«Uno spazio in cui le persone possano esprimersi, organizzarsi, condividere passioni e crescere». Uno spazio non ripiegato su se stesso ma, anzi, aperto verso l’esterno. Uno spazio in cui, magari, non c’è quasi differenza tra chi „lavora“ e chi è lì per godersi la musica. Da giugno 2012 con sede negli spazi dell’Ex Macello, in poco più di due anni Macao è diventato un riferimento in città per la musica e in particolare per quella elettronica. Contenitore (una struttura liberty di decadente bellezza) e contenuto (relativo non solo alla sfera musicale ma anche al teatro, alla danza, alla fotografia) atipici, che propongono un modello di fruizione e condivisione delle esperienze artistiche lontano dalle solite dinamiche dell’intrattenimento e inevitabilmente unite da una stessa attitudine.
Dance Affliction è il pretesto per approfondire la storia e il lavoro del collettivo che si occupa della parte musicale di Macao, il „Tavolo Suono“. Quella che segue è una lunga (lunghissima) intervista divisa in due parti: la prima – con Gianmaria Di Pasquale, attivo a Macao fin dal quel maggio 2012 – dedicata agli inizi dell’occupazione, alla nascita del Tavolo e alle coordinate su cui ha iniziato a muoversi; la seconda con la spokeperson per l’attuale e composito Tavolo Suono, Francesco Birsa Alessandri, su questioni di carattere più specifico e in merito all’ultimo anno di attività del Tavolo. Prendetevi un po‘ di tempo per leggerla con calma.
ZERO: Cominciamo con un breve riassunto delle puntate precedenti. Quando e come è nato Macao?
GIANMARIA DI PASQUALE: Macao è nato all’interno del percorso politico e teorico dei Lavoratori dell’Arte e dello Spettacolo, una rete a livello nazionale il cui lavoro ha portato all’occupazione romana del Teatro Valle, di Sale Docks a Venezia, dell’Ex Asilo Filangieri di Napoli e che poi si è allargata in varie città dello Stivale. Attraverso incontri e discussioni, soprattutto via web, si è arrivati alla decisione di dare un segnale forte anche a Milano: il 5 maggio 2012 un centinaio di persone tra lavoratori dello spettacolo, dell’arte e della ricerca entrano nella Torre Galfa, di proprietà della famiglia Ligresti, grattacielo simbolo – sia dal punto di vista politico sia da quello immaginifico – della speculazione edilizia e della cattiva gestione del bene pubblico. Dopo lo sgombero dalla Torre, il 15 maggio, c’è stato un periodo in cui siamo stati un’entità mobile, per poi individuare nell’Ex Borsa del Macello di Viale Molise il luogo adatto per continuare il progetto, dove siamo entrati alla metà di giugno di quell’anno. Fin dall’inizio, Macao è stato concepito come una realtà collettiva, sempre in divenire: non abbiamo voluto uno statuto, un manifesto che ci definisse, il dibattito è sempre aperto e si sintetizza nell’assemblea che facciamo tutti i martedì sera. L’unica organizzazione che ci siamo dati da subito è stata quella della divisione in tavoli, che nella prima fase alla Torre Galfa si era definita con aree di interesse un po’ più generiche. C’era ad esempio il tavolo programmazione, che includeva tutti gli eventi in senso trasversale, dalla danza al teatro alla musica.
Quando ha inizio l’esperienza del Tavolo Suono e a quale tipo di esigenze risponde?
Il Tavolo Suono, insieme ad altri tavoli, come quello dedicato alla fotografia o al teatro, ha preso forma appena entrati negli spazi dell’Ex Macello, ha attraversato varie fasi e oggi ha una composizione (di cui si parlerà più avanti, NdR) diversa da quella iniziale. È chiaro che l’idea del tavolo “programmazione” non soddisfaceva tutti, perché non si trattava di creare un cartellone confinando la musica a semplice intrattenimento o di rispondere alle richieste dei numerosi musicisti che piano piano chiedevano di suonare a Macao. Si trattava di un approccio completamente diverso, attraverso il quale creare spazi concreti per la produzione della musica: uno studio di registrazione e produzione, una sala prove per la musica live, una sala regia che è in costruzione, uno studio per la produzione della musica elettronica – creatura dell’attuale Tavolo Suono – che è aperto a interni ed esterni, nel senso che si può venire lì e utilizzare lo spazio, per il quale non chiediamo neanche un euro simbolico ma che ovviamente viene controllato per via delle attrezzature costose. Strumenti che servono per il confronto, la crescita e la sperimentazione.
Fin da questa prima fase del Tavolo, in che direzione si sono mosse le scelte artistiche e quali sono le implicazioni politiche della programmazione?
