Fonti certe sostengono che alcuni squinternati entrati a Parco Nord una sera dell’estate scorsa stiano ancora vagando tra i pioppi, vivendo di carote e patate rubate agli orti comuni. Sono entrati da Viale Suzzani e non sono mai usciti, dicono. Sono nate storie di funghi, di rapimenti, di incontri del terzo tipo e oggetti volanti non identificati. Siamo qui per raccontarveli tutti, e per sfatare qualche mito.
Per cominciare dalla Storia, diciamo da subito che siamo davanti uno dei più forti successi di riqualificazione delle grandi aree avvenuti dopo la Seconda guerra mondiale. Già, perché le radici degli alberi che disegnano la geografia del parco affondano sulle ceneri di un luogo che aveva un aspetto ben diverso. Avrete ben presente gli anni rampanti nei quali Henry Ford consentiva la locomozione mondiale sfornando Ford Model T nere a tutto spiano. Ebbene, anche in Italia contribuivamo alla velocizzazione del movimento umano con pari veemenza: producevamo locomotive. Era il 1903 e l’ingegner Ernesto Breda si accingeva ad acquistare terreni per far sorgere i nuovi stabilimenti della leggendaria industria che da lì a poco avrebbe inventato il treno come tutti lo conosciamo. Non un eccellente momento per gli acquisti, direte voi, dati i tormentati anni che sarebbero succeduti poco dopo. Ed effettivamente la produzione della Breda dovette far fronte a una repentina conversione per rispondere alla richiesta di materiale bellico che avvenne durante i conflitti mondiali, e la scelta ricadde sulla frontiera della velocità: il volo. Dopotutto niente al mondo avrebbe potuto prestarsi al collaudo degli aerei più di un enorme campo aperto, e così su questa terra plagiata dalla lavorazione metallurgica sorse e cadde la Breda Aereonautica.
Di quei quarant’anni di industria che ci appaiono come una rivoluzione di un secolo rimane poco, se non una certa postura tecnica alla velocità.
Immaginate quindi un’immensa distesa brulla e scura, dove giacciono le rovine di un mostro industriale sgretolatosi sotto i bombardamenti e dove l’ossigeno delle infestanti spontanee è soffocato con pigrezza da puzzolenti discariche. Quest’immagine che vi siete fatti era Parco Nord dal ’44 al ’70. Crediamo sia propriamente per questo strano tempismo, di una costruzione a cavallo tra gli anni d’oro dei Beatles e Luchino Visconti, che il nostro Parco non sia mai stato scelto come set prediletto per opere magne. A intravedere il potenziale di quest’area – a fare di necessità virtù, diciamo – fu poi la Santissima Regione Lombardia che per sacra intercessione iniziò la riforestazione della quale oggi possiamo godere: un intervento mastodontico che tuttora si configura come un work in progress – viste le dimensioni e la complessità naturale dell’ambiente. Di quei quarant’anni di industria che ci appaiono come una rivoluzione di un secolo rimane poco, se non una certa postura tecnica alla velocità. Ci sono i rifugi antiaereo e la pista di collaudo, oggi base dello storico Aero Club Milano, da cui ogni giorno e ogni quarto d’ora un biplano parte, e si vedono piccoli aerei da corsa e aerodinamici, trabiccoli che non si sa come facciano a volare, aerei identificabili, ma tutti che seguono sempre la stessa traiettoria: sguardo rivolto a Nord, si possono vedere tutti.
Quindi, a meno che non siate degli amatori del volo acrobatico, Parco Nord si rivela prima di tutto un posto perfetto per la corsetta domenicale, per picnic, per infrascamenti e nascondimenti vari. Ma tra le prime cose che si notano, per quanto vietata anche dalle ultime pallosissime istanze – esattamente come per droni, topless e tanga –, sembra essere uso comune e consolidato che i cani vengano lanciati all’arrembaggio per tutti e ottocento gli ettari di erbe incolte, perciò vi consigliamo di venire a correre qui solo nel caso in cui foste atleti provetti – onde evitare spiacevoli incombenze. In questa prospettiva, più sicura sembra essere la corsa in bici; sì, perché nel parco c’è il velodromo pop della capitale meneghina che dal 2004 fa il verso ai turbofighetti del Vigorelli. Insomma, bastano un casco e due ruote da 24 e si va a sfrecciare in pista, con tutta la sicurezza che occorre. Qui al velodromo, infatti, ci informano con più veemenza del divieto di cani, cavalli e altre bestie sguinzagliabili, così da poter tirare più che altrove respiri di sollievo. Per arrivare al velodromo basta percorrere trecento metri dal cancello all’incrocio tra via Berbera e via Finanzieri d’Italia – ma attenzione: fuori dalla pista si deve tenere un’andatura di massimo 15 chilometri all’ora. Pena? Boh. Non è chiaro.
