Nella sequenza cinematografica più formidabile di sempre sul clubbing, Chieko, una ragazza giapponese sordomuta, entra in un club (il Womb, a Shibuya) con gli amici e il ragazzo che ha appena incontrato e le piace. Hanno passato il pomeriggio a girovagare spensierati per Tokyo, tra risate, abbracci e flirt. Mano nella mano del ragazzo, sale le scale tra i neon arancioni, facendosi largo con lo stupore dipinto sulla faccia tra decine di clubber. Partono un’esplosione di luci in fondo al dancefloor e le prime note di „September“ di Earth, Wind & Fire. Lei non può sentire, quando guarda la pista intorno a sé il suono si fa muto. Poi si lascia andare. Comincia a saltare al ritmo di chi le sta intorno, alza le mani verso i laser che tagliano l’aria. Il battito del basso la culla, il sudore le cade dalla fronte mentre chiude gli occhi e abbandona la testa all’indietro. Qui, nel buio del club, non è più una outsider. La sua bocca si apre in un largo sorriso.
Iñárritu in Babel usa la metafora del club per dire tante cose e sottintenderne altre. Rivedere questa clip in tempi di clausura e di prossimo “social distancing” è un esercizio angosciante ma anche un atto di fiducia: torneremo senz’altro a popolare i club, a lasciarci di nuovo andare sul dancefloor senza pensieri.
Per raddolcire la malinconia, eccoti una lista di documentari legati al clubbing, questa volta di impronta principalmente statunitense.
1. Maestro
Probabilmente il documentario che più di ogni altro ha indicato la via per uno storytelling ragionato del clubbing, “Maestro”, del 2003, racconta la genesi dei primi club newyorkesi, Paradise Garage e Loft. Viene celebrato il genio visionario di Larry Levan, con l’avvallo di interviste di avventori, promoter, dj e staff, più una buona dose di anthem house della prima ora e footage d’annata della gente che balla in pista. Da brivido nei primi minuti la ripresa del selciato adiacente al club in King Street e poi, dall’alto, l’onda del dancefloor in slow-motion, le luci intermittenti e lo scintillare delle mirror ball, mentre suona “Time Warp” di Eddie Grant. Le testimonianze non sono mai banali, dagli ingegneri del suono che illustrano la filosofia del soundsystem, al clubber che descrive le lunghe file all’ingresso, l’atmosfera gioiosa e l’eccitazione al varcare l’entrata, le emozioni di un mix prolungato fino allo spasmo, la libertà di essere se stessi su un dancefloor multirazziale. Toccanti le parole di François Kevorkian a ricordare gli ultimi mesi di Larry Levan e tanti altri amici/colleghi persi nell’epidemia di AIDS di fine anni 80. E poi ancora “Jellybean” Benitez, Vega, Knuckles, Tenaglia, che descrivono quanto la scena dei primi club e il modo di suonare dei pionieri provocò un’innovazione del suono e germogliò nelle musica di una pletora di nuovi producer.
2. Universal Techno
Documentario francese del 1996, “Universal Techno” è una preziosissima testimonianza sulla scena techno internazionale di metà anni 90. Dalle radici di Detroit si vola a Berlino, Barcellona, Londra, Tokyo e Sheffield, facendo il punto sulla rilevanza globale del fenomeno techno e la sua sempre crescente consistenza commerciale. Si apre con le parole criptiche di Aphex Twin (“sono sempre stato un outsider, non voglio far parte di nessun genere”), poco dopo siamo con Sven Väth e il milione di clubber nella Love Parade del ’96, sotto la Siegessäule a Berlino. Juan Atkins e Derrick May ci portano tra le rovine del Michigan Theatre e i quartieri periferici di Detroit in sfacelo; Mark Bell (LFO) ci parla del suo amore per i Kraftwerk, Ken Ishii quello per i Yellow Magic Orchestra. C’è spazio per gli Autechre impegnati in un live (e una visita alla Sagrada Familia) a Barcellona, ospiti della terza edizione del Sónar, un Mike Banks con consueta mascherina griffata UR, un magnifico spaccato di Londra (gli autobus a due piani con la porta aperta sul retro, la metro vintage) in compagnia di Karl Hyde (Underworld), acconciato come da video di Born Slippy. E poi ancora Hard Wax, il vecchio Tresor e tante altre chicche da intenditori.
