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Lezioni di vita da api e lombrichi

Tre pensionati ci spiegano come funziona il mondo agli orti condivisi di via Padova.

quartiere NoLo

Geschrieben von Martina Di Iorio il 23 April 2021
Aggiornato il 26 April 2021

Umberto, Vittorio e Michele, ormai in pensione, stanno prendendo il caffè quando entro nel loro orto condiviso. Dico loro in senso metaforico, anche se capisco fin da subito che sono i veterani di questo spazio botanico in via Padova. Un angolo incastonato nel cemento e nell’asfalto, chiuso a nord est dai magazzini dell’ATM, circondato da un parcheggio selvaggio e da un complesso di ex bagni pubblici abbandonati dal 1999, ora occupati dai ragazzi della Rete Solidale Noi Ci Siamo!

La caffettiera sopra il fornello elettrico basta per tutti e quattro, ci aggiungiamo anche un panettone al cioccolato tagliato dentro l’ufficio agricolo creato da loro. Qui non si spreca niente, si riutilizza tutto, si da una seconda possibilità alle cose: se anche la mia vita fosse così sarei a cavallo. Penso ai vasi che faccio rompere in un anno, quando Michele – che tra le altre competenze ha questa di riassemblare le cose – mi fa vedere come sia possibile cucire la ceramica. Gli dico che loro sono veramente zero waste, mi chiedono di ripeterlo. Non lo faccio perché mi sento stupida. Prima lezione: più sostanza meno apparenza. E parla come mangi.

Orti di via Padova – foto di Alice Sossella
Orti di via Padova – foto di Alice Sossella
Vittorio è un ex chef, ora un volontario attivo. Gli altri compagni lo inorgogliscono quando mi dicono che questo orto è nato con lui e Legambiente, nel 2014. Prima parcheggio per gli autobus, poi per 15 anni discarica e luogo di scambi diversamente legali e malaffari notturni, nessuno ci prestava granchè attenzione. Poi finalmente arrivano i volontari, lo ribaltano da cima a fondo, lavorando giorno e notte per sei mesi. Mi guardo attorno, ce n’è di lavoro da fare, chiedo se posso dare una mano nonostante faccia morire ogni piantina di basilico sul davanzale. Per fortuna per loro non posso, bisogna prima iscriversi e diventare socio per poi poter lavorare, mentre l’ingresso è sempre consentito.

Poi finalmente arrivano i volontari, lo ribaltano da cima a fondo, lavorando giorno e notte per sei mesi.

Inizio così il tour, seguita dai miei nuovi compagni. Ne sanno una più del diavolo, e pensare che nella vita facevamo ben altro, come Vittorio. Umberto lavorava nella finanza mentre Michele è un ex ingegnere siderurgico. Non me li immagino in giacca e cravatta a correre su e giù per la città, sembrano appartenere a questa cornice post bucolica da sempre. Tutto qui viene coltivato „a cassoni“, ovvero con vasche rialzate dal terreno visto che questo è ancora inquinato dagli idrocarburi rilasciati qui nel passato. Ci vorrà tempo, nonostante il lavoro di bonifica, a riequilibrire il sistema. Seconda lezione: ricordati di essere paziente con le cose. Tanto non hai nulla di veramente importante da fare.

Forme di vita aliene: lombrichi e api
I lombrichi e le api se fossero degli zarri e avessero tempo da perdere potrebbero a ragione essere iscritti alla famosa „Università della vita“. Anzi, loro sono la vita. Lo capisce anche una come me, animale metropolitano e meno sofisticato, costretto al suo alveare di cemento e a relazioni meno perfette. I primi, non giudicateli dall’aspetto viscido rosso-marrone, strisciano su un terreno di materiale compostabile, ci sguazzano dentro, mangiano tutta la spazzatura organica che noi produciamo, non ho capito bene come fanno, fatto sta che lo ripuliscono dai peccati originali. I volontari dell’orto si producono così il nuovo terreno, grazie alla preziosa attività di questo lobricaio. Cerco di vederne qualcuno in azione, ma come con il T-Rex attirato da una capra nella pellicola spielberghiana, dei lombrichi nessuna traccia. Sono nel sottosuolo e non si prestano al mio voyerismo faunistico.

Le api vivono placide in una serie di arnie geometriche. Umberto, Vittorio e Michele non se ne occupano, non è materia loro. Mi dicono che c’è un apicoltore dedicato, Marco Veca che loro chiamano l’incantatore d’api. Per alcuni anni hanno ospitato anche alcune arnie d’artista che rientrano invece nel progetto Green Island associazione no profit legata al tema della sostenibilità urbana, della salvaguardia delle api e del miele. Questi alveari urbani sono sparsi un po‘ in tutta Milano, anche se legati ad associazioni diverse: Parco di Villa Litta Lainate, Cascina Merlata, giardino condiviso San Faustino (Ortica) e qui. Mi torna in mente la lezione di Claudia Zanfi, volantaria legata a questo progetto, in occasione di una visita all’alveare di Ortica.

