Da sempre le persone a cui più mi affeziono sono quelle che sanno raccontare. Forse perché „non esiste la verità, ci sono solo storie“ come diceva Jim Harrison. La maggior parte delle storie del mondo sono orrende – non credo ci sia bisogno di dover citare esempi specifici in questo momento storico per rendere l’idea. C’è comunque chi riesce a fabbricare narrazioni che combattono la bruttezza e concedono a tutti di sguazzare felici in oasi di realtà alternativa, che finiscono per diventare realtà e basta, personificandosi attraverso l’associazione di idee, suoni, spazi, corpi. Quelle persone sono gli artisti veri e sono fondamentali per non impazzire del tutto. Simone Alessandrini è una di queste persone – un artista vero.
Se la realtà altro non è che un intreccio di narrazioni che fabbrichiamo noi stessi, la mitologia altro non è che la narrazione suprema, quella che pervade l’umanità da sempre. Il mito dell’Odissea di Omero è l’esempio assoluto. Il corpo della maga Circe, le sue fibre muscolari e i suoi neuroni, sono un’estensione di parte della nostra storia comune di uomini e donne. Il mito che la riguarda e le sue rielaborazioni descrivono l’esperienza umana in lungo e largo, insomma: la maga Circe siamo noi. Simone è cresciuto al Circeo, che la leggenda identifica come l’Isola Eea, la casa della maga. Circe insomma è sempre stata attorno a lui. Ma è „La Circe” (dello scrittore Giovan Battista Gelli, pubblicato nel 1549) che ha aggiunto una sfumatura nuova. La scintilla che lo ha portato alla pubblicazione del nuovo album – “Circe”, appunto.
“Nel testo, l’autore immagina che Ulisse ottenga dalla maga la facoltà di conversare con i suoi greci trasformati in animali, i quali inaspettatamente si pronunciano a favore della propria condizione ferina e oppongono un netto rifiuto all’offerta di recuperare le fattezze umane, sostenendo la superiorità etica degli animali rispetto alle debolezze, ai vizi e alle miserie che caratterizzano l’esistenza degli uomini.”
Ai dodici eccezionali musicisti coinvolti viene assegnato un animale ciascuno. Laura Giavon (nel ruolo di Circe), Federico Pascucci (nel ruolo del vitello), Antonello Sorrentino (nel ruolo del cavallo), Mariasole De Pascali (nel ruolo della serpe), Federico D’Angelo, (nel ruolo del leone), Giacomo Ancillotto (nel ruolo della cerva), Marcella Carboni (nel ruolo della lepre), Nazareno Caputo (nel ruolo dell’ostrica), Simone Pappalardo (nel ruolo del cane), Riccardo Gola (nel ruolo della talpa), Riccardo Gambatesa (nel ruolo del capro). Pelli, fiati, voci, corde diventano i tendini che muovono queste creature: muscoli che scattano sbandando, i cinque sensi che si attivano a turno o tutti insieme, i pensieri veloci come le zampe, l’istinto a farla da padrone.
Nei prime due brani Circe, la voce di Laura Giavon, si presenta e raduna gli animali parlanti in un meraviglioso caos orchestrale e teatrale: tra parole, versi e note che sono entrambe le cose senza esserlo veramente. Da questo momento in poi le creature iniziano a pronunciarsi, a parlare per sé stesse e interagire tra di loro. Il vibrafono di Nazareno Caputo anima l’ostrica, che in un passaggio immaginifico introduce al roboante sax baritono di Federico D’Angelo. Il ruggito del leone viaggia su un brano che sembra opera di un Fela Kuti immerso in fondo al mare a raccogliere perle. L’arpa di Marcella Carboni personifica le zampe irrequiete della lepre che saltellando circospetta arriva ai piedi della cerva, la chitarra di Giacomo Ancillotto. Tra suoni surf music e linee melodiche epiche che ricordano la grande tradizione italiana, l’effetto è simile a quello dato quando quel genio di John Zorn ha deciso di interpretare i brani di Morricone.
A questo punto, finendo sulla coda melodica del cervo, c’è un cane esploso che fa la sua entrata in scena. Ha poco dei cani gioviali e un po’ stupidi, più dell’esperto randagio che si aggira circospetto: sono i glitch elettronici di Simone Pappalardo, che prende l’orchestrazione melodica di poco prima e la scompone in un friccicorio che passa da un orecchio all’altro senza soluzione di continuità. Da corna a corna, passiamo quindi dall’eleganza barocca della cerva a quella circense e brutale del capro, la batteria di Riccardo Gambatesa. Da frustrare ad essere frustrato nello spazio di quattro minuti, dalla rabbia alla giovialità nella stessa manciata di tempo.