L’aspetto fondamentale è sempre stato quello della sperimentazione, abbiamo sempre dato attenzione ai musicisti che proponevano progetti in fase di indagine. Questo anche fino al settembre 2013, nella prima fase del Tavolo, in cui si è trattato soprattutto di rispondere alle richieste dall’esterno, prestando attenzione a quello che poteva essere più interessante sia come esperienza sonora sia come esperienza politica, intesa soprattutto in senso lato. Dal settembre del 2013, l’attività si è delineata in modo più marcato ed è nata Zaund – la linea programmatica del Tavolo Suono, con un’identità precisa: non più intercettare le proposte esterne, ma creare una selezione di appuntamenti musicali in cui il concerto era accompagnato da talk o workshop, proponendo un discorso musicale più organico. Siamo partiti a dicembre 2013 con il concerto dei Trophies, e poi siamo andati avanti con la serata dedicata a Senufo Edition e Aural Tools con Faravelli, Ielasi e i due sound artist giapponesi, Takahiro Kawaguchi e Makoto Oshiro. A quel punto poi sono cominciate ad arrivare delle collaborazioni con altre realtà di Milano.
Quali sono state queste prime collaborazioni e come è stata la reazione della città nei confronti di questo approccio “in divenire” e progressivamente sempre più aperto come Macao?
Credo che inizialmente l’approccio di Macao spaventasse un po’ le persone, perché appariva ipocrita, come se quel modo di essere aperti alle proposte e alla condivisione di uno spazio e delle idee fosse un po‘ forzato… Probabilmente sembrava un po‘ di difficile realizzazione in una città come Milano, in cui tutto è molto ben diviso in compartimenti. Spero ci sia stata un’influenza positiva rispetto a questa cosa, anche perché noto attorno a me che oggi a Milano ci sono maggiori occasioni di collaborazioni tra realtà diverse, mentre prima ognuno aveva il suo regno e si stava attenti a non uscire. Da quando Macao ha cominciato a fare concretamente rete, nel momento in cui il Tavolo Suono si è mostrato veramente aperto alle collaborazioni c’è stata come una svolta, un’apertura automatica verso la città e un pubblico più ampio. Se vai a vedere, da un certo punto in poi la programmazione era fatta soprattutto di collaborazioni, con lo Spazio O‘ e TRoK all’inizio, e poi con una serie di altre realtà che sono confluite nel tavolo suono – Neoma e Haunter Records, ad esempio.
A un certo punto, però, la reazione del territorio verso Macao deve essersi progressivamente trasformata, anche perché oggi è uno dei luoghi dedicati alla musica e all’arte più frequentati a Milano…
C’è un esempio calzante relativo al discorso sul territorio, ed è quello di Communion, che ha anche una storia molto bella. Loro sono quasi dei figli di Macao, frequentavano lo spazio e piano piano hanno iniziato a proporsi con delle idee. La nostra risposta è stata subito molto aperta… Può sembrare un’utopia, ma è proprio una questione di attitudine quella che riconosciamo nelle proposte che abbiamo attorno a noi.
A proposito: come vi finanziate? Pagate i musicisti che suonano da voi?
Quello sull’autoreddito è un altro grande capitolo, una questione su cui abbiamo riflettuto, ma in modo assolutamente collettivo. Se inizialmente non c’erano gli strumenti per retribuire i musicisti, col tempo è diventato un obiettivo che ci siamo dati e che abbiamo raggiunto, nonostante poi all’interno ci fossero voci discordanti, perché secondo alcuni ogni atto deve essere squisitamente politico; ma sarebbe stata una forte contraddizione, un paradosso, perché in qualità di Lavoratori dell’Arte l’idea era quella di combattere lo sfruttamento, pertanto aspettarsi che una persona venisse a suonare gratis sarebbe stato come proporre un modello contro cui ci si batteva. Abbiamo iniziato garantendo un rimborso spese e poi abbiamo cominciato a pagare, ovviamente non chiediamo un prezzo di favore ma le persone da sole comprendono il nostro spirito, senza bisogno di scrivere che siamo una realtà occupata. Riusciamo anche ad avere un minimo di autoreddito, il che significa che una persona che lavora per un evento e si sbatte dall’inizio alla fine – noi facciamo i turni: al bar, all’entrata, chi fa l’allestimento – alla fine porta a casa 20 euro. Per i ragazzi molto giovani va bene, gli altri spesso non li prendono neanche, ma è un metodo per far funzionare le cose in un certo modo.
Il fatto che Macao sia diventato una specie di fenomeno in città, un posto in cui passano tante persone, ha però almeno un risvolto negativo: può capitare che durante un concerto parte del pubblico non sia interessato, che parli o faccia casino, rovinando l’esperienza di chi invece è venuto per quello. Vi siete posti questo problema?
