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Intervista a Emilio Isgrò

Protagonista di una triplice mostra a Palazzo Reale, Gallerie d'Italia e Casa Manzoni fino al 25 settembre

Geschrieben von Marco Scotti il 11 August 2016
Aggiornato il 13 September 2016

Abbiamo incontrato Emilio Isgrò negli spazi del suo archivio milanese, mentre fino a settembre è allestita a Palazzo Reale – e nelle sedi parallele delle Gallerie d’Italia e Casa del Manzoni – una grande mostra, occasione straordinaria per indagare la ricerca di questo artista. Abbiamo voluto affrontare insieme a lui un percorso parallelo nella sua opera, a partire dalle cancellature – probabilmente la prima cosa a cui tutti pensano quando si parla di Isgrò – per arrivare a parlare di Milano, di Art Basel, e del perché non si considera un artista concettuale…

Ingresso dell'Archivio Emilio Isgrò
Ingresso dell’Archivio Emilio Isgrò

Zero: La mostra attualmente in corso è un percorso che affronta il suo lavoro con un approccio tematico e al tempo stesso antologico. Come è nata, e come ha lavorato con il curatore Marco Bazzini?
Emilio Isgrò:
La mostra è partita da un’idea di Palazzo Reale, in particolare di Domenico Piraina, e di Michele Coppola, responsabile delle attività culturali per Intesa SanPaolo, per le Gallerie d’Italia. Naturalmente poi l’Archivio Isgrò aveva qualche interesse obiettivo a essere coinvolto in prima fila… Il progetto quindi è stato nostro, ma elaborato insieme a queste figure.
Il risultato è stato da un lato un excursus storico, ma non cronologico. O meglio, cronologico dove si poteva, dove non si poteva invece ci siamo mossi per temi, per cicli: il tema dell’identità, quello della cancellatura vera e propria, gli insetti, i particolari. Tutto ciò insomma che il mio lavoro ha toccato in questi anni.
L’unica persona però che può rispondere dei criteri di allestimento è il curatore, Marco Bazzini, che chiaramente non si è messo ad agire senza consultare l’artista. Però la curatela è sua, e io ho visto soprattutto il risultato e ne sono più che contento. Ma d’altra parte stimavo molto Bazzini, che aveva allestito la mia prima mostra al Centro Pecci di Prato e che anche questa volta si è rivelato all’altezza della situazione. C’è davvero molto consenso intorno all’operato del curatore!
Posso aggiungere che abbiamo puntato a un allestimento senza pesantezze di tipo architettonico – che spesso puniscono certi spazi – e ci siamo affidati soprattutto alle luci, attraverso la collaborazione con un maestro come Piero Castiglioni.
Insomma, hanno risposto tutti molto bene, lo stesso assessore Del Corno, per il comune di Milano, ha fatto tutto il possibile perché l’operazione riuscisse: diciamo che è una vittoria ottenuta con il concorso di molte persone. L’artista, da parte sua, spera che il suo contributo non sia stato secondario a quello del curatore…

Emilio Isgrò - L’occhio di Alessandro Manzoni
Emilio Isgrò – L’occhio di Alessandro Manzoni

E il pubblico?
Sta rispondendo, si sta creando una linea di adesione che ha sorpreso anche me. Favorevolmente, e non perché non me la potessi aspettare, ma assolutamente non di queste dimensioni.
Anche perché sono sempre stato considerato un artista “difficile”. Ma da altri: ad esempio da una parte del mercato e della critica. Io ho sempre inteso fare un’arte che parlasse non a pochi, ma che fosse almeno virtualmente in grado di essere fruita da un pubblico più vasto, che non può essere solamente quello del mondo dell’arte. I fatti hanno dimostrato che avevo incontrato questa strada con qualche ragione: ho visto in mostra mamme con i bambini nella carrozzina che non si scandalizzavano per niente per le mie opere più difficili, mentre i bambini si alzavano per inseguire le formiche… Questo è un fenomeno a cui miravo, in conflitto con una visione dell’arte troppo per addetti ai lavori.

