Partiamo pure con il dire sinceramente che se la maggior parte di questi articoli cominciano con un bel «Tutti conoscete sicuramente tal-dei-tali-posto -persona-cosa» una ragione c’è. In questo caso, sono i venti popolari di NoLo quelli che soffiano trascinando vibrazioni sottili fin nei meandri più densamente milanesi di questa città. Come dire che seppur la Martesana non apra le sue acque in Darsena, qualche goccia là ci arriva lo stesso, e prosegue per le riserve faunistiche là sotto, fin dove il milanese va. Forza centrifuga e centripeta: NoLo ha sempre conosciuto Milano ma è solo da pochi anni che Milano conosce NoLo. E se la piazzetta Morbegno è ormai sulla bocca dello zio dei Navigli o del fra del Giambellino, c’è forse un unico altro posto che gioca il testa-a-testa. Perché «tutti…» sì, lo stiamo dicendo, di nuovo, perché chi non conosce il Mercato Coperto di viale Monza ha sbagliato tutto nella vita.
Già scendendo a Pasteur si fa notare per la stazza. Lo vedete in lontananza, quel curvone è inconfondibile, ma la gente si vede solo una colta varcata la soglia. Ma andiamo con ordine.
Si tratta di uno dei mercati rionali più antichi di Milano. Forse il più vecchio. L’architettura non inganna nemmeno chi architettura non l’ha fatta, quella roba è del Trentatré. Quando viale Monza probabilmente era campagna, o quasi, quando c’erano i filari di platani a bordo strada, quasi tutto era pedonale e al centro sfrecciava un futuro mancato per un soffio: l’omnibus e l’ippovia che da Porta Venezia portava dritto dritto a Monza (Ricordiamo velocemente, in prosa, un pezzo che ogni milanese dovrebbe conoscere: Oi bella tu voi venire sull’omnibus con me. Mi no ghe vegni no, mi g’ho paura de borlà giò [è Nanni Svampa]). Manco cent’anni fa, pensate. Manco cent’anni fa, quando il sogno bucolico che attanaglia un po’ tutti, quello di trovare un pertugio al verde, incastonato tra cieli puntellati di stelle, che sappia portarvi a Milano in un baleno, era già finito. Proprio così. Cosa credevate? Che negli anni Venti del Novecento la campagna cingeva la città? Macché, già era cementata da mezzo secolo, quando viale Monza divenne una delle direttrici principali dello sviluppo urbano, e ciaone ai borghi rurali, che presero i toni grigiastri del proletariato industriale, che a sua volta dimenticò la merda e la melga [per i profani totalmente urbanizzati stiamo parlando del granoturco] per le fabbriche e l’organizzazione elettrica di una città fulminea.
E il fulmine che tutto governa, per dirla con parole d’altri, lo si vede ben bene dal sogno pubblico di quel cemento armato di cui il Mercato forse è un po’ l’emblema: l’utopia centenaria di una modernità in cui convivono tutt’oggi l’accelerazione sfrenata e il sogno di un internazionalismo spalmato sul globo, un po’ come si spalma la nutella sulle fette biscottate: ovunque, senza nessun buco. Lo ripeto, nessuno.
Tradotta in termini più pratici ed evidenti, la pappagorgia al contrario del mercato è un’opera magna.
Tradotta in termini più pratici ed evidenti, la pappagorgia al contrario del mercato è un’opera magna. Stiamo parlando della navata centrale: sedici metri. Volta a botte. Senza colonne. Se non vi ritrovate nella descrizione è perché la controsoffittatura impedisce al vostro sguardo di perdersi nell’aere echeggiante delle somme altezze della modernità. Ma perché, vi chiederete voi come ce lo siamo chiesto noi, sto mercato è così alto? E perché assomiglia a una stazione? Alla seconda, vi diamo una risposta tendenziosa, perché vi vorremmo riportare al sogno classicamente moderno del treno, grande simbolo del primo Novecento, e alla maestosità delle stazioni del diciannovesimo secolo, con i loro sogni di velocità macchiniche che il futurismo aveva già colto, ben prima dei nostri postumani da bistrot. Rivolgiamo ancora un pensiero all’omnibus, nostro futuro perduto, steampunk. Ma tornando alla prima domanda, al perché delle incommensurabili altezze delle volte, dovete sapere che questi mercati non erano pensati per essere tali per sempre. Anzi, li si pensava con destinazioni diverse, variabili all’occorrenza. E il nostro Mercato poteva perciò essere convertito o in salone da spettacoli o in autorimessa. Così, cose che vanno a braccetto. Spettacolo e velocità. No?
