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Il rifiuto del monopolio e il desiderio di connettere individui di OHT

Cercare un nuovo sguardo sul mondo e farlo con il teatro e i progetti performativi: questo è OHT, il contenitore di studi, fondato da Filippo Andreatta

Geschrieben von Francesca Rigato il 18 Januar 2024
Aggiornato il 8 Februar 2024

OHT, Little Fun Place. Ph Rosa Lacavalla.

Monte Baldo, Biaena, Monte Stivo, Pasubio, Zugna, Piccole Dolomiti sono le montagne che abbracciano Rovereto e mi accolgono silenziose svettando immobili in una fredda, ma limpida, mattina di dicembre. Il disegno del loro profilo appare netto e segna il confine tra terra e cielo sotto cui ho incontrato Filippo Andreatta, regista e curatore teatrale, al bar del Mart di Rovereto – il famoso museo progettato da Mario Botta, che si incastra tra le rocce trentine. Ed è proprio di questo che parliamo, di paesaggio, di luoghi e spazi: «Non distinguo paesaggio urbano e paesaggio naturale perché sono entrambi totalmente antropizzati» dice Filippo «perciò non affronto il paesaggio umano in maniera diretta, il territorio che mi interessa e su cui ho lavorato tanto è quello alpino che ha valore estetico, nel suo rapporto con la bellezza e il sublime e, allo stesso tempo, ha a che fare con dei contenuti politici molto forti anche senza essere esplicito».

Territorio, architettura, comunità, ricerca, monopolio, montagna, storia, sono solo alcune delle molte parole che risuonano durante la nostra lunga e densa conversazione. Sento che ci sarebbe bisogno di inventare nuovi vocaboli, spostarli di significato, mischiarli e forse non mi basterebbe una vita intera per riportare la complessità e la bellezza del paesaggio che Filippo crea.

Ma le sue non sono visioni astratte, infatti Filippo è il fondatore di OHTOffice for a Human Theatre – un macro contenitore, nato nel 2008, che unisce performance e spettacoli a progetti di ricerca per sfogare «la necessità di incontrare persone e studiare».

Di questa scatola fa parte Little Fun Palace: «un progetto che nasce come connettore di individui» mi dice, ovvero una roulette che dal 2018 viaggia per i monti e si stanzia, o meglio, si parassita a istituzioni, musei e spazi, e da lì amplia la sua essenza connettendo mondi. L’idea ha avuto origine, come molte, grazie al connubio tra intuito e pragmaticità: inciampare in una roulotte in Emilia Romagna a 50 euro e vederne le infinite possibilità di rinascita. «Mi interessa molto ragionare sullo spazio, pubblico e privato e quindi ragionare su un progetto che si inserisce in questo margine spaziale di “risulta”, è stato naturale. Rispetto a quando è nata, oggi la roulotte è cambiata tantissimo, quella che si crea intorno di volta in volta, è una comunità che dipende dalle realtà che vengono parassitate e dal programma di Little Fun Palace. L’ultima volta, per esempio, abbiamo lavorato con lo staff curatoriale di Pinacoteca Agnelli riflettendo insieme sul concetto di sciopero». 

Ma quando si nasce con l’anima vagabonda, ogni cosa vivrà in quello spettro. E così mi sento di parlare anche di gran parte della ricerca di Filippo, come nel caso de La scuola nomadica, progetto che si occupa di studio e ricerca intorno alle arti performative. Dodici partecipanti più una serie di mentors tra cui esperti ed esperte dell’arte selvaggia – ossia della natura incontaminata – (selezionati tramite call), chiamati a passare 12 giorni in alta montagna con lo scopo di «creare uno scambio di progetti e pratiche pensati in relazione con un paesaggio che può essere realistico, mentale o altro». Filippo vuole ampliare gli orizzonti di un pensiero del teatro cercando nuovi punti di vista, evitando il monopolio e creando «delle opere che permettano alle persone di entrarci e starci dentro e trovare quello che sono. È umanamente avvilente pensare di fare un lavoro con un significato univoco, l’idea è che lo spettatore diventi coautore dell’opera e non un mero osservatore/osservatrice».

Accanto a questi progetti si apre una rosa di spettacoli: da Curon/Graun (2018) a 19 luglio 1985 (2019), da Un teatro è un teatro è un teatro è un teatro (2021) a Frankenstein (2023), in ciascuno di essi è rivendicato un luogo che viene riletto secondo un’altra prospettiva, una delle possibili, una delle tante, ma che dà una diversa idea di uno spazio prestabilito. E si muovono di città in città, passando spesso anche da Milano, portando luoghi dentro altri luoghi: «Una cosa che mi affascina molto è quella di far emergere i luoghi al di là di ciò che sembrano e ridare una complessità a un piccolo borgo o a un paesaggio innevato, che non è solo quello che si vede. Mostrare ciò che è nascosto non è così semplice: la cosa principale per me non sono i rapporti interpersonali ma quelli intersezionali. Ovvero comprendere che ci sono più fattori che creano un paesaggio o un luogo, più forme di vita umane, non umane, super umane». Capite ora perché dico che quello che Filippo fa è creare delle visioni, dei veri e propri paesaggi che non possono essere tradotti ma solo vissuti.
E dopo tanto parlare del “dove” è il “cosa raccontare” che chiedo a Filippo per capire quali sono le storie che gli interessano e che sente di voler approfondire: «a me non interessa la storia egemonica ma quella legata ai corpi e ai sentimenti delle persone. Non credo sia interessante un unico monopolio storico, però mi interessa una storia legata agli individui e ai sentimenti, ovvero al personale che si fa politico».

È una ricerca rara ed estremamente necessaria quella di OHT, che si inserisce e al tempo stesso si discosta da un ambiente teatrale e anche letterario spesso autobiografico. Lui rifiuta la «monocultura», ovvero uno sfruttamento unidirezionale di un territorio, anche quello creativo, che finisce con il renderlo sterile. L’alternativa su cui, vagabondando per il mondo senza rivendicare nessuna terra, cerca di fare Filippo e quindi OHT, è quella di dare un significato nuovo a un’immagine definita come quella di una montagna, di un teatro o di un luogo, viaggiando su ruote di altri piani temporali e di linguaggio.