Circa la questione dell’attenzione da parte del pubblico rispetto alla musica, credo che uno dei grossi problemi sia quello del biglietto d’ingresso. A Macao non si paga un biglietto, non c’è una sottoscrizione obbligatoria ma un’offerta libera. Questo aspetto porta a reazioni diverse. Da una parte c’è chi ha un interesse verso la musica e recepisce l’offerta libera come un’opportunità, ovvero che anche se hai un euro in tasca o niente entri lo stesso e ti guardi il concerto. Dall’altra, questa cosa porta al fatto che ci sia una parte di pubblico che viene a Macao a cazzeggiare o perché l’alcol costa poco: queste sono le persone che danno fastidio, perché non sono interessate. Ovvio che quando hai il biglietto d’ingresso crei una discriminante, non metterlo è un rischio e una sfida che ci siamo voluti prendere, sperando che le persone piano piano si educassero. Quando abbiamo avuto dei concerti anche con situazioni acustiche molto sottili è arrivato un pubblico autoselezionato, che era lì per quella cosa, e siamo stati molto soddisfatti dell’atmosfera che si è creata. È un problema che ci siamo sempre posti anche noi, è capitato che ci fossero delle realtà che non sono volute venire perché si parla. Nel tempo la situazione è in parte cambiata, dal punto di vista educativo credo che abbiamo raggiunto un obiettivo comunque importante – avere dei numeri (e non lo dico dal punto di vista commerciale) talvolta inspiegabili, su cose anche di nicchia per cui non ci si aspetterebbe mai un pubblico del genere. Suoni assolutamente fuori dalle tendenze, a Macao comunque richiamano molto pubblico.
Cosa manca a Macao e in particolare nell’area musicale?
Secondo me manca chi si possa occupare di improvvisazione radicale, jazz, musica classica… Ma non perché non ci sia volontà, si sia scelto di fare solo tardissimo o si tratti di una scelta stilistica. Il fatto è che le realtà che si sono affacciate e che hanno deciso di rimanere a Macao lavorano in quegli ambiti, ben venga anche altro – con la stessa attitudine, ovviamente. Abbiamo sempre voluto dare spazio alle realtà che facevano più fatica ad averlo altrove, perché non si piegavano a certe dinamiche, perché non interessavano al mercato. Poi, è ovvio, ci sono proposte con l’attitudine giusta ma che poi musicalmente non sono granché e non va bene neanche quello. Ad esempio, c’è sicuramente un interesse verso la classica e la contemporanea, ma non si è ancora verificato un incontro significativo con qualcuno che voglia portare seriamente avanti questo discorso. Anche perché, sono ambienti difficili da de-istituzionalizzare e con cui non è facile interfacciarsi, abbiamo avuto un’esperienza con dei musicisti della Scala che avevano fatto un concerto, ma con modalità molto istituzionali. Il mio sogno sarebbe fare Steve Reich, che secondo me a Macao ci starebbe una meraviglia. Magari si potrebbe cominciare chiamando qualche ensemble più piccolo, anche partendo da dei soli. Prima o poi succederà, è un obiettivo che ci siamo dati ed è anche una questione legata ai pubblici.
SECONDA PARTE
ZERO: Tavolo Suono oggi: da quali realtà è composto?
FRANCESCO BIRSA ALESSANDRI: Allo stato attuale dentro al Tavolo Suono ci sono sette organizzazioni/sotto collettivi, i primi in ordine di tempo sono stati i ragazzi di Communion – nucleo fondamentale da cui è nato l’attuale Tavolo Suono – poi Daniele Guerrini e io come Haunter Records e Neoma, che era la realtà un po‘ più attiva già a Milano.
Dopodiché si è aggiunto HIV o Stare insieme per stare bene – un gruppo di cui non abbiamo ancora deciso che nome abbia, ma è bello che rimanga così, perché è una creatura un po‘ incerta … – che organizza soltanto afterhour; poi c’è Vasopressin, membro anche di HIV, Hencot, che più o meno collaborava trasversalmente e ora è dentro al tavolo, e infine è nata Dance Affliction, da un’intersezione di varie cose – realtà che fa capo a quattro persone ma guidata in particolare da Arcangelo De Castris, che è anche dj resident di Dance Affliction e che è stato un po‘ quello che l’ha creato, ma dentro ci siamo anche io e Daniele Guerrini di Haunter e Manuella Gama Malcher. Tutti e quattro siamo anche parte di HIV.
Inevitabile allora chiedersi come ognuna di queste organizzazioni, alla luce delle sovrapposizioni dei componenti, dia un apporto diverso alla dimensione complessiva del tavolo.
