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Appia Antica: una normale cosa assurda

A Roma una strada progettata nel 312 a.C. rimane uno snodo centrale per la vita della capitale: tra pendolari, turisti e magia.

Geschrieben von Giulio Pecci il 30 Juli 2025
Aggiornato il 1 August 2025

Tempo fa andavo al lavoro in motorino quando all’improvviso un rumore metallico mi ha distolto dal torpore mattutino. Uno dei due ganci del parabrezza si è staccato di colpo e la lunga vite che lo reggeva si è persa dietro di me. Ho fatto il resto del tragitto guidando con una mano sola, reggendo con l’altra il parabrezza monco e penzolante. Il fattaccio è successo arrivando al semaforo che regola l’incrocio tra Via Appia Antica e Viale di Porta Ardeatina, proprio di fronte al museo delle Mura Aureliane – l’antico punto di entrata della città di Roma.

Può sembrare un caso, uno strano colpo di sfortuna, si potrebbe essere tentati di dare la colpa al montaggio approssimativo del parabrezza. Si tratta invece di una cosa normalissima quando si percorre tutti i giorni un tratto di strada costruita più di duemila trecento anni fa, praticamente invariata da allora e non progettata per i mezzi di locomozione contemporanei. Tutte le vibrazioni di un manto stradale assurdo – fatto di sampietrini rotti e voragini grosse come piccole piscine – si sono accumulate, lavorando insieme piano piano, fino a liberare la povera vite. O per dirla con Francesco De Carlo, alla fine di una strada del genere “il motorino lo smonti proprio, te lo metti in tasca e continui a piedi.”

STORIA 

Se si cresce a Roma, soprattutto a Roma Sud, una delle prime cose che si imparano è che la Via Appia Antica è uno dei massimi orgogli cittadini. Costruita dagli antichi romani e in funzione tutt’oggi, “arriva fino a Brindisi!”, non mancherà di sottolineare gaiamente l’adulto che vuole far colpo sull’immaginazione del bambino. Ignorando che i bambini non sanno dove si trovi Brindisi, eccezion fatta per i bambini pugliesi – ma nutro dei dubbi anche su di loro. È quella voglia eterna di noi romani di ricordare a tutti (in primis a noi stessi) il continuum spazio temporale di cui in teoria facciamo parte, l’eco di quella grandezza antica che non smette di riverberare tutt’oggi.

Non so se avete mai ascoltato un eco a lungo, molto a lungo. Più va avanti, più la ripetizione diventa distorta, corta, incompleta insomma: una caricatura di sé stessa. Non per questo brutta, anzi, ma sicuramente spoglia delle caratteristiche originarie. Oggi di quella che viene definita una delle più grandi opere di ingegneria civile del mondo antico rimane un duplice e interessante fantasma. Da una parte il lato turistico: quel Parco Archeologico dell’Appia Antica (costituito ufficialmente nel 2016) che è effettivamente un luogo magico, intriso di storia e reperti unici al mondo. Percorrere quei pezzi di Appia Antica significa sognare ad occhi aperti, abitare un set cinematografico e vivere uno dei pochi luoghi al mondo in cui sentiamo veramente di essere trasportati a millenni di distanza.

Poi c’è il lato non turistico, quello della gente che questa città senza senso la vive tutti i giorni. Qui l’Appia Antica diventa una distorsione, un rovescio di tutto ciò che è dorato e turistico. Valerio Mattioli al rovescio di Roma, quella (vera) che vive fuori dalle Mura Aureliane ha dedicato un libro intero – “Remoria”. Remoria era la città che, vuole la leggenda, sarebbe stata fondata da Remo se non fosse stato ucciso dal fratello Romolo. Per Mattioli se percorriamo il G.R.A. contromano, uscendone ci si troverà come per incanto a Remoria. Il Grande Raccordo Anulare, l’autostrada uruborica che oggi per i romani segna il confine tra ciò che è Roma e ciò che non lo è; esattamente quello che, in antichità, rappresentavano le Mura Aureliane. Un quadrato, quello delle Mura, oggi contenuto dentro un cerchio, quello del G.R.A.

In questa sovrapposizione temporale e geografica l’Appia Antica è una sorta di lunga spina conficcata nella schiena di Roma. Parte dall’antico centro della Capitale, nei pressi delle terme di Caracalla, allungandosi fino a bucare prima il quadrato e poi il cerchio per, come già detto, finire la sua corsa addirittura in Puglia. Per Mattioli “in qualche modo Remoria esistette sul serio, se non come città come ricordo necrofilo: nell’Antica Roma, le Lemuria (da Remuria) erano appunto le cerimonie che si svolgevano per esorcizzare lo spirito dei morti e placare lo spirito di Remo.” L’Appia Antica è disseminata di morti e magia. C’è un bosco sacro, mausolei, un’infinità di tombe di tutte le forme e dimensioni – una è così imponente e affascinante da meritarsi l’appellativo di piramide. Per non parlare delle catacombe: più di cinquanta, concentrate soprattutto nel tratto di Appia Antica più peculiare, quello più usato quotidianamente dai romani di oggi – il più magico e improbabile.