Capirete che quindi il ritmo del Parco è tendenzialmente concitato, e può certo sorgere la necessità di una pausa, di un momento di ricarica, tra una fuga e una biciclettata affannosa. Al di là degli articoli vari che raccontano di una bellezza antica e selvaggia deturpata da venditori di sogni all’ombra delle radure, il buon senso suggerisce di dirigersi verso uno dei tanti orti sociali che s’aprono all’improvviso tra un torrente e una piana. Sono tanti in quei pertugi a produrre da sé svariate leccornie – niente psicotropi – e in particolare gli orti all’ingresso di Via Adriatico promettono dolcissimi frutti, quelli in Via Giacomo Leopardi grandi limoni in maggio, circondati da ciliegi giapponesi a fioritura rosacea. Romantico, come le vite dei nonni.
A metà tra un futuro interrotto e uno di quei passati aurorali e paradisiaci, il Parco Nord contiene quelle contraddizioni a metà tra un sogno perduto e un futuro brillante.
Rimanendo nell’ambiente dei ricordi, a sud del Parco, tra l’ingresso ciclabile di Sesto e proprio sotto Bresso, c’è la Montagnetta: un rilievo artificiale che vuole ricordare sia il passato industriale della zona – perché si innalza nello stesso punto e allo stesso modo in cui si innalzavano i cumuli di rifiuti e macerie sopra i quali gli appassionati di motocross se la spassavano alla grande – che i seicento operai dell’industria che furono arrestati dai nazifascisti e deportati nei lager. A loro è dedicato il Monumento che ogni anno raduna la comunità milanese per celebrarne la memoria. Parliamo di un’opera realizzata alla fine degli anni Ottanta da parte dei grandi fratelli architetti Ludovico (ex deportato) e Alberico di Belgiojoso, tanto simbolica da essere stata oggetto di turpità da gruppetti di neofascisti.
Non lontano dalla Montagnetta, si può anche incamminarsi verso ovest finché non s’incontra un laghetto di chiara manifattura, una pozza artificiale. Malauguratamente non è consentito buttarsi in acqua. Ma qui si viene per interrogarsi di fronte a una grande bolla galleggiante che affiora dall’acqua piatta. Agganciata da un lembo metallico al litorale erboso, ambigua e aliena nella sua placida presenza, a guardarla bene può ricordare un po’ la Città delle Arti e delle Scienze di Valencia, ma si chiama Oxy.gen: uno spazio semisferico dal gusto futuristico e brutalista realizzato sull’onda dei lavori di Expo 2015, che vuole essere uno spazio di divulgazione con al centro il concetto del respiro, sia umano che del pianeta.
Insomma, Parco Nord può di certo sembrare un po’ trasandato, ma la verità che propugniamo è che questo parco non si cura troppo per non perdersi in altrettante ciance. Riserva sorprese: cani che divagano e rincorrono, comunità indiane in festa, folle inaudite intente nei pranzi di picnic dai colori bucolici, aerei che sorvolano ogni testa ogni quarto d’ora, ricordando che anche se tutto è placido è soltanto apparenza, poiché tutto corre qui, monoplani, bicilette, corridori e cani. La gita al Parco Nord ci lascia quindi sostanzialmente perplessi. A metà tra un futuro interrotto e uno di quei passati aurorali e paradisiaci, il Parco Nord contiene quelle contraddizioni a metà tra un sogno perduto e un futuro brillante, tra la rovina e il cantiere, tra l’orto e il boschetto selvatico.