Tutti sappiamo cos’è un rumore bianco. Spannometricamente sappiamo che è un fruscio capace di distendere e rilassare chi lo ascolta, che annulla i rumori circostanti, si mangia l’evento sonoro dell’ambiente e da galleggiare i pensieri in uno spazio pulito e calmo in cui tempo e spazio si sbiancano, si distendono e si dilatano. È uno di quei rumori che sussurrano, inducono a rilassarsi e lasciano pacifiche sensazioni, sono suono non minacciosi, tipo l’asmr, quella roba che la gente ascolta senza avere la minima idea di che cazzo gli stiano dicendo, e forse per questo è bello. Succede anche quando state nei pressi di un rivers, che sbianca i rumori con l’acqua. Lì potete ambire a stati di grazia disinteressata che solo la Natura con Pascal ha avuto la forza di esprimere.
Ma passiamo oltre. La cosa che interessa a noi di Zero non è distendervi, anzi: tutt’altro. Ma vogliamo lanciarvi una suggestione. Forse è il rumore bianco dell’acqua che fa sì che i Navigli siano il posto che sono, un piano di energia sonora e carnale, un flow continuo e caotico che ha le sue strategie per estrarre eventi stupefacenti, colori cangianti e mai visti che avrebbero fatto venire una mitragliata di infarti agli Scapigliati, i bohemien più tristi e rassegnati che la storia abbia mai prodotto nella lotta alla morale borghese. Un’energia che ci hanno descritto come il «flow dei rivers of Milano».
Un possibile racconto per farvi entrare nel flow comincia qualche decennio fa, diciamo tra gli anni Novanta e i Duemila, quando la Milano da Bere aveva già raschiato le più alte cime della tolleranza, nel senso che ok, sì, si beve Milano, ma magari evitiamo di ridurla esclusivamente a quest’immagine retorica, no? Insomma, in quegli anni si racconta di ambigue figure appostate sui rivoni cementati, agli angoli delle viuzze a latere dei rivers, a prendere bicchieri di vino tra i tavoli dei locali storici che si apprestavano a sostituire i ricordi cartolina delle vecchie osterie, tipi invisibili immersi folla, che scrutavano assennatamente le pieghe e i panneggi degli abiti più bizzarri, convinti che lì, tra tute adidas, scarpe con le zeppe e tartan alla boscaiola si sarebbe intravisto qualcosa del futuro prossimo. Sappiamo oggi che qualcuno ce l’ha fatta e qualcuno no. Meglio così. I Trend Hunters, che abbiamo appena trattato come pitch per la prossima inutile serie del cazzo, vagavano inquieti tra le vie acciottolate del quartiere Navigli. Gente inviata dai poteri forti, quelli che chiameremo qui i rettiliani della moda. Parliamo di brand come Armani, che poi s’è pigliato il Silos, Margiela, Marithé et François Girbaud. Gli Hunters erano a loro volta figure premonitrici, hashtag di carne in anticipo sui tempi, che marcavano l’esistente per elaborarlo in futuro. Gli Hunters cacciavano i trend sui Navigli proprio perché sapevano bene che tra la folla bisogna pur trovare un modo per distinguersi, e l’immediatezza sta lì, nell’abito, nelle correnti creative che solo l’affollamento, gli assembra-menti (AH!) possono generare, unitamente al via vai di turisti che assilla e coccola assieme questo quartiere, e che da lì in poi non farà altro che crescere.
Comincia così la nostra storia, con figure liminari e noir che iniziamo a plasmare l’immagine di un quartiere che da lì a poco si riempirà di gente, prima che il flow diventi feed, digitalizzando il Naviglio in infinite di riproduzione di sé stesso, spostando la corrente di persone tra i mosaici di pixel.
Nel flow dei rivers, in questa continua corrente alternata di gente, idee, proiezioni mentali del tuo io digitale, a formarsi è una cosa strana, uno spazio astratto che riesce a raccogliere i flow in insenature, gorghi di persone che si lasciano trascinare in locali, bar, osterie, negozi e cominciano, senza volerlo, a costruire un’immagine del quartiere. Sono designer, musicisti, stilisti, grafici, artisti, insomma, i Navigli diventano quello che sono oggi, una specie di Factory alla Warhole, pop, ipersessualizzata e festaiola. Perché la corrente, il flow, si dovrà pur scaricare in qualche modo oltre al lavoro, ed eccoci a oggi.
Una specie di Factory alla Warhole, pop, ipersessualizzata e festaiola.