È tutto basato soprattutto sullo stile e sul genere degli eventi che si organizzano. HIV fa esclusivamente after, quindi si distingue anche solo per il formato – che ha un orario preciso ed è anche più estemporaneo rispetto ad altre serate; Dance Affliction è ancora più estemporaneo, d’altra parte ha un’estetica abbastanza precisa, che credo sia venuta fuori già dal primo evento e con la line up di questo prossimo. Estetica legata alla tradizione industrial, cercando di comprendere il più possibile tutte le derive che questa ha avuto. Anche qui il formato non è irrilevante, l’impostazione è legata al fatto di essere lunghi, molto lunghi – tra le 10 e le 11 ore – e anche abbastanza aperti riguardo all’estensione del tempo, nel senso che il primo doveva finire alle 8 di mattina ma alla fine abbiamo chiuso alle 10:30, perché c’erano Philipp Strobel e Ancient Methods che proprio non riuscivamo a togliere dalla consolle. Anche qua la scansione di quello che succede musicalmente è parte dell’estetica, nel senso che c’è una parte anche abbastanza impegnativa di live – pesanti, rumorosi – e poi si fa arrivare il momento in cui si balla con molta calma…
In realtà, spesso, vedendo un po’ le composizioni delle serate, mi viene da pensare che il «momento in cui si balla» inteso in senso ordinario a Macao quasi non arrivi mai. Voglio dire: siamo abbastanza distanti dal concetto di clubbing…
Probabilmente se ne dovrebbe parlare di evento in evento, in ogni caso quello che si fa a Macao non credo sia pensato da nessuno dei vari sottogruppi come clubbing, se non per l’attività che fa HIV, quindi afterhour con un’impostazione più ballabile: solo dj set, che iniziano alle 5 di mattina e finiscono alle 11. Non è clubbing perché partire da un’impostazione del genere sarebbe limitante, significherebbe riferirsi semplicemente a una certa dimensione musicale – che poi non sta succedendo neanche tanto strettamente nei club milanesi – comunque a noi non interessa mantenere un focus fondamentale sul ballare, sul dj set. Ci interessa dare uno spazio non solo per la sperimentazione in campo musicale – che poi sarebbe anche un po‘ pretenzioso – ma per creare un confronto, tra artisti che normalmente si troverebbero o a non avere spazio, o in situazioni in cui ci sarebbe un rapporto con il pubblico molto formale, impostato, standard. Ci interessa che si crei un ambiente meno gerarchico, in cui la differenza e la distanza tra chi performa e chi partecipa si annulli il più possibile. E soprattutto che sia inclusivo e aperto, un club per essere tale deve avere delle mura, deve essere un ambiente distinto rispetto a quello che c’è fuori. Noi invece vogliamo che ci siano molte ramificazioni e aperture verso l’esterno, che l’ingresso e l’attraversamento siano il più possibile garantiti. Ciononostante, non ci interessa essere accomodanti, quello sì. La proposta artistica deve essere sempre coerente, libera di manifestarsi, cosa che in certi casi può creare anche a un certo punto delle ostilità… Però questo fa parte del gioco.
Anche se i concerti continuano a esserci, la programmazione – sia come orario di inizio, sia proprio come scelte artistiche – negli ultimi tempi si è spostata verso una fascia più notturna: questione di contingenze o gusti musicali?
Un motivo per cui, secondo me, ci si è spostati verso l’orario notturno è perché credo dia più spazio per la contaminazione, nel senso che puoi mettere delle cose ballabili – che poi sono quelle che nel contesto della festa, della serata o del concerto, creano un mood che è più coinvolgente, o che comunque generano di più una sensazione di coesione – e poi in mezzo e attorno a quelle ci puoi mettere altri artisti, giocare, sperimentare. Credo sia un po’ la dimensione di come si organizza la musica prevalentemente elettronica negli ambienti underground, o almeno nelle situazioni che a me sembrano un po’ più interessanti e sul pezzo.
Ce ne sono altre a Milano?
A Milano ce ne sono poche altre, nel senso che c’è un po’ quello che fa Savana, che ha dato una grossissima sveglia a questa città quando c’era la prima Buka, ogni tanto qualcosa al Dude, e poi continua ad esserci l’esperienza della nuova Buka.
Nonostante la pluralità di realtà che compongono il Tavolo Suono, è possibile rintracciare qualche coordinata circa le scelte artistiche della programmazione?
