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Corpo, danza e decolonizzazione: Liryc Dela Cruz

Un'intervista per raccontare la mostra Il Mio Filippino: For Those Who Care To See, al Mattatoio fino al 30 luglio

Scritto da Nicola Gerundino il 18 luglio 2023
Aggiornato il 19 luglio 2023

Luogo di residenza

Roma

Attività

Artista, Regista

Quando si parla del binomio corpo-potere, il pensiero non può che andare alla ricerca di Michel Foucault e alle sue opere più importanti, che hanno raccontato come le istituzioni abbiano nei secoli “educato” e plasmato i corpi delle persone prese in carico. Un lavoro costante, continuo e anche “pubblico”, essendo, quello delle istituzioni, un assoggettamento comune e derivante dal Potere (quello con la P maiuscola). Esistono però tanti altri tipi di riscritture corporali, molte delle quali sono invisibili o sono ancora a fatica riconosciute come tali. Ad esempio il lavoro domestico, svolto nelle case private, che porta con sé lunghi strascichi coloniali, essendo spesso legato a popolazioni invase nei secoli scorsi dalle potenze occidentali. Il lavoro di Liryc Dela Cruz nasce proprio qui, da un’indagine sulla comunità del proprio Paese di origine, le Filippine (terza comunità asiatica più numerosa in Italia, la seconda comunità straniera più numerosa di Roma), il cui lavoro quotidiano e ripetitivo nelle case delle classi più abbienti viene raccontato attraverso una disciplina altrettanto incentrata sul corpo e lo sforzo fisico: la danza. “Il Mio Filippino: For Those Who Care To See” sarà in mostra fino al 30 luglio negli spazi del Mattatoio, nell’ambito del programma “Rifrazioni” promosso da SPAZIO GRIOT, quest’anno focalizzato sulla rappresentazione dei corpi all’interno della società e le modalità con cui questa viene creata e recepita, spesso con delle distorsioni molto forti. Ne abbiamo parlato con Liryc in questa intervista.

Come è nato il progetto "My Filipino: For Those Who Care To See" e cosa lo ha ispirato?

Prima di tutto vorrei sottolineare lo sforzo, il duro lavoro e la pazienza di Johanne Affricot e del suo team SPAZIO GRIOT per aver reso possibile tutto questo. Johanne ha pazientemente seguito i miei lavori e le mie ricerche per circa due anni dopo aver visto la prima performance dal titolo “Il mio filippino” al Teatro India. Quest’anno, a gennaio, mentre stavo affrontando un doloroso problema familiare e una delusione amorosa, Johanne mi ha chiamato di nuovo. Ho interpretato quel gesto come un segnale: finalmente ero pronto a incanalare la mia energia in altri percorsi e tornare a lavorare. Questo è stato l’inizio dei nostri lunghi incontri e delle molteplici sessioni di brainstorming che ci hanno portato alla nascita di un lavoro collettivo.

Come sei entrato in contatto con i soggetti della tua ricerca?

Questo lavoro si basa su esperienze vissute e su ricerche approfondite. Alcuni dei filippini con cui ho collaborato li ho incontrati perché è da loro stessi che ho imparato a “pulire”; altri li ho incontrati attraverso il coinvolgimento diretto nella comunità; altri ancora li ho conosciuti attraverso il mio stretto collaboratore e nostro “fratello maggiore” Benjamin Vasquez Barcellano Jr. È una figura molto significativa perché è anche un attivista culturale e un creatore: grazie a lui siamo riusciti a entrare in contatto con la comunità che, in generale, è molto generosa e accogliente. È l’ospitalità filippina.

Il tuo progetto insiste molto sulla dimensione lavorativa di questa comunità. Come viene percepita da parte loro: ci sono aspetti di alienazione e fatica che si nascondono dietro uno scenario domestico apparentemente sicuro e caloroso?

Penso che l’alienazione e la fatica siano molto diffuse in questo tipo di lavoro, ma è un qualcosa che la società ha scelto di rendere invisibile. Come ha detto la scienziata politica Françoise Vergès: “Senza il lavoro delle donne di colore, che è necessario ma deve rimanere invisibile – letteralmente e in termini di valore – il capitalismo neoliberale e patriarcale non funzionerebbe… la loro fatica è visibile a coloro che si prendono cura di vederla“. Permettimi anche di parlarti di “finto amore”, una dinamica che ritengo sia importante sottolineare in questo territorio che ha solide tradizioni cattoliche. Il finto amore è il confine o lo scudo che nasconde la violenza all’interno della casa del padrone. Di solito accade quando i datori dichiarano che trattano i loro lavoratori “come parte della loro famiglia”. Questo tipo di amore deriva dall’oppressione, è un confine imposto per impedire ai datori di vedere la vera situazione dei loro lavoratori: non professionalizzati, senza documenti legali, non pienamente protetti dalla legge e non pagati adeguatamente.

È inevitabile riflettere anche sulla dimensione "coloniale" dietro questo tipo di rapporti. Cosa hai rilevato a riguardo con la tua ricerca? Come viene percepito questo aspetto dalla comunità filippina e come influisce sulla costruzione dell'identità?

