Dire via Padova è come dire la Via Lattea. E’ un luogo che cambia a seconda delle coordinate geografiche, delle stagioni, e delle ere geologiche. A seconda del punto di vista da cui la guardi, assume una forma e un significato diverso. Brulicante di vita, via Padova è l’arteria che irrora quell’apparato complesso che è Milano; inizia come una piccola sorgente tra le campagne di Crescenzago e sfocia nella pozza bituminosa di Piazzale Loreto.
Al civico 344, in località Tre Case, là dove c’erano campi e lavandaie, ancora resiste una locanda che serve generazioni di clienti. Profumo di una vecchia trattoria milanese, Trattoria Novelli sembra una location perfetta per un film degli anni 70. Tovaglia a quadrettoni larghi, vino a fiumi, risate grasse, e Peppino, ottant’anni suonati, che più che servire fa del cabaret.
Non c’è menù, gli ospiti sono ospiti e non hanno potere. Si mangia quel che offre la casa e non si discute. Io da forestiero capisco la metà di quel che mi si dice, perché Peppino parla un dialetto fitto fitto e il mio traduttore automatico non è aggiornato sul milanese.
E’ tutto così bello in questo posto lontano da tutto, in questa Milano pre-covid, pre-expo, pre-Moratti, pre-tangentopoli, pre-tutto.
Mangio nervetti e risotto. L’impressione è che il cibo non sia il principale motivo per il quale la gente frequenti ancora questo posto. Ma non fa niente. Gastronomia a parte, questo posto conserva ancora una sua sacralità. Mi sembra ancora di vedere Adriano Celentano in quella scena di “Mani di velluto”, girata dentro la trattoria, nella quale parla al telefono davanti al bancone.
Continuo a osservare i personaggi da cinepanettone che popolano la sala e improvvisano un lento, con tanto di invito. Ballo. Chiedo se hanno formaggi. «La buca l’é minga straca se la sa no de vaca», mi rispondono. Approvo. E’ tutto così bello in questo posto lontano da tutto, in questa Milano pre-covid, pre-expo, pre-Moratti, pre-tangentopoli, pre-tutto.