Anche qua, credo se ne dovrebbe parlare gruppo per gruppo, perché ce ne sono alcuni composti da sette o otto persone e altri da una sola. Per fare un esempio, Communion come estetica è legato alla psichedelia in generale e a suoni che riguardano l’etnografia musicale o la contaminazione attraverso l’etnografia musicale anche in ambito elettronico, quindi includendo tutte le varie fasi anche temporali di questo genere di cose, come per esempio la techno. Si potrebbe dire che facciamo sperimentazione, ma non in un senso classico del termine. Piuttosto in quello di provare una costruzione e una serie di combinazioni e associazioni che ci sembrano interessanti ma che sono sempre a un livello molto intuitivo, spontaneo, istintivo. Il punto è che tanti di quelli che fanno parte del Tavolo suonano, fanno i dj o hanno etichette. Il Tavolo in sé è un laboratorio, produce musica ed è interessato a dare una sua espressione a livello artistico e non solo come produzione di eventi. La scelta degli artisti è quasi una collaborazione con loro, anche perché tutto il livello attitudinale deve essere condiviso con gli artisti che arrivano, deve esserci uno scambio umano, un rapporto che si crea sulla base della condivisione di questa attitudine.
Quali sono stati i momenti fondamentali, che magari hanno segnato una svolta nel percorso del Tavolo Suono in questa seconda fase in cui hanno cominciato a farne parte diverse realtà?
A scatenare tutto è stato il primo Saturnalia, a fine giugno del 2014. Poi c’è stata una crescita notevole anche in pochi mesi, un altro evento molto importante è stato il primo Moondawn, il 31 ottobre dello scorso anno, che è stato diviso in due parti, come anche quest’anno, fino alle 5 con la parte curata da Communion e poi con il primo after in assoluto di HIV.
Rispetto a quello che c’era in ambito notturno e, per certi aspetti, musicale a Milano prima che cominciaste questa fase più intensa del Tavolo Suono, le vostre scelte e il vostro percorso sono stati un po’ una reazione, un tentativo di colmare un vuoto o comunque creare qualcosa che secondo voi non c’era abbastanza?
Credo che l’attività che si è cominciata a fare con Macao e nello specifico con il Tavolo Suono sia nettamente figlia di una reazione della noia mortale che si sentiva fino a qualche anno fa a Milano, ma diciamo che la scintilla non è venuta direttamente da noi, c’è stato qualcuno che ci ha dato l’esempio rispetto a quello che si poteva fare – nello specifico la Buka, Savana e un po’ di altre cose che succedevano in città.
La differenza sostanziale poi, però, la fa anche lo spazio in cui effettivamente si organizzano le cose…
La differenza la fa lo spazio, certo, ma anche quello è stato un po’ in divenire: nel momento in cui ci siamo trovati insieme in un contesto del genere abbiamo per forza di cose pensato che ci fosse già un percorso e un processo in atto e che non potessimo imporci con delle dinamiche differenti, come se fosse un qualsiasi altro spazio. Provando a capire come ci potessimo integrare, è nato tutto quello che è stata la costruzione dell’attitudine e delle idee del Tavolo Suono. Ma è stato tutto molto spontaneo e in divenire. E volevamo farlo in una maniera estremamente do it yourself, non avendo, nessuno di noi, alcun tipo di mezzi per farlo altrimenti. Inoltre, credo che questa attitudine e mentalità così fieramente underground abbia trovato, da parte dello spazio, uno stimolo a renderla produttiva.
Tornando alla domanda di prima: questa apertura di Macao nei vostri confronti e a seguire questa vostra apertura verso l’esterno, che in breve tempo ha ricevuto un gran feedback da parte della città in termini di affluenza, questo circolo virtuoso si è comunque inserito in un territorio che di base aveva meccanismi un po’ differenti, credo.
Questo stimolo è stato anche utile per liberarci di alcune cose che ci avevano sempre dato fastidio di questa città, in particolare legate al modo in cui viene affrontata la socialità a Milano. Una città in cui le stesse cose che vengono identificate come „cool“, come cose giuste di cui far parte, neanche si tende a viverle con troppa convinzione: ci vuole sempre un po’ di distacco, un po’ di freddezza, mai troppo entusiasmo. E noi abbiamo voluto fare esattamente l’opposto. Ci siamo trovati con la possibilità di farlo e quindi abbiamo detto, «Cazzo, allora calchiamo la mano». Poi, per quello che è il carattere di chi fa parte del tavolo, ci siamo messi anche in aperta contrapposizione con tanta roba che già esisteva, ma credo che abbiamo fatto bene, nel senso che era necessario stabilire una differenza. Se già tanti che producono più strettamente clubbing a Milano affermano quanto sia stato difficile metterlo in pratica – perché una mentalità in cui si va a ballare per godersi la musica e il fatto di ballare e basta è difficilmente applicabile su questa città – figurati come possa essere accolto qualcuno che calca la mano… Magari cercando che la musica metta un po’ in discussione, dia un po’ fastidio o faccia sentire cose che non si sono mai sentite, anche a livello di umore, costringendo a un confronto di fronte al quale non ci si sarebbe trovati. Anche il carattere di sfida rispetto alla città, di affronto, di segnare una differenza netta, una frattura, è stato importantissimo. Ma è venuto spontaneo.