VIA

Sono circa due chilometri, tra il confluire della Via Appia Pignatelli dentro l’Appia Antica fino all’ingresso delle Mura Aureliane. Senso e logica abbandonano la mente di chi percorre questi duemila metri. Prima di tutto c’è lo shock fisico. Appena ci si lascia alle spalle il manto stradale in cemento dell’Appia Pignatelli, ecco che ci si trova sui temibili sampietrini: le vibrazioni si impossessano del corpo, scuotendolo da capo a piedi. Quando piove i sampietrini diventano neri, lucidi e scivolosi, un attentato alla vita dei motociclisti. Sembrano gocce di ossidiana, come se la pioggia si schiantasse formando enormi lacrime quadrate di pietra. Non è un paragone fuori luogo: i sampietrini infatti sono per la maggior parte composti da blocchetti di leucite, una pietra di origine vulcanica – come l’ossidiana – tipica dei colli laziali.

Per più di metà della corsa è come se ci trovassimo dentro il tunnel di un videogioco. Le mura antiche sono alte abbastanza da far vedere soltanto quello che c’è dietro e davanti a noi, ai nostri lati ruderi fascinosi e vegetazione lussureggiante. I colori predominanti sono il marrone, il verde e l’azzurro; una palette bucolica straniante rispetto a quello da cui siamo arrivati e verso dove stiamo andando. Quando il sole si allinea con la Via (verso il tramonto) entriamo veramente in una dimensione parallela. Siamo completamente accecati dal riflesso e dobbiamo affidarci a tutti i sensi, meno la vista, per evitare di schiantarci. Non so bene perché, ma quei momenti mi hanno sempre fatto pensare a Wipeout 2097, il vecchio videogioco di racing dall’ambientazione retrofuturistica.

Non è tutto: la “strada” è a doppio senso. Quando passano un camion o un autobus si blocca tutto e ci vogliono attente manovre da parte dei guidatori per togliersi dall’impiccio. Non è un avvenimento raro. La presenza delle catacombe di San Sebastiano e di San Callisto fa si che la strettissima via sia solcata da numerosi pullman, causando deliri stradali. E infatti, come se tutto ciò non bastasse, questi due chilometri sono cosparsi di turisti smarriti, che seguendo chissà quale mappa sono arrivati anche a piedi – o peggio con bici e monopattini elettrici – in questo budello antico, rischiando la vita ad ogni veicolo che passa correndo a perdifiato.

Perché, direte voi, i veicoli corrono su una strada con queste caratteristiche folli? Intanto perché a Roma corriamo, sempre. Secondo, perché questa non è una strada normale neanche da un punto di vista di viabilità. Siamo di fronte a uno (forse il) principale collegamento tra i Castelli di Roma, la periferia sud-est e Roma centro. Non solo. La maggior parte dei politici in viaggio passano per questa strada, con scorta e auto blu a sirene spiegate, visto che è il collegamento più veloce verso il vicino aeroporto di Ciampino. Riassumendo: questo tratto di due chilometri stretto, ingovernabile e incomprensibile è indispensabile per la vita di pendolari stressati, politici che vanno di corsa e turisti rincoglioniti. Surreale.

Nelle ora di punta migliaia di automobilisti e motociclisti si ritrovano dunque in questo spazio angusto, con la bava alla bocca, bestemmiando perché in ritardo per il lavoro o un appuntamento, cercando di scavalcare tutti, correre, arrivare prima. Una volontà che si scontra con la fila immancabile che si viene a creare, soprattutto nel secondo tratto di strada, quando le mura si abbassano e si incrocia Via Ardeatina. Qui potete anche aver preso la patente con il massimo dei voti: nessun essere umano è mai riuscito a decifrare l’ordine delle precedenze. Il tutto si risolve sempre in modo molto romano. Vige la legge del più forte – o meglio, del più spericolato – insomma, passa prima chi ha il coraggio di prendersi quella precedenza, accollandosi le conseguenze della sua scelta. Sono anni che in questo tratto vedo con i miei occhi almeno due incidenti gravi a settimana.