Non aspettatevi però di trovare questi posti in chissà quale lucentezza, quale esposizione, no, tutt’altro. Dovete nuotare per trovarli, farvi trasportare dalla corrente, dalle processioni di amici e sconosciuti che beccheggiano tra le viuzze, ricalcando i tragitti degli Hunters. Perché questi luoghi, questi gorghi, sono in fondo luoghi qualunque. Se ci affidassimo al luogo comune per cui ogni quartiere ha il suo gabbio d’abitudini, quella cosa che poi si dice “vivere la città come un paesello”, quando ti dicono che avresti bisogno del passaporto per uscire dalla circoscrizione locals, ecco allora i Navigli sono potentissimi. Magnetici, Navigliocentrici, costellati di vortici, piccole spirali che trascinano qualche pezzo del flow della people in avventure lasciano segni.
Vi basti pensare all’Apollo, che tutti pensano come disco – e chiaramente lo è – ma se ci entrate al pomeriggio è come essere a casa di amici, o anche da A Better Mistake, che hanno aperto qualche mese prima della pandemia e l’idea era comunque questa, con le porte spalancate allo sguardo, insomma, un invito a entrare per due chiacchere o qualche bicchiere di vino e se proprio insistete una stretta di mano, un abbraccio, quelle pratiche che stiamo piano piano dimenticando nel baratro di un disagio solipsista e che solo la disinibizione psicotropa potrà risollevare, o al limite, l’insistenza di luoghi come questi. O il buon Antonioli che tra moda e serate, con il Volt, ha sussunto un po’ entrambi i termini, con l’attenzione alla notte e al modo di vestire, e penso a quell’hashtag di una maglietta che Tiberio, dell’Apollo, mi ha regalato, con una scritta tra tante che pareva una dedica proprio per me, e recitava: #looktunonentri.
Uno spirito comunitario, ci dicono quello dei Navigli, che per intensità di attività sessuale – qui si scopa, ci si diverte e ci si innamora, e forse per questo si sta bene e si lavora meglio, diciamo che questo è il rumore bianco – farebbe gongolare il buon Charles Fourier rispolverando il Falansterio da duecento e passa anni di oblio, per dirla a sproposito. Viva Fourier e l’utopia dei sentimenti celesti, dell’amore sfarfallante che a qualcuno può sembrare di ritrovare sui Navigli, volatile e capriccioso come le acque.
Il flow dei rivers è quella sensazione che solo i Navigli ti danno, quella di essere al centro del mondo quando in realtà sei a Milano Sud.
Ma che poi in realtà è sempre andata così, basta tuffarsi nel Naviglio e spazzolare l’acqua contropelo per ricordarsi di tappe incredibili come il King Kong in via Vigevano, centro chimerico e magnetico in cui avvenne l’unione pagana tra moda, musica e design, un’entità collettanea che s’espanse fino ai limiti anglofoni, da cui s’eietta Giorgio di Salvo che poi metterà in piedi United Standards, per dirvene una, o le serate folli tra rappers, writers e flûte di champagne che potete immaginare solo qui o vi spostate altrove, le comparse e gli esordi di Marcelo Burlon e di Pink is punk, per dirvene giusto un paio, con quello slogan Marcelo does Milan dedicatogli dal Times, ecco, capite, il flow dei rivers, che roba fa, che cosa provoca, da dove comincia e dove finisce? Il panta rei eracliteo del fiume che non è mai sé stesso due volte, proprio perché conserva il flow e lo propaga tra le sensazioni dell’acqua, dei rivers, che si confondono tra fiumi di gente, fiumi di eventi, e fiumi veri, fiumiciattoli, i rivers, appunto, e che se hai un minimo di sensibilità senti tutto questo assieme.
Il flow dei rivers è quella sensazione che solo i Navigli ti danno, quella di essere al centro del mondo quando in realtà sei a Milano Sud. Al di là dell’approdo turistico, dell’immagine-cartolina, della trasmutazione del flow nel feed di Instagram, questo quartiere ha inaugurato storie di una città che si è vista raccogliersi attorno a locali, bar, negozi, quei centri che sapevano far vorticare assieme le persone più disparate a una velocità tale da proiettarle il più lontano possibile, come una giostra alimentata dalla complicità, dalle feste, dai ritrovi, che più gente c’è più il flow è forte, più accelera, nella speranza che qualcuno si eietti grazie alla forza di tutti oltre la coltre giallastra del cielo di Milano, ricordando così che se solo ci provi, seguendo i Navigli arrivi davvero al mare, e da lì vai dove cazzo ti pare, dove ti porta la corrente, ma sempre con quella pacatezza che solo il rumore bianco sa darvi.