edilizia e finanziaria imperante. Neil Brenner, teorico dell’urbanistica a Harvard, argomenta che il problema dell’urbanistica tattica è la scala: concepiti come interventi di „agopuntura urbana“, in opposizione alla pianificazione pubblica, come possono incidere nei violenti processi di urbanizzazione che investono il territorio cittadino oggi?
Insomma, appaiono più simili a strategie di marketing urbano, di Corporate Social Responsibility (piccoli investimenti in comunicazione che „lavano“ la coscienza sporca sociale e ambientale delle politiche reali adottate) che come veri motori di cambiamento.
Probabilmente la risposta è in un qualche punto a metà, e dipende moltissimo dalla quantità degli interventi, dalla proporzione tra la dimensione micro e quella macro. Se Milano decidesse di puntare seriamente sull’urbanistica tattica, e generasse centinaia di operazioni analoghe in contemporanea, snellendo procedure a volte inutilmente onerose e avviando in buona sostanza un grande programma di manutenzione e ridisegno urbano, affiancandolo ad altre leggi strutturali per ostacolare la mobilità privata in auto e la rendita immobiliare, forse si otterrebbero risultati più rivoluzionari di quanto ci si potrebbe aspettare.
L’ultimo intervento programmato prima dell’estate è a NoLo, che in pochi giorni trasforma un incrocio infernale (tra le vie Spoleto e Venini) in una piazzetta attraversabile e vivibile: se si facesse lo stesso per esempio a piazza Archinto, all’Isola, invece di affrontare un pesantissimo cantiere di un anno al prezzo di centinaia di migliaia di euro, non sarebbe meglio per tutti?
Contenuto pubblicato su ZeroMilano - 2019-07-16