Pochi elementi, filosofia minimal, quasi radicale. Tre pareti con teche quadrate completamente vuote. Sedie nere, comode ma dall’apparenza volutamente spartana, che invitano a concentrare lo sguardo sul piatto. Tensione. Improvvisamente proiettati nel set di Dogville, di Lars Von Trier. È così che ci si sente appena seduti al tavolo dell’Undicesimo Vineria. Siamo parte di un piccolo spettacolo, una messa in scena, una trama dedicata al gusto e ai profumi intensi che l’accompagnano. Fare piazza pulita, raggiungendo presto una confortevole sazietà, non sarà difficile. Ma quella che si dipana tra le portate dello chef Francesco Brutto non è una storia tragica, anzi, è un giocoso noir che passa attraverso le dita, le posate, i bicchieri. Sorprese, colpi di scena, ricordi.
La cucina stellata di questo locale trevigiano, così artefatta e al tempo stesso autentica, vi affida il ruolo di detective, impegnati in una continua indagine sensoriale. Ciak, si gira. Si parte. Alla ricerca della nota affumicata che avvolge la cruditè di stella marina, di quale enigma chimico porti a sposare la ricotta di capra con il caviale di aringa. Presi alle spalle dall’amarezza elegante che i ravioli d’indivia esprimono nel loro incontro/scontro con il cannolicchio, le noci e l’essenza di sambuco. Tante sono le preparazioni che mettono le nostre abitudini con le spalle al muro: tra i finger food serviti come entrees è certamente audace la tortina di grano saraceno, bottarga, osmanto e albicocche fermentate. Osmanto? Cos’è l’osmanto? Entriamo in un labirinto di botaniche: filipendula, dragoncello, camomilla, genziana, artemisia. Un grande giardino planetario. A queste essenze impalpabili si contrappongono ingredienti dal gusto forte, quasi provocatorio. Non è una cucina accondiscendente, quella dell’Undicesimo Vineria, tanto territoriale quanto temeraria. E così il fegato di coniglio si sposa con le prugne, le rigaglie di quaglia, piccione e pernice rossa avvolte nel loro raviolo si fanno dominare da una punta di sgombro arrosto, immerse in un liquido psichedelico al pomodoro verde. I Pink Floyd di Syd Barrett sul piatto. Le dosi di un ristorante stellato sono sempre misurate, ma ci sono casi in cui veramente si vorrebbe avere a disposizione il triplo, il quadruplo: è il caso degli scampi crudi con litchees, abrotano e umeboshi. Il nudo crostaceo, mangiato un milione di volte, trasformato in top model e pronto per il prêt-à-porter. Lo stesso vale per la trota beurre blanc, menta e mirtillo rosso. Un pesce curioso che ha voglia di farsi una passeggiata nel bosco.
Non ci sono più parole per descrivere la cucina di Francesco Brutto anche perché tante e lusinghiere ne sono già state espresse negli ultimi anni, quasi unanimemente, dalla critica enogastronomica italiana. Potrebbe finire il dizionario, ma lo chef continuerebbe a stupire. Giusto per fare un breve riepilogo: dal 16 novembre 2017 questo locale può vantare una stella Michelin. Un anno prima nell’agosto 2016 Francesco Brutto viene premiato come miglior giovane chef dalla guida dei ristoranti d’Italia dell’Espresso, nell’ottobre del 2017 gli riconosce i tre cappelli, rating d’eccellenza che possono vantare solo 26 ristoranti in tutta la penisola, tutt’ora confermato. Mentre lo chef compone le sue minuziose creazioni in cucina, l’interfaccia di sala è affidata al suo socio, il maitre e sommelier Regis Ramos, che affianca ad ogni piatto non solo i vini giusti (anche qui c’è un discreto gusto per il rischio) ma anche qualche cocktail. Indimenticabili nel nostro passaggio, nell’ottobre 2019, il Riesling Clos Sand del 2005 e il finale con “Cognac Cigar Blend, liquore di sidro, bitter al limone, bitter al sedano e ginger beer”. Stesi.