I lombrichi e le api se fossero degli zarri e avessero tempo da perdere potrebbero a ragione essere iscritti alla famosa Università della vita

Api spazzine, api operaie, api guerriere, ape regina, api nutrici. Un gineceo incredibile di creature aliene e un po‘ naziste scese sulla terra per dimostrarci che la nostra razza – quella umana – fallisce miserevolmente di fronte alla loro minuziosa capacità di organizzazione. In questo specifico periodo dell’anno sono in dormienza, una specie di letargo non letargo, insomma l’inverno fa schifo anche a loro e se la prendono comoda. In generale però si danno un gran da fare: in base ai loro compiti escono la mattina e ritornano verso il tramonto. Hanno alcune missioni fondamentali, non si perdono in chiacchiere: evitare i grandi predatori (calabroni incazzati o vespe mimetiche) e continuare il millenario lavoro di impollinazione e quindi riproduzione. Uno pensa chissà che casino tutte a convivere nella stessa arnia, invece anche qui mostrano intelligenza e coordinazione. Vivono intorno ai favi, che costruiscono loro stesse per immagazzinare il polline e per la covata.

Orti di via Padova – foto di Alice Sossella
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Penso che nella mia prossima vita vorrò rinascere ape regina: sta tutto il tempo nell’arnia, guardata a vista e difesa dalle guerriere, esce una sola volta per il volo nuziale, in primaverale. No non è una specie di luna di miele in qualche meta esotica, ma il momento glorioso della fecondazione. I maschi, chiamati fuchi, servono solo a questo: una grande baccanale orgistico dove l’ape viene fecondata. Ma il bello deve acora arrivare perché i fuchi una volta terminata la loro opera da stalloni, non vengono più fatti rientrare nell’arnia. Le guerriere si mettono di guardia e per loro, i fuchi, il gioco finisce qui lasciati morire di stenti nel mondo circostante. Un finale splatter, molto d’effetto.

Un gineceo incredibile di creature aliene e un po‘ naziste scese sulla terra per dimostrarci che la nostra razza – quella umana – fallisce miserevolmente

Mi spiegano che qui si sta talmente bene che sono anche venuti due sciami extracomunitari e si sono organizzati sul vicino tiglio. Nessun confine all’orto di via Padova, sono tutti ben accetti. Mi spiegano anche una cosa essenziale nella sua banalità. Il miele non lo fanno mica per noi, è semplicemente il principale nutrimento delle api. Nasce da un grande sforzo di mandibola, un masticare continuo acqua e zucchero che poi una volta portato nelle celle si solidifica per diventare questo nettare divino. Io ve la racconto facile, in realtà è un processo talmente perfetto ed elaborato che quasi mi spaventa. Qui in via Padova il miele viene raccolto due volte l’anno e diventa 2Miele Milano. Una volta si facevano dei corsi, Marco l’incantatore d’api spiegava passo dopo passo quello che io ho sintetizzato in una stramba elegia di questi insetti venuti da Marte.
Le api riescono a mettere in discussione la mia vita: loro perfette e organizzate, io nettamente più altalenante. Mi sento sollevata quando vengo a scoprire dell’esistenza delle api solitarie, le Jack Frusciante del gruppo. Non possiedono alcuna forma di vita sociale, fanno il proprio lavoro da sole, resistono alla cementificazione e si muovono nell’ambiente urbano. Fondamentale da parte dell’uomo creare degli alloggi per loro, delle piccole celle per preservare il funzionamento della biodiversità. Come qui, dove trovano casa alcune di queste eremite in via d’estinzione. Terza lezione: ridimensionare il nostro ego.

L’orto sinergico, la serra mediterranea e le altre cose
Continuo a stupirmi camminando nell‘orto sinergico. Cos’è una sinergia? Forse quando hai Venere nel segno, oppure quando in una giornata le rotture di palle si presentano in una misura inferiore al solito. La risposta mi viene offerta ancora una volta dalla natura e da questi uomini. Un orto circolare, un po‘ labirinto del fauno un po‘ Stonehenge, dove c’è uno scambio energetico tra le piante affinché tutte possano ricevere beneficio le une dalle altre. Anche qui una specie di comunità freakettona che si autosostiene grazie alle caratteristiche di ognuno.

Un orto circolare, un po‘ labirinto del fauno un po‘ Stonehenge, dove c’è uno scambio energetico tra le piante affinché tutte possano ricevere beneficio le une dalle altre

Prima di entrare nella serra mediterranea passo attraverso il roseto, gli alberi da frutto, le piante grasse, e tante altre cose incredibili. Nella serra – riscaldata solo dal sole – si sta bene e troviamo un po‘ di rifugio dal freddo di gennaio. Qui coltivano gli ortaggi più delicati e impiantano talee. Umberto, Vittorio e Michele sono tra le guide più generose di sapere e preparate che potevo trovare. Continuano a parlare di quanto fosse bello fare gli aperitivi tematici qui agli orti, come quella volta della zucca o quando hanno cucinato le castagne con un cestello della lavatrice. Si faceva anche yoga agli orti di via Padova. Tutte cose che sicuramente si continueranno a fare, mi dicono fiduciosi. Cambiamo argomento solo per parlare di politica: i tre si prendono in giro bonariamente e poi condividono un’altra tazza di caffè. Vado via con la promessa di tornare e penso all’ultima, preziosa, lezione: la natura ha già tutte le risposte, noi dobbiamo solo ascoltarla.