L’ho chiesto anche a Gianmaria e rivolgo la stessa domanda anche a te, relativa al fatto che per vari motivi può capitare che il pubblico di Macao finisca con l’essere troppo rumoroso e poco attento a quello che succede sul palco. Vi siete posti il problema e avete provato a capirne le cause ed, eventualmente, a cercare delle soluzioni?
Non è una questione del tutto risolta e ci stiamo chiedendo quale sia il modo giusto di affrontarla, rinunciare all’inclusività e all’accessibilità è qualcosa che non vorremmo fare. Siamo sempre molto attenti e vigili durante la serata, circoliamo parecchio nelle sale perché si cerchi di capire quel è la dimensione giusta in cui vanno fruite certe cose. Credo, in realtà, che l’arma migliore sia la perseveranza, a livello musicale. Continuare a proporre un certo tipo di musica affinché col tempo si capisca che non si può arrivare a Macao aspettandosi qualcosa che non ci sarà. Non so quanto questo metodo stia funzionando in fretta… Anche perché il pubblico è molto diverso, non solo in una singola serata ma c’è anche molto ricambio di persone che vengono per curiosità o capitano per caso, insieme ai frequentatori abituali, che comunque sono tanti. E ci sono poi anche reazioni differenti, c’è chi viene infastidito fino a diventare ostile verso la situazione e la musica che trovano, e invece ci sono quelli che non sanno cosa aspettarsi, arrivano e trovano una situazione che li coinvolge. Abbiamo voluto evitare da sempre di essere paternalistici e perentori, di scrivere cose negli eventi o cartelli in giro per Macao – nonostante in realtà adesso un po’ di cose scritte ci siano, anche per invitare al rispetto non solo degli eventi, della musica e degli altri fruitori, ma dello spazio in sé: non facciamo pagare un biglietto, però ci aspettiamo che si consideri il valore delle possibilità che avere uno spazio del genere ci offre.
Parlavi del pubblico molto diverso, e aggiungiamo che in linea di massima oltre a essere trasversale è anche abbastanza ampio: riesci un po’ a darne un quadro?
Ci sono state un sacco di fasi diverse: una in cui ci sono stati eventi specifici che sono andati bene perché hanno intercettato, anche casualmente, un momento in cui c’era un interesse verso la musica che era ospitata negli eventi, c’è stato un momento in cui faceva figo venire a Macao e poi un momento in cui semplicemente ci venivano tutti…
La cosa che mi stupisce è che sia in relazione alle trasformazioni interne, sia in relazione all’esterno, si parli di «un sacco di fasi diverse». Eppure in fondo non è passato tantissimo tempo da quando il Tavolo Suono come è oggi ha cominciato a prendere forma, poco più di un anno, forse un anno e mezzo prendendo come riferimento quel primo Saturnalia.
Macao è stato travolgente, ripensandoci è il classico cliché ma sembra veramente una vita fa. Eppure siamo davvero molto cresciuti e cambiati, esternamente e internamente. Ed è cambiata tanto anche questa città: c’è stato tutto quello che ci stava portando verso Expo, quello che è successo durante Expo, c’è stato Expo e poi è finito Expo. Che, volenti o nolenti, ha inciso molto sulla vita di Milano, in positivo e in negativo.
Quale è stato l’effetto di Expo su Macao e quali sono stati gli effetti dell’avere, anche in questo caso, una posizione diametralmente opposta, che rimarcasse le vostre differenze rispetto a quello che stava succedendo nella parte di città coinvolta dall’Esposizione universale?
