Entrai per la prima volta in quel giardino la sera del 7 luglio 1962, per festeggiare quella che mi sembrava la più bella vittoria di tutti i tempi. Ero a Milano da qualche mese, avevo trentaquattro anni, una Austin Mini Countryman verde inglese guida a destra e, soprattutto, la dolce Fanny a sinistra, bella come non mai, con una gonnellina bianca, il nastro giallo per i capelli e due scarpe da tennis in tela che a ogni passo rischiavano di macchiarsi. Le racchette nel bagagliaio, alla ricerca di un campo da tennis. Entrammo in un bar dietro via Mozart a bere una limonata, quando alla radio diedero la notizia: “Il tennista australiano Rod Laver ha battuto con il netto punteggio di 6–2, 6–2, 6–1 il sorprendente Martin Mulligan sul campo centrale di Wimbledon ed è stato premiato dalla regina Elisabetta II col trofeo di campione open di Gran Bretagna”. Non sapevamo ancora che quell’anno Rod Laver avrebbe vinto il suo primo Grande Slam. Il nostro open lo giocammo dietro quel muro di via Mozart, verso le due di notte. Scavalcammo con cautela, le Donnay in spalla come Rod Laver, e giocammo non più di un game. Al resto pensarono la luna piena, il prato morbido e i dolci profumi del giardino di Villa Necchi Campiglio.
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