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La nascita di un nuovo milanese

Quale occasione migliore per ripensare la città e le persone se non questi conclamati giorni?

Geschrieben von Piergiorgio Caserini il 7 März 2020
Aggiornato il 17 März 2020

Si sa che lo spazio per essere descritto ha bisogno di limiti e confini. Si definisce a partire dalle delimitazioni, da punti relativamente ristretti. Sono “specie di spazi” titolava Georges Perec, e quindi anche specie di persone e specie di storie. E quale occasione migliore per ripensare la città, le persone se non questi conclamati giorni post 22/02?

Cominciamo allora da vicino, più precisamente: dallo zerbino, alla soglia di casa, Welcome home, l’altrove comincia qui. L’appartamento è il nuovo litorale da cui si guarda la città. Una Milano che è weird, eeire, inquietante e perturbante; una Milano che è un costrutto narrativo per cui la drastica riduzione dell’isterica sinfonia di clacson sembra depurare l’aria, dicono i più dediti alla causa, «Eh, si respira meglio», mentre il fumo di sigaretta aleggia immobile nella stanza, illuminato dall’infografica sul calo di CO2.
Solo il tizio che taglia l’erba del prato alle tre di notte persevera, imperterrito e all’aperto. Ma sta sicuro lui, non c’è nessuno in giro. E infatti a tratti è sembrato Ferragosto, con questa calma piatta. Con i mezzi pubblici vuoti, le biciclette, il sole caldo di un ambiguo febbraio. Poi sono arrivati la pioggia, il fresco e subito sono tornate le sciarpette.
Ma non è per il tempo e tanto meno per la malavoglia che quei «ritmi impensabili» di Milano si sono accoccolati dietro la soglia dello zerbino, sul divano, con te. Sussurrano «Coronavirus2019» e un brivido percorre la schiena. Sudano le mani, si strofinano per 20 secondi. Meglio in casa allora, se esco sto in casa si dice, ecco, che tanto tutto è a portata di mano e a portata di voce. È il culmine di un’isola felice.

Con i mezzi pubblici vuoti © Giada Biaggi

Insomma, se il grido mantrico che recitava la città era un deciso e irreprimibile push out, pare che oggi si preferisca un brusio invertito: push in. Così che strane creature d’appartamento, segregate ai terzi piani, vivono e lavorano in smart mode, organizzano cene e aperitivi, screening, per sopperire all’azzeramento serotoninico del networking e dei party tra le vie della città, mentre all’appello mancano ancora gli opening (suggest: che qualcuno ci pensi).
Ecco la Milano ipermoderna. Una città che si comprime, che fa finta di rallentare e di prendere tempo. Si vede bene dallo strabismo smart che fa scorrere un occhio svelto sulle notizie del contagio mentre l’altro tiene in scacco le mail che arrivano copiose. Poi stasera c’è il concerto in streaming, e gli amici sono tutti invitati a casa. Proiettore e casse, birrette e pastasciutta, rigorosamente abbandonate le orride pennette – una scoperta sensazionale. Succede che le relazioni sociali, accompagnate dal tran-tran di Milano, si tribalizzano sui divani e sui tavoli candidi dei salotti. Si svela il milanese ‘incoronato’: couch potato 2020, alias smart working, “guadagno” di tempo nell’apparente slow-down della città, e reinvenzione della prestazione, delle performance.
Possiamo dire quindi che mentre i social imperversano ipereccitati e accelerano, la rete comprime Milano “a portata”, vale a dire: si accasa, con te.

Possiamo dire quindi che mentre i social imperversano ipereccitati e accelerano, la rete comprime Milano “a portata”, vale a dire: si accasa, con te

D’altronde, se guardiamo i principi del successo evolutivo (il numero e la persistenza), capiamo subito che l’epidemia odia la solitudine, se la vasca per le strade e ci riversa sugli share, sui film, sulle serie tv, sugli articoli e (speriamo tanti) tanti libri – per non parlare del premium porno gratuito per i veri e giovani quarantenati, che così possiamo immaginarceli a sbavare di gioia senza pensare necessariamente al virus e a quell’immaginario vomitatoci addosso da generazioni infinite di film post-apocalittici e zombie.
Insomma, ci sembra di non far più niente, di perdere tempo, «il più mortale di tutti i peccati». Ma di base, tra la virtualizzazione delle prestazioni della città, quindi lavoro, concerti, eventi, eccetera (gli opening!), e il trasloco in casa di una buona parte dei luoghi di aggregazione, si vive bene, ma si vive strano. Weird.

Si “gode” del tempo perduto e ritrovato © Zoe Kravitz nella serie High Fidelity

Da una parte sembra che tutti abbiano reinventato gli amori e le amicizie, le relazioni e gli impegni. Si scopa come furetti e si beve come spugne, si chiacchiera come gli esuli del Decameron e si “gode” del tempo perduto e ritrovato – si lavora, baby. Ed ecco che subito si sente in giro l’accolito smart del working che fa: «Prendiamoci il tempo che Milano ci ruba» (che è probabilmente uno degli shift più importanti di questa circostanza); e tu che pensi: vallo a dire a chi ti ha servito dietro la cassa quando in preda al panico hai svuotato gli scaffali di Gordon’s Dry o ai rider che ti portano la pizza, vai a dirglielo.
Loro – alias le categorie meno toccate dall’isolamento non per negligenza ma per obbligo lavorativo – e chi è andato al lavoro in questi ultimi giorni hanno sicuramente notato altre differenze, altre wired tales ai piedi della Madonnina quarantenata. Nei primi silenzi dei clacson, si sentivano gli strani cigolii delle biciclette a noleggio e il calpestio delle sneaker durante le promenade nelle ore di punta. Svelti e acquattati, perché fuori adesso si fanno solo incursioni. Si percorre Milano in distanze desertiche, impensabili, lunghe e lente. Dai racconti si sentono fiorire i dettagli nelle architetture e degli ornamenti al di là dei cancelli, negli interiour milanesi.

Da una parte sembra che tutti abbiano reinventato gli amori e le amicizie, le relazioni e gli impegni. Si scopa come furetti e si beve come spugne

Comunque tutto raccontato a debita distanza, preferibilmente online, ecco. D’altronde l’epidemia oltre a odiare la solitudine ama toccarsi, e i mezzi pubblici sono i primi a subire la desertificazione; dall’eccitazione dipinta di lilla del senza pilota alla stranezza multicolore del senza passeggeri, o quasi. Una situazione sintomatica, questa del senza pubblico – o meglio del suo accasarsi – che hanno vissuto attoniti anche il Fazio e la Barbarona, nel fatidico 23/02. Tra Decameron, Z-Wars e Hikikomori all’italiana con divertenti vignette francesi, quello che succede è deliziosamente tardo-moderno: riguarda come sempre tempo e velocità. Si ripensano gli spazi, più stretti e meno affollati, e la vita decelera fuori ma ingorga le velocità all’interno, dietro lo zerbino. La casa si satura, la città pare svuotarsi ma semplicemente si trasferisce. Con te, a casa tua. Sul divano. Non voltarti.
Si potrebbe dire che l’agorafobia dello starnuto ci lascia in appartamento e una nuova claustrofilia ce lo fa apprezzare. È normale?, chiederanno, e noi risponderemo: che categoria inutile la normalità. Esiste, sì, ma si piega all’eccezione. È normale che tutti sappiano dov’è Codogno? Vi assicuro che no, ed evidentemente le nozioni di geografia – e non solo – rispondono meglio alle emergenze che alle tratte ferroviarie.