Non posso non partire – per parlare del suo lavoro – dalle cancellature. Posso chiederle da dove ha iniziato a elaborare questo linguaggio, e come guarda oggi a questo percorso?
Le prime cancellature sono del 1964, ma evidentemente ci sono opere non strettamente assimilabili a livello visivo che però rispecchiano una filosofia del vedere che è di tipo cancellatorio. Il lavoro Dichiaro di non essere Emilio Isgrò ad esempio è una cancellatura, espressa con altro linguaggio.
Se da un lato la cancellatura riserva molte sorprese, dobbiamo domandarci il perché: non è, come qualcuno ha potuto pensare, uno stile – non è né l’astrattismo né il cubismo – e non è neppure l’arte concettuale, anche se con questa a volte è stata imparentata. La cancellatura è un linguaggio, è l’altra faccia della luna, che a un certo punto meritava di essere esplorata. Si impregna come una spugna di tutti i contenuti che va a sfiorare, di tutti gli stili che tocca: se cancella un testo di Tolstoj è tolstojana, se cancella un quadro di Michelangelo è michelangiolesca…
Il lavoro lo fa la cancellatura, io guardo. Però è chiaro che questa è una formidabile macchina che produce immagini e scritture, uno strumento così sofisticato che alla fine sembra ovvio.

Emilio Isgrò - Dichiaro di non essere Emilio Isgrò
Emilio Isgrò – Dichiaro di non essere Emilio Isgrò

In particolare mi piacerebbe approfondire con lei il rapporto tra testo e immagine nel suo lavoro, come si è articolato nel corso del tempo.
Fu alla base della mia concezione della Poesia Visiva negli anni Sessanta, e ritorna costantemente nel mio lavoro. In un certo senso se la gioca con la cancellatura! Se pensiamo a un lavoro come Volkswagen, ad esempio, c’è il rapporto tra iconico e segno verbale che ho sempre perseguito.
Ma vi dirò di più, so benissimo che c’è un conto aperto tra il mio lavoro e l’arte concettuale, però oggettivamente almeno da questo punto di vista ritengo che questa sia riduttiva, quasi ingenua. Non affronta uno dei problemi chiave, il rapporto tra immagine e parola, che rimane centrale da Mallarmé fino ad oggi. Ovviamente con grande rispetto per il lavoro di alcuni singoli artisti…

Emilio Isgrò - Volkswagen
Emilio Isgrò – Volkswagen

Ci sono degli artisti che considera suoi compagni di viaggio? Con il suo lavoro ha attraversato momenti, movimenti, generi…
Se c’è una cosa che non amo è la corporazione degli artisti. Potrei dire che agli artisti preferisco gli uomini, e di qualche artista sono stato amico. Ma non in quanto artista. L’arte non nasce dall’arte, nasce dalla vita e dai rapporti umani

Ho recentemente avuto la fortuna di vedere i suoi lavori tra gli archivi e le collezioni dello CSAC Università di Parma. Può raccontarci come nel 1976 si è trovato a esporre a Parma? Se non sbaglio è stata la sua prima antologica.
È stata davvero la mia prima! Devo ammettere che allora Arturo Carlo Quintavalle aveva avuto un bel coraggio a organizzarmi una mostra simile, perché io ero un artista molto giovane. Dobbiamo anche tenere conto però che allora le mie opere esercitavano un potere di stimolo e di reazione che è subito emerso: Isgrò non appare sulla scena oggi, è solo più visibile e leggibile. Ma per fortuna ho lavorato tutta la vita, con un pubblico – a volte anche ampio – che mi ha sostenuto. Poi ovviamente ci sono anche persone che non mi hanno sostenuto, magari perché non interessati a quel particolare discorso, ma dobbiamo sempre considerare che un conto è la cultura, un conto è il mercato. Io a questo non ho mai fatto grandi inchini, pur riconoscendone l’importanza: è chiaro che se il mercato non trova dei devoti cerca di lasciarti indietro, poi a volte ci riesce, altre no.

Emilio Isgrò - Dichiaro di essere Emilio Isgrò
Emilio Isgrò – Dichiaro di essere Emilio Isgrò

Per fortuna!
Il mercato è una parte della cultura, ma non ne esaurisce tutto l’orizzonte. Evidentemente un certo pubblico non era pronto per questo mio discorso. Probabilmente, ed è paradossale, proprio il pubblico più supponente, quei borghesi che avevano bisogno di chiedere all’ideologo di turno come comportarsi rispetto a certi fenomeni. Ma non c’è niente di strano, è stato sempre così: oggi addirittura a volte l’ideologo non basta, bisogna chiedere all’agente di borsa come investire… È un guaio per la cultura, ma non bisogna neppure scandalizzarsi: insomma, ben venga il mercato se fa la sua parte, e qualche volta la fa.

