Poco meno due anni fa intervistammo Liryc Dela Cruz, artista originario delle Filippine di stanza a Roma, per “Il Mio Filippino: For Those Who Care To See”: un progetto che partiva dai corpi dei lavoratori filippini nelle case come collaboratori domestici, indagando, attraverso la coreografia, temi quali l’addomesticamento corporale, i rapporti di colonizzazione, l’alienazione (fisica e non) derivante dalla ripetitività del lavoro.
Lungo questo solco, tracciato anche negli spazi del Mattatoio, è cresciuto un lavoro cinematografico – prodotto da pelircula e co-prodotto da Ozono, Reckless Natarjan Pictures e Il Mio Filippino Collective – che debutterà in competizione alla settantacinquesima edizione della Berlinale. „Come la notte“, questo è il titolo, racconta la storia di tre fratelli filippini, tutti lavoratori domestici in Italia, che, dopo anni di separazione, si riuniscono nella villa ereditata dalla sorella maggiore Lilia. Man mano che la notte si fa più profonda, la riunione risveglia vecchi ricordi e rancori mai espressi: cicatrici incise sui corpi e negli animi dalla dal lavoro, dallo sradicamento, dall’emigrazione, dall’eredità di secoli di oppressione coloniale. Abbiamo raccolto qui considerazioni e pensieri di Liryc su questa sua nuova opera:
„Questo film è un’esplorazione profondamente personale dell’eredità silenziosa e corrosiva che il colonialismo ha lasciato nella psiche filippina, del suo potere insidioso di fratturare non solo le nazioni, ma anche le famiglie e gli individui. La villa dove i fratelli si riuniscono è un’estensione simbolica della loro prigionia in un mondo estraneo che ha imposto la sua architettura sulle loro vite. Le distanze tra di loro non sono solo fisiche, sono gli echi di una storia non detta che li tormenta. Le cicatrici della migrazione, del servire sempre in casa altrui, rivelano un senso di appartenenza fratturato, dove la cura è contaminata dal risentimento e l’amore è inseparabile dall’amarezza.
Nel suo cuore, questo film riflette una verità più profonda e oscura: quando gli oppressi interiorizzano la violenza dei loro oppressori, il risultato può essere ancora più devastante. L’eredità più sinistra del colonialismo è come esso trasforma il dolore in potere, trasformando coloro che hanno sofferto in involontari veicoli di danno. Lo sfilacciamento dei fratelli non è semplicemente il risultato dei loro fallimenti personali, ma un sintomo di un male molto più grande e pervasivo, che trasforma la condizione di vittima in una arma. In questo senso, il film vuole essere anche un monito, un promemoria: le ferite inflitte dalla storia non scompaiono; possono mutare, rivoltandosi all’interno, avvelenando anche i nostri legami più stretti. Se non affrontiamo questo ciclo, il dolore del passato continuerà a fare nuove vittime, talvolta anche con le nostre mani.
Vivere a Roma per quasi sette anni, in particolare a Roma Est, ha influenzato profondamente la mia pratica creativa e la concezione di „Come la notte“. Questa parte della città, spesso trascurata nelle narrazioni dominanti su Roma, è un paesaggio di migrazione, resilienza e movimento continuo. È un luogo dove le culture si incrociano, dove filippini, bengalesi, rumeni, nordafricani e molti altri coesistono, ognuno navigando il proprio cammino di appartenenza in una terra sconosciuta. A Roma Est la vita si svolge in piccoli gesti: i lavoratori che aspettano l’autobus prima dell’alba, le famiglie che si riuniscono in appartamenti minuscoli, le voci che si mescolano in diverse lingue nei mercati e nelle stazioni dei treni. Queste sono storie di lavoro, distanza, desiderio e sopravvivenza. L’esperienza filippina all’estero non è isolata: risuona nelle vite di altri migranti che stanno plasmando la città, negoziando i suoi confini e ridefinendo cosa significa casa in una terra straniera. Volevo catturare quest’atmosfera, i silenzi, l’indeterminatezza, il dolore non detto, ma anche la forza silenziosa di chi persiste. È un film nato dalle mie osservazioni e dalle esperienze vissute in una città che, nonostante la sua storia, è costantemente rimodellata da chi arriva e la fa propria.
Al centro di questa esperienza c’è l’autodeterminazione, il rifiuto di essere visti solo come ospiti o estranei, ma come persone che contribuiscono, che plasmano e che reclamano uno spazio nel tessuto della città. I migranti non sono figure passive nel paesaggio; sono partecipanti attivi nel costruire il presente e il futuro di questo luogo. Il loro lavoro sostiene la città, le loro voci le danno nuovi ritmi e la loro presenza sfida la nozione di chi appartiene. Per molti di noi, Roma non è solo un luogo di transito: è casa. Non nel modo in cui lo definisce lo Stato, ma nel modo in cui viviamo, amiamo e costruiamo la nostra vita qui. I migranti non si limitano a navigare il territorio, lo abitano, sognano al suo interno e lottano per essere riconosciuti come parte di esso. „Come la notte“ è, sotto molti aspetti, un riflesso di questa lotta continua e una testimonianza dei modi silenziosi ma potenti con cui viene reclamato lo spazio, anche di fronte ai confini che cercano di separarci“.