E insomma, vi lancio una riflessione dopo un’altra. Forse, l’unico modo per superare e per farla finita con questa modernità con cui tanto l’Occidente che, a questo punto inconcludente, il Mercato Rionale di viale Monza dovranno prima o poi fare i conti, qui tra cemento e monumentalismo, è non focalizzarsi solo sugli aspetti turpi dell’urbanismo sfrenato, i cui effetti conosciamo piuttosto bene. Ma pensare piuttosto a quello spirito internazionalista che oggi può evitare le centrature e gli accentramenti dell’epoca. Perché checché se ne dica, quella modernità è ancora qui. Dite che stiamo esagerando? Stiamo veramente esagerando a parlare di tutto questo rispetto al Mercato di viale Monza? Sì, non c’è dubbio alcuno. Lo sappiamo, e non vi vogliamo prendere per il culo, non sia mai. Ma solo farvi perdere ogni tanto il filo del discorso, deviarvi in ambiti improvvisi ma sicuramente pertinenti, e riprendervi più in là, dove però si perdono le parole al quinto mezzo litro di rosso nella vineria del mercato coperto, con il buon Maurizio che ci guarda con occhi azzurri e dolci e ci chiede cos’altro vogliamo da bere. Lì sì che c’è quella verve popolare da osteria, si grida, si scherza, si beve e si mangia. Non vi mento se vi dico che mi è capitato di essere lì e trovarmi in mezzo a tre feste di compleanno. Simultanee. Due su tre li conoscevo pure. E insomma, già che ci sei perché non prendersi un bel pollo alla cacciatora da Cunza, che si ordina lì all’angolo proprio davanti al Mauri, e si mangia in giro. È una fiera quella dentro al mercato, proprio come il salone da feste. E vi giuro che quel pollo è stato una manna dal cielo. Oppure se arrivate presto e vi voltate di spalle c’è il formaggio. Vino e formaggio, non posso non lanciarvi un proverbiale: la bòca l’è minga stràca se la sa nò de vàca. Incontestabile. Ma subito dietro c’è poi la cosiddetta Locanda dei Terroni, di fianco alla pescheria, che è tanto ben allestita che pare di stare in un set cinematografico. Non bisogna nemmeno sottolineare il fatto che si mangia perché si sa che si mangia, bene e tanto.
Voi pensate al Mercato Coperto, alla velocità serafica e decisa dell’omnibus, alla mescolanza di attività che il viavai del mercato s’ostinerà a tenere.
E questa era una scena serale in giorni felici – e ormai quest’espressione la riferiamo esclusivamente a ciò che erano i giorni e le notti all’aperto –, di quelle che ci scendono le lacrime a pensarci due volte. Ma poi, ora: la folla. Chi se la ricorda la folla? Il virus è misantropo, e ci ha sussurrato all’orecchio per tanto tempo. Ma bravi, voi non cedete. Voi pensate al Mercato Coperto, alla velocità serafica e decisa dell’omnibus, alla mescolanza di attività che il viavai del mercato s’ostinerà a tenere. E se ripensate a qualche paragrafo più su, alla questione di un sogno utopico per certi versi internazionalista e non accentrato, capirete che il Mercato Coperto è un ipotetico tassello di questo sogno. Un centro tra tanti all’interno di una rete plurale, che guardando in avanti vede una città a portata di mano. Perché dentro di sé nutre e conserva il giorno e la notte, e chissà, chissà se vedremo mai un tram in autorimessa nel mercato rionale, magari mentre un corpo di ballo danza la cumbia di fronte a una platea intenta a mangiare una pasta col polpo. Chissà.