Ne abbiamo sentito l’avvicinamento in una maniera assolutamente negativa, nel senso che l’idea di città che si stava costruendo per arrivare a Expo era qualcosa a cui volevamo opporci. È anche in questa dinamica che si è inserito il lavoro fatto culturalmente a Macao nell’ultimo anno: se si voleva questa città il più possibile come vetrina consumistica, turistica, iper controllata, gentrificata, quello che abbiamo fatto è stato l’esatto contrario. Siamo stati coinvolti anche direttamente in tutta la protesta No Expo. La sera del Primo Maggio, con tutto il casino che era successo, abbiamo collaborato come Tavolo Suono con un’altra realtà che sta dentro Macao e si chiama Ab-Strike, che si pone come progetto l’idea di cercare modi di scioperare il capitalismo cognitivo, e mi ricordo che quella sera c’era una tensione pazzesca… Fare un lavoro critico sulla “economia” degli eventi, sulla socialità e sulla possibilità di produzione culturale – che poi è il lavoro di Macao in generale e non solo del Tavolo Suono – è chiaro che ci ha messi in una posizione antitetica rispetto al fatto che si stesse creando una grande esposizione universale. Nel frattempo la gente più o meno giovane in città sentiva la necessità di sfuggire a quelle dinamiche lì, sentiva l’esigenza di avere un luogo dove la socialità non si esprimesse in quel modo. Ho sentito davvero montare in città un’energia forte, che voleva sfuggire a tutto questo e che si è riversata in modo significativo dentro Macao. Su quello che c’è dopo non si sa ancora come queste due energie contrapposte si risolveranno, sta di fatto che siamo in una città che ha imparato come fare economia sugli eventi – anche musicali, anche non strettamente commerciali – come usarli rendendoli macchina di produzione in qualche modo ideologica. Sai, la Milano di Expo in cui succedono un sacco di eventi, un sacco di cose, un sacco di musica: meccanismi in cui non si sfugge dalla condizione di consumatore perenne.
Altra domanda che ho rivolto a Gianmaria e pongo anche a te: cosa manca oggi a Macao, e in particolare nell’attività del Tavolo Suono?
Una cosa che manca in questo momento e che farebbe una grossissima differenza sarebbe il riscaldamento nel salone centrale! Non so se è una nostra mancanza o del pubblico, ma mi piacerebbe che il processo di cui parlavo prima, circa l’attenzione del pubblico e in particolare nei confronti degli artisti locali o di chi fa musica dentro al Tavolo, arrivasse a un livello un po’ più alto. E soprattutto che tutti questi obiettivi – l’attitudine, l’impostazione culturale e politica – fossero un po’ più partecipati. Non che non succeda, ci sono delle persone che frequentavano semplicemente lo spazio e poi hanno cominciato a dare una mano e lavorare. Ma mi piacerebbe proprio che si arrivasse a un punto in cui non c’è quasi distinzione, in senso buono, tra chi lavora e chi è venuto solo per godersi la musica. Non so se è un punto su cui non siamo arrivati perché non abbiamo raggiunto un certo livello di comunicazione ed espressione verso l’esterno o c’è proprio una resistenza in città. Non escluderei nessuna delle due cose, ma nessuna delle due può essere una condizione insormontabile e definitiva.
È una delle organizzazioni che compongono il Tavolo Suono ma è anche una realtà che sia sul territorio di Milano sia su quello nazionale si è fatta notare creandosi un’identità piuttosto definita, in termini di estetica e cura del suono: come e da quale esigenze è nata Haunter Records?
Haunter è nata in maniera abbastanza simile al Tavolo Suono, con Daniele abbiamo cominciato a conoscerci nel 2013, abbiamo iniziato a parlare di musica, a capire che avevamo un’attitudine e interessi in comune e che condividevamo un’urgenza che con le nostre differenti caratteristiche individuali poteva creare qualcosa. Soprattutto, entrambi conoscevamo diverse persone che avevano qualcosa da dire e volevamo metterle il più possibile insieme e farne qualcosa insieme – esattamente come è successo con il Tavolo Suono, ma con una label e delle uscite discografiche. In particolare, Daniele era uno di questi, aveva già due progetti che sono quelli che hanno fatto un po’ più di uscite su Haunter – Heith e Cage Suburbia – di cui avevo ascoltato le primissime cose, che mi erano piaciute molto. La prima uscita a cui abbiamo dato più importanza è stata una compilation su cassetta, From Northern Italy, While On Our Way To Social Collapse, titolo volutamente e ampollosamente tragico, perché volevamo far capire quali erano le condizioni di partenza: quindi di scazzo, fondamentalmente (risate, NdR), disagio e pessimismo. Abbiamo messo insieme tutti i ragazzi che facevano secondo noi cose belle, Heith, Cage Suburbia, OOBE, Morkebla, Petit Singe e Nubilum. Poi ci sono state altre uscite e diciamo che abbiamo provato a creare un collettivo più o meno fluido, di cui avevamo intenzione di portare avanti le release. Poi si sono aggiunti anche musicisti dall’estero, come S S S S, ma anche qui non ci siamo mai dati a priori un suono che volevamo frequentare o dei limiti.
Prescindendo dal suono specifico delle release, come definiresti l’attitudine di Haunter?