Il colonialismo è alla radice di tutto. I temi e le problematiche che caratterizzano questa mostra – lo sfinimento, la schiavitù, la razzializzazione, l’ineguaglianza – hanno avuto origine cinquecento anni fa, quando i colonizzatori spagnoli arrivarono sulle nostre coste. È qualcosa che secondo me non dovremmo mai dimenticare. Invece, Paesi come Spagna e Stati Uniti vanno tranquillamente avanti senza sentirsi responsabili di ciò che hanno fatto ai nostri corpi e alla nostra terra. La responsabilità è qualcosa a cui i colonizzatori sono allergici, puoi vederlo anche nell’arte contemporanea: vogliono solo che si parli di riparazione e decolonizzazione, ma si sentono a disagio quando si parla di responsabilità e affrontiamo la violenza di quella parte della nostra storia. Si tratta di ferite rimarginate? No, sono ancora aperte, rosse e sanguinanti. Mi chiedo quindi il perché di questa continua spinta ad andare oltre, senza guardare più al passato. La spossatezza e la violenza che i colonizzatori hanno inflitto ai nostri antenati si sono tramandate, sono incise nei nostri corpi, nella nostra psiche. Anche la direzione della migrazione dei lavoratori filippini all’estero (OFW, Overseas Filipino Worker, nda) è in qualche modo simile a come funzionava il commercio transatlantico degli schiavi durante la colonizzazione spagnola. È molto importante poi capire perché il maggior numero di lavoratori filippini si trovi in Italia e non in Spagna, dove potremmo avere una strada più facile per ottenere la “cittadinanza spagnola” a causa del nostro passato coloniale. Il motivo è che qui c’è il Vaticano, la croce: noi seguiamo la croce. Le eredità coloniali dell’Europa sono così forti che non riusciamo a liberarcene nemmeno oggi. Ti porto un altro esempio del collegamento stretto che c’è tra l’Italia e la storia delle Filippine: una delle figure più importanti, che è diventata il riferimento dell’Occidente nel definire i filippini e la storia delle Filippine, è Antonio Pigafetta, un ragazzo di Vicenza che era con Ferdinando Magellano. Non approfondiamo mai la violenza e le atrocità dei colonizzatori, ma le glorifichiamo. Abbiamo ancora avversione per la nostra pelle scura, vogliamo ancora essere bianchi, viviamo ancora nell’idea che non siamo allo stesso livello dei bianchi. Mettere in discussione ciò che stiamo facendo e quali strumenti stiamo creando è molto importante per capire come possiamo distruggere collettivamente le eredità e i resti del nostro passato coloniale. Un aspetto fondamentale dei nostri workshop e delle nostre residenze è infatti leggere testi e avere una discussione sul rapporto tra la ricerca e la storia.

È molto interessante l'accento che poni sui corpi e su come il lavoro sia legato alla "carne" delle persone. C'è un'indiscutibile dimensione biopolitica. Non è un caso che tu abbia utilizzato molto la danza, un'attività a sua volta estremamente fisica e corporea.

È importante riflettere su come questi corpi siano stati creati. Uso il termine “creati” non a caso, perché le Filippine, sotto il regime di Ferdinand Marcos Sr., per affrontare i debiti del Paese, l’alto tasso di disoccupazione e le tremende conseguenze della corruzione amministrativa, hanno consolidato l’economia dell’esaurimento e l’esportazione della manodopera, attraverso l’invio di lavoratori, prevalentemente donne, nel Medio Oriente, negli Stati Uniti e in Europa. L’assistenza, la pulizia, l’ospitalità, i corpi dei lavoratori di quel periodo sono stati amministrati e regolamentati, sia all’interno del Paese che nei territori in cui sono stati inviati. Ci sono due padroni coinvolti quindi: i padroni filippini e i padroni stranieri, che a loro volta “bastardizzano” i corpi, le connessioni umane e sociali, l’identità, le visioni e l’immaginazione. La creazione del “filippino” non è avvenuta trent’anni fa, ma, come detto, dovremmo tornare indietro di cinquecento anni, all’epoca del colonialismo spagnolo, poi dell’imperialismo americano, dell’occupazione giapponese e della dittatura di Ferdinand Marcos Sr. Ho pensato alla danza perché mi interessava la relazione spaziale e temporale dei corpi negli ambienti domestici che puliscono e mantengono. È interessante notare come i movimenti e i gesti, specialmente se si relazionano a un determinato spazio per molti anni, diventino fissi e ripetitivi. Mi sono quindi chiesto come i territori (la casa del padrone straniero) possano cambiare la definizione di base dell’assistenza, della pulizia e dell’ospitalità per questi lavoratori. Allo stesso tempo, attraverso la danza è possibile recuperare il contatto con i nostri corpi, con la terra, con il significato innato dell’assistenza e dell’ospitalità, che affonda le radici nella tenerezza e nella reciprocità. Tutti aspetti appartenenti ai nostri antenati nelle Filippine precoloniali.