Il rapporto tra serpenti e flauti è antico come il mito dell’Odissea e Mariasole de Pascali interprete la serpe con una sinuosità irresistibile. La sua mancanza di attrito ipnotizza fin quando l’imperiosità dei passi del cavallo, la tromba di Antonello Sorrentino, non arriva con in groppa tutti gli altri. Ed è subito gioco e rincorse, sgroppate e improvvise frenate, con la dimensione irrefrenabile della big band jazz sotto steroidi a conquistare qualunque ascoltatore. Odissea significa anche Medio Oriente: in questo caso il mistero giocoso che è il vitello, rappresentato dal ney (flauto tradizionale Turco/Persiano) suonato magistralmente da Federico Pascucci. E in tutto ciò, Ulisse dov’è “nascosto”?
Simone Alessandrini e il suo sax sono capaci di cose di cui in pochi sono capaci. Eppure durante tutto il corso dell’album lui è lì che si aggira tra gli animali senza destare troppa attenzione. Come un pastore compiaciuto del suo lavoro, orchestra un’aia in cui l’armonia regna sovrana e sembra preoccupato esclusivamente di mantenerla. Non vuole disturbare il momento idilliaco e sorride sornione osservando il gioco del cane, della lepre con lo specchio, la fuga della serpe, i movimenti circospetti ed eleganti della cerva. Fino a quando, nell’Epilogo, non smette i panni di Nessuno per ridiventare Ulisse, stringe lo strumento a sé, si prende la scena di questo giardino dell’Eden e regala un solo commovente: la summa di tutti i cinquanta minuti, il vento nelle vele per tornare a casa.
“Circe” è il terzo album del progetto Storytellers, il primo con questa formazione allargata che riunisce alcuni dei migliori musicisti di base a Roma. I primi due dischi, l’omonimo “Storytellers” e “Mania Hotel”, erano ugualmente sostenuti da concept narrativi importanti: il primo è un’interpretazione della resistenza popolare romana al nazifascismo; il secondo un’opera dedicata alla follia, che raccontava cinque storie realmente accadute. In tutti i suoi lavori Simone ha sempre fatto convivere jazz, rock, progressive, accenni punk con quest’afflato letterario. In “Circe” si aggiunge una sfumatura “world” piacevolissima, con accenni alle tradizioni africane e mediorientali perfettamente inseriti nel tessuto musicale, mai posticci. Anche la dimensione letteraria è sempre più convincente e integrata nel discorso musicale: la forma del dialogo è uno dei topos letterari della letteratura greca ma anche dell’improvvisazione jazz.
Con millenni di distanza e centinaia di migliaia di chilometri a separarli questi mondi sembrano in realtà in diretta comunicazione. Abbiamo così un disco che alla base della sua orchestrazione ha tanto la struttura del „Grillo“ di Plutarco quanto il genio di Duke Ellington nell’arrangiamento dell’orchestra jazz. Dal vivo questa vera e propria operetta, che rompe i canoni occidentali con leggerezza e decisione, lascia a bocca aperta una seconda volta per la potenza che riesce a sprigionare. Merito di Simone ma anche delle individualità di tutti gli “animali”, capaci di trovare il momento perfetto per esprimersi.
Dialogo nel dialogo è quello tra i musicisti coinvolti, appartenenti a generazioni ed estrazioni musicali anche molto diverse, ma uniti dall’essere per lo più romano-centrici in quanto vita musicale. L’ennesima testimonianza di una “scena romana” che esiste, eccome. Una scena difficilissima da inquadrare nel suo insieme perché riflette il continuo movimento senza regole della Capitale. Dire Roma significa poco o nulla: Roma è un arcipelago di isole, ognuna con la sua legislazione e i suoi costumi. Così anche le sue musiche. Isole che ovviamente si intrecciano e si visitano a vicenda continuamente, spesso senza intrecciarsi più del tempo necessario per passare una notte a musica, vino e altro. Forse serviva evocare l’isola delle isole, Itaca, con tutti i suoi significati millenari per creare uno spazio franco entro cui far interagire così tante anime diverse.
Simone Alessandrini ha vestito alla grande i panni di Ulisse. Ha rispettato la sua storia e allo stesso tempo avuto la sicurezza e la capacità necessarie ad accoglierne tante altre, esaltandole e facendole convivere in armonia. „Il narratore crea una terra dove far stare i suoi personaggi“ diceva Camilleri e Simone Alessandrini questo è: un musicista fenomenale, certo, ma anche un grande narratore.