Abbiamo sempre detto che Haunter è punk. Anzi, per essere ancora più ambizioso utilizzo spesso il termine «lingua minore», nel senso che tutta la gente che abbiamo fatto uscire magari parte da uno specifico genere, da un’area principale, per poi creare un suo linguaggio barbaro, un dialetto, dentro questo linguaggio centrale. I Cage Suburbia lo fanno con la techno, Petite Singe e Heith con cose più vicine al dub. C’è poi la non volontà di prendere una posizione tra i vari tempi dell’elettronica, cioè se essere oltranzisticamente attaccati all’analogico o completamente futuristi rispetto al digitale. Anche questa dicotomia è basata tutta sull’urgenza e sui mezzi che ci sono a disposizione, fare il massimo di tutto quello su cui puoi mettere le mani: lo dico anche in senso lato, in termini di riferimenti culturali e possibilità linguistiche, non solo dal punto di vista tecnico. E questa, se fosse per me, è anche la definizione che ti darei di punk e diy.
Haunter e il lavoro con il Tavolo Suono si sono influenzate reciprocamente?
Certo, tantissimo. Le serate curate da Haunter sono legate al nostro gusto e alla possibilità di attirare non solo verso di noi ma anche verso la città realtà che sono simili – abbiamo collaborato con Repitch, ultimamente a fine novembre c’è stato il collettivo Young Echo con Ossia.
Adesso faremo uno showcase a Berlino con il collettivo UnReaL, che insieme a Portals Editions sono stati a Macao come Shaddah Tuum, Noumeno che esce sia per noi che su Portals Editions… Insomma c’è una rete fatta anche sotto questo aspetto, poi siamo anche parecchio in contatto con Diagonal. Macao è stato sicuramente una piattaforma anche per l’etichetta.
È alle porte il secondo Dance Affliction: anche qui, mi sembra che ci sia comunque una line up ragionata, con un filo conduttore. Come è nato e come avete scelto gli ospiti di questa edizione?
L’ideatore di Dance Affliction è stato Arcangelo De Castris, ma abbiamo collaborato da subito, creando un nucleo con Daniele e Manuella. In realtà sia per il primo appuntamento di maggio sia per questo di dicembre abbiamo scelto di approcciare artisti che avevano tutti dei collegamenti tra di loro. Dance Affliction si sta muovendo in questo modo: le line up sono abbastanza coese, composte da persone che hanno in qualche modo dei legami. Anche in questo caso, Samuel Kerridge lo conoscevamo già tutti, sia perché era già passato da Milano sia perché Arcangelo lo aveva fatto suonare a Lecce, dalle sue parti… E tutte le volte che gli avevamo parlato di Macao aveva sempre manifestato un grande interesse, la voglia di partecipare, di venire a suonare – più perché coinvolto dall’entusiasmo delle persone che aveva davanti che dallo spazio in sé… Non fosse altro perché non lo aveva mai visto. Anche in questo caso abbiamo tirato su una line up che ci sembrava avesse senso, a partire da lui ma anche da Christoph de Babalon, che volevamo portare da un po’ a Macao, anche perché è stato una grande influenza per quanto riguarda Haunter. Ci ha fatto un remix che uscirà a febbraio, a me e Daniele piace da morire e lo citiamo continuamente come influenza. Abbiamo coinvolto Pure, che è un altro vecchio pallino e che ha avuto parecchi legami con Christoph stesso, c’è WSR che esce sull’etichetta di Samuel, c’è Paka che ci sembrava un nome interessante – anche se non la conosce quasi nessuno, è una bravissima dj con un’etichetta fantastica che si chiama metaphysik. Ci teniamo a creare questi ponti verso persone che non hanno particolare risonanza e credo che nella line up ci sia già una grossa crescita tra il primo e il secondo evento.
Come quello di Saturnalia, Dance Affliction è un nome che suona come una dichiarazione di intenti. Come lo avete scelto?
Il nome deriva da questo fatto strano ma realmente accaduto nel 1518, la Piaga del Ballo, in cui a Strasburgo qualcosa come 400 persone si sono messe a ballare per giorni per poi morire tutte. In Dance Affliction, l’idea è anche quella di far arrivare il più tardi possibile il momento in cui si balla, quindi è tutto giocato sulla resistenza, sul mettere alla prova, cercare di creare – ma non in senso positivo, negativo o machista – un livello di intensità che sia alto fin dall’inizio e che il momento in cui c’è un rilascio energetico, un rilassamento e una possibilità di godimento fisico maggiore arrivi dopo che è montata parecchia tensione ed energia. Secondo me è riuscito in maniera quasi perfetta col primo, adesso vedremo il secondo.
Quasi degli esperimenti antropologici…
Più che di esperimenti, si tratta di esperienze che a noi per primi interessa fare. E condividere.
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LE FOTO DI BIANCA SARA SCANDEREBECH E ROCCO TREVIS MERLO