Superato questo impasse tutti interi, per un attimo abbiamo l’illusione che la strada si allarghi, di respirare un po’. È un’illusione: la realtà è che l’orizzonte accanto a noi non è più limitato dall’altezza dei muri. Qui di solito inizia la fila che porta al semaforo da cui siamo partiti nell’introduzione – quello dell’incrocio tra Via Appia Antica e Viale di Porta Ardeatina. In macchina si può perdere anche più di mezz’ora a passo d’uomo; in motorino si rischia la vita attraversando pertugi inesistenti. Arrivati con fatica al semaforo inizia una danza di rossi, gialli e vedi che regola il flusso di veicoli da ben quattro direzioni diverse. Quando finalmente toccherà a noi e supereremo il semaforo lasciandoci alle spalle l’Appia Antica sentiremo come se ci avessero tolto un macigno dal petto, come se rientrasse in noi stessi con la strana sensazione di star lasciando – non senza malinconia – un pezzo di noi indietro.

MAGIA

Che cosa è successo? Ormai l’abbiamo capito. La Via Appia Antica non ha niente della strada normale: è un tracciato magico disseminato di splendore e morte, che si vendica ogni giorno dei suoi abitanti, avvelenandoli di bellezza e caos.

Non uso ossimori a sproposito. Riprendiamo le forme dei due confini di Roma – Mura Aureliane e G.R.A., il quadrato inscritto nel cerchio. Il simbolismo dell’unione tra queste due forme geometriche si perde nella notte dei tempi. È un problema irrisolvibile, fortemente associato all’esoterismo e alla congiunzione alchemica degli opposti. Se il cerchio veniva comunemente associato al cielo (l’infinito) il quadrato rappresentava la terra (il finito). Conciliare il quadrato col cerchio significava quindi trovare la loro corrispondenza occulta, il catalizzatore in grado di risolvere ogni dualismo insanabile.

Alchimia a parte, siamo di fronte a un problema senza soluzione. Come irrisolto è il rapporto tra Roma Centro e tutto ciò che non è Roma Centro – la “borgatasfera” direbbe sempre il caro Mattioli. Una città che si fonda su opposti inconciliabili che non si parlano, eppure in qualche modo coesistono a forza. Questi due chilometri di Via Appia Antica sono la strada impossibile che collega Roma e Remoria. Qui passato e presente convivono bellicosamente cospirando verso il futuro, qui periferia e centro scorrono inesorabili una dentro l’altra, politici e popolo respirano lo stesso smog, turisti e residenti si strusciano schizzando via.

C’è un modo migliore degli altri per far si che questo passaggio si riveli in tutta la sua potenza. Funziona anche in macchina, ma l’effetto è decisamente più completo e sconvolgente se usate un motorino. Sulle due ruote si compie la magia perché siamo esposti a tutti gli agenti esterni, come se fossimo a piedi, ma andiamo a velocità elevate come quelle di una macchina; una nuova un’unione tra opposti propiziatoria, macchina e uomo fusi in un agglomerato di carne e metallo. È un po’ il concetto della macchina di DOC in Ritorno al Futuro, solo che accelerando, invece di proiettarci in avanti o indietro, facciamo qualcosa di ancora più stupefacente: sentiamo scorrere sulla faccia e tocchiamo con le dita la pasta ineffabile del presente.

Insomma, bisogna inforcare le due ruote quando la primavera sta per diventare estate, quei pochissimi giorni all’anno in cui le stagioni ballano tra di loro e sono ancora indecise su chi dovrà piroettarsene via. Quei due chilometri di strada vanno imboccati al principio del tramonto. Tutte le piante sono in fiore, il profumo è fortissimo e sensuale; migliaia di cicale hanno già iniziato a cantare in modo ipnotizzante; le vibrazioni dei sampietrini contribuiscono all’effetto lisergico; la luce, ancora morbida ma già calda, si incanala perfettamente nel tunnel delle mura antiche, senza accecarci. Qui le parole finiscono. Posso solo provare a descrivere la sensazione: ci si sente leggeri, un po’ intontiti, soddisfatti, appagati – come se il motorino si trasformasse in Pegaso, spiccando il volo. Non si pensa alla giornata di merda avuta, né a quella di merda che verrà. Non si pensa.

Il tutto dura solo qualche secondo. Secondi in cui il tempo percepito si è squagliato come nei quadri di Dalì: potrebbero essere passati minuti, ore, anni. Quando parlo con gli amici, quando ci confessiamo lo stordimento, lo stress e la depressione che ci causa vivere a Roma, finisco sempre per pensare a quei secondi sull’Appia Antica – al passaggio nascosto tra Roma e Remoria. Provo a spiegarmi, a sottolineare quanto vivere quell’esperienza una volta o più volte all’anno riequilibri qualcosa dentro di me, rimetta in asse le tante Rome in cui è scomposto questo incubo urbanistico. Non ci riesco quasi mai: spesso mi vengono restituiti i sorrisi bonari di chi mi vuole bene ma sta pensando che io sia pazzo o esaurito. Naturalmente non escludo nessuna delle due possibilità. Prima di unirvi al coro però trovate un motorino e provate a percorrere il passaggio tra Roma e Remoria: ci vediamo in cielo in sella la nostro cavallo alato di lamiera.