3. Techno City: What is Detroit Techno?
Documentario diretto “on site” nel 2000 da Ben Cohen ai margini all’edizione inaugurale del Detroit Electronic Music Festival (ora Movement), è una celebrazione del suono della Motor City, la sua nascita, evoluzione e implosione. Nei trenta minuti scarsi di durata ci sono quasi tutti i protagonisti del movimento: Kevin Saunderson, Stacey Pullen, Carl Craig davanti allo scheletro dell’imponente Michigan Central Depot, Derrick May, l’eloquenza di Kenny Lerkin. Ognuno a modo suo parla delle proprie influenze musicali, di quanto crescere a Detroit abbia contribuito al proprio suono. Voci dalla strada. Guidare in una berlina allungata tutta 8 Mile Road. I quartieri dei ricchi, l’erbaccia sui marciapiedi in quelli poveri. Si aprono le danze: “Welcome to Techno Town, questa è una celebrazione della musica e della creatività di Detroit” dice l’organizzatrice del festival che vent’anni dopo sarà ancora un punto fermo del calendario elettronico internazionale. Un applauso a chi ha messo insieme la colonna sonora: una collezione di anthem e atmosfere perfette per accompagnare la narrazione.
4. Put The Needle On The Record
Filmando a Miami durante la Winter Music Conference del 2004, il regista Jason Rem esplora il lato più immediato e glamour del movimento elettronico. Il dj, col il nuovo millennio, diventa una rockstar; la rivoluzione digitale rende disponibile, a prezzo accessibile, software e strumenti per produrre musica in casa, senza il bisogno di studiare composizione. Il documentario è valido perché fotografa esattamente il momento storico in cui le cose stanno cambiando: le label nascono come funghi e competono per un mercato in forte crescita, i soldi girano tra remix e produzioni prestate alla pubblicità, ai film. I festival house attraggono sempre più pubblico abbiente e voglioso di far festa senza troppi pensieri; a Miami al WMC si balla per una settimana nelle piscine degli hotel o con la sabbia di South Beach sotto i piedi, e ancora sulle terrazze degli hotel e nei vari locali intorno a Ocean Drive (il defunto Crobar su tutti). Tante le interviste, da Roger Sanchez ai Deep Dish, da Josh Wink a Mark Farina. Uno stato delle cose forse un po’ indigesto ai puristi, ma necessario per comprendere fenomeni quali il business della musica da ballo, il dj superstar e l’EDM.
5. Discovering Electronic Music
Inteso come affascinante lezione video futuristica sull’uso dei computer e dei synth per la programmazione musicale, è un documentario prodotto nel lontano 1983 dal regista statunitense Bernard Wiltes. Muovendosi tra accrocchi di macchine, fili, manopole, pulsantiere varie, scienziati in camice bianco e musicisti in carne e ossa sintetizzano un suono analogico, procedono ai campionamenti, giocano con l’oscillatore dei sintetizzatori, con i vari filtri e con il sequencing. Tra le curiosità: con una penna si cambia in corso il pentagramma sullo schermo di un mastodontico computer, un floppy disk grosso quanto un foglio A4 viene inserito in macchina con le basi pre-registrate. La tesi è semplice: il computer è il futuro e la musica sta entrando in una nuova era grazie alla tecnologia. Il musicista ha a disposizione nuove armi di espressione, a livello di composizione, esecuzione, registrazione e gestione della sessione.
Un commento al video su Youtube ne da una descrizione perfetta: “La cinematografia di questo film è nello stesso tempo inquietante e incredibilmente avvincente”.
Se ti sei perso la prima puntata di Nat Geo Night, dedicata ai documentari nostrani, qui trovi il link.