Come è stato a questo proposito per Emilio Isgrò trovarsi quest’anno ad Art Basel, probabilmente la fiera d’arte più importante del settore, nella sezione Unlimited, dedicata alle grandi installazioni?
Beh, ha stupito molto. E le dirò che ha stupito anche me!
Ma non perché non conoscessi quel mio lavoro (Encyclopaedia Britannica, 1969), piuttosto perché essere immesso in un contesto così importante all’improvviso, dove gli artisti erano tutti grandi, e in qualche modo aver retto un certo dialogo, è motivo di soddisfazione.
Questo poi non significa che uno debba pensare che la propria storia è finita: io sono uno di quei classici artisti la cui storia comincia da vecchi, purtroppo per me. Vuol dire che mi tocca lavorare…

Emilio Isgrò, L'ora italiana
Emilio Isgrò, L’ora italiana

Questo però apre anche una serie di prospettive sul futuro.
Si pensa che un artista abbia anche questa funzione. Io non ho costruito tutto questo per caso, potevo anche aspettarmi che potesse succedere, anche se non ho mai fatto nulla per accelerare i processi. Io sono siciliano, e quindi fatalista!
Sicuramente non pensavo che succedesse ora, così all’improvviso. Sono rimasto sorpreso, ma in fondo il primo a essere sorpreso di ciò che ho fatto a volte sono io.

Nella sua ricerca sembrano essere sempre presenti due linee, quella relativa a una rappresentazione della propria identità e un’altra che ha affrontato una serie di riflessioni su società e politica… come concilia queste dimensioni, apparentemente opposte?
Dalla dimensione privata a una dimensione pubblica. Questo non deve meravigliare, io ho un tipo di educazione aperta, fin da ragazzo sono stato abituato a non meravigliarmi né di me stesso né del mondo. Quindi in qualche modo interagisco con il mondo.
Negli anni sessantottini ho fatto un’opera, una scritta: Da Isgrò alle masse, dalle masse a Isgrò. L’artista tende sempre a dare una dimensione sociale al proprio Io, chiaramente poi in certe opere ci sono tratti più introspettivi, mentre in altri momenti l’artista può andare in direzione più pubblica, ad esempio nel mio L’ora Italiana.
Se c’è una cosa che posso sottolineare, a meno che non sia la prossima domanda che aveva pensato, è questo mio agire su terreni estremamente sperimentali in una prospettiva che guarda al passato, non al futuro, capace di recuperare anche certi stilemi della grande tradizione letteraria e pittorica. L’artista d’avanguardia spesso crede che per essere contemporaneo debba parlare di missili, io penso sia ancora più difficile essere contemporanei parlando degli scudi degli antichi romani.
Forse in questo c’è una piccola civetteria da intellettuale europeo: io, a torto o ragione, sono stato spesso considerato il tipico artista intellettuale – anche se non ritengo sia vero del tutto -: a volte un eccesso di intelligenza guasta l’arte, però l’intelligenza ci vuole. Bisogna essere così intelligenti da farne a meno quando è necessario.

Emilio Isgrò, I promessi sposi cancellati. Tutto è cancellato. (La monaca di Monza)
Emilio Isgrò, I promessi sposi cancellati. Tutto è cancellato. (La monaca di Monza)

Qual è la Milano di Emilio Isgrò?
La Milano di Isgrò è quella degli anni Sessanta e Settanta, quando sono arrivato, e non è una città necessariamente avanguardista; è una Milano che conteneva tutti i fermenti dell’epoca, in modo unitario. Io ho amato dello stesso amore l’informale e artisti come Bacon che informali proprio non erano. Ero amico di Andrea Zanzotto, ma anche di Giovanni Testori che odiava l’arte contemporanea.
Fra l’altro sotto sotto aveva ragione… Per me generosamente poi faceva un’eccezione. Adesso le cose si sono chiarite: recentemente il direttore della rivista Arte, Michele Buonomo, finissimo intellettuale anche se non vuol fare il critico, ha detto citando un francese che l’importanza e il peso del lavoro di Isgrò si percepisce quando si smette di considerarlo un artista concettuale.

Infine vorrei prendere in prestito l’ultima domanda da Hans Ulrich Obrist: c’è un progetto che non è mai riuscito a realizzare?
Quello di ricostruire tramite l’arte la propria vita nella sua interezza. L’artista non ci può riuscire, semplicemente perché l’arte non deve rispecchiare la vita, è essa stessa vita.
Questo progetto è meglio levarselo dalla testa, sono falliti tutti e si continuerà a fallire…