"Il Mio Filippino" nasce anche dalle tue radici a Roma, che ormai hai messo da diversi anni.

La realizzazione del progetto è iniziata a Roma, ma è anche una lettera d’amore per mia madre e alcuni membri della famiglia che hanno avuto esperienze simili. Quando ho iniziato a essere coinvolto e immergermi nella professione e nella comunità, a sperimentare i problemi dell’essere “filippino”, quando ho incontrato altri artisti filippini a Roma e in altre parti d’Italia, ho pensato che tutti noi avremmo dovuto assolutamente fare qualcosa. E quello che mi commuove di più è che “Il Mio Filippino” sta diventando un lavoro collettivo.

Qual è la tua relazione con Roma? Che tipo di città è? Quali reti hai sviluppato?

È un cliché, ma ho un rapporto d’amore e odio con Roma (ride, nda). Amo come la città sia caoticamente bella, adoro la sua imperfezione, ma anche la sua magia e il suo mistero. Ho scritto nel mio diario una notte, dopo un momento di “peccato”: «Roma, ho fatto l’amore con te, ma continui a tradirmi e a distruggermi. Ti chiedo di farlo ancora una volta». Questa frase racchiude la mia relazione con la città: è la malinconica tenerezza violenta che abbiamo condiviso, che mi fa scrivere messaggi al mio ex amante alle tre del mattino (vabbè… Ciao proprio!). Senza glorificazioni e idealizzazioni, la zona di Torpigna/Roma Est è quella che mi stimola di più, perché in questa parte della città mi sento al sicuro, ma anche libero. Adoro il fatto che sia così rumorosa durante il giorno quanto misteriosa di notte. È affascinante come in questa zona si possano scambiare sguardi con i luoghi notturni e come questo permetta di osservare le nostre fragilità e vulnerabilità. Per quanto riguarda le comunità artistiche e creative, mi sento al sicuro e benvenuto da No Working/Stalker (a San Lorenzo) e in Pescheria (a Roma Est). Questi due luoghi sono la mia comunità, quella in cui posso sviluppare la mia pratica artistica in modo indipendente ed esprimermi senza inibizioni. Sono anche una famiglia per me.

Quanto è importante la danza nella tua vita personale e nel tuo lavoro artistico e cosa ne pensi dei club a Roma, lì dove musica, corpo e danza si fondono?

Ballo fin da quando ero bambino, facevo parte di diversi gruppi e team di danza. Ballare è molto importante per me: sono del sud delle Filippine e questa dimensione fa parte della nostra formazione. Ogni anno, una grande parte del nostro tempo è dedicata alle prove, ci prepariamo per competere con altre scuole durante i festival. Sono stato fortunato perché ho avuto a che fare con insegnanti e mentori generosi, che mi hanno insegnato diversi tipi di danza – in particolare danze indigene, folkloristiche, moderne e contemporanee – fin dalla scuola elementare. Ho smesso di ballare professionalmente dopo essermi rotto un braccio, quando ero nella squadra di cheerleading. Adesso mi sto riconnettendo con la danza professionalmente, attraverso le performance e altri nuovi lavori. Sono grato a Fanfulla per avermi salvato da diverse circostanze notturne ed esistenziali, anche quando volevo solo dormire. Al Fanfulla sono stato in grado di trovare certi incontri euforici che spero di ricordare un giorno. Ho anche scritto molti pensieri e riflessioni casuali mentre ero seduto o ballavo: un giorno li leggerai. O forse no. Questi incontri, il suono, le persone, la comunità, lo spazio, i sentimenti, hanno contribuito plasmare il modo in cui vedo il Mondo. E non sto semplicemente parlando delle cose positive, ma di qualcosa di più umano. Tropicantesimo, le Merende, le piste da ballo di Pescheria e il Fanfulla hanno giocato un ruolo essenziale nel modo in cui ho immaginato la performance di danza realizzata per “Il Mio Filippino”. È in qualche modo un ponte tra ciò a cui pensavo quando vivevo a Berlino, l’anno scorso, ballando ogni fine settimana al Berghain. Pensavo a come avrei potuto incorporare la musica techno nella performance. Ecco, gli incontri e le recenti esperienze nei luoghi che ho menzionato mi hanno sicuramente stimolato.

A cosa lavorerai nei prossimi mesi?

Al momento, coni i miei collaboratori, ci stiamo concentrando su “Il Mio Filippino”. Voglio sottolineare che non stiamo lavorando a una tendenza e non vogliamo diventarne una. Vogliamo concentrarci sul qui e ora. Viviamo in un mondo frenetico che ogni tanto richiede una nuova tendenza: è molto evidente nell’arte contemporanea, ma non vogliamo farne parte. Nel frattempo, è in fase di produzione/pre-produzione un nuovo film, potrebbe essere presentato in un festival o su YouTube (ride, nda).

Cosa ti piacerebbe realizzare a Roma?

Nulla per me. Forse un nuovo amante. O amanti (ride, nda).