Ogni mattina mi ripeto che potrei fare tante cose: il cambio di stagione, imbiancare casa, imparare nuove ricette, studiare una nuova lingua, guardare tutti i film d’autore giapponesi, dalla durata particolarmente dilatata, leggere, tornare a scrivere – non avevo mai tempo -, perché non approfittare di questo periodo? E invece queste sono le prime parole che riesco a battere sulla tastiera.
Cosa sono in grado di produrre in questo momento? E cosa è in grado di produrre la mia generazione? La generazione del precariato, la generazione dello sharing flat, la generazione del voglio fare carriera e poi penso al resto, perché la carriera non può coincidere con la realizzazione personale, sentimentale e affettiva, la generazione dei colloqui politicamente scorretti (“vivi da sola? Hai un compagno? Sei sposata?” Mmmm puzza di figlio…)
Confrontandomi con amici, colleghi e coetanei si delinea davanti ai miei occhi una situazione da spartiacque alla Mosè. Da una parte quelli che sono indaffarati più che mai (in particolare ingegneri, consulenti, sviluppatori informatici, statistici), travolti da riunioni continue su ogni piattaforma possibile e immaginabile, in una corsa al profitto che non si deve arrestare e non si arresterà mai. Inutile interrogarsi e ripetersi incartandosi in elucubrazioni futuristiche: il capitalismo si è sempre adattato a ogni situazione, persino a sistemi totalitari ex comunisti, non sarà di certo il Covid-19 ad ammazzarlo!
Dall’altra parte ci sono invece tutti gli altri che non lavorano per produrre profitto, ma per realizzare un servizio, in particolare i lavoratori della cultura. Quelli che quando non girano i pollici, affiancano ore di lavoro in smart working a ferie/tempo libero/lassismo o si buttano giustamente a capofitto in iniziative nuove, con la speranza di dare un senso a loro stessi, al proprio lavoro che negli anni hanno costruito con sacrifici, per lasciare una traccia di ciò che temono possa sparire, che per ora è fermo, chiuso e forse dimenticato.
Perché sì la cultura non è indispensabile, l’abbiamo sentita fin troppe volte quella famosa esclamazione “con la cultura non si mangia!”; eppure c’è chi ci vive, con fatica ma felice e soddisfatto del ruolo svolto. Perché la cultura osserva, rappresenta e regala visioni ed emozioni, che ci avvicinano l’un l’altro. Chi non sarebbe appagato nel vedere le lacrime agli occhi o il sorriso sulle labbra dello spettatore durante una performance o davanti a un quadro esposto?
Eccoci dopo anni di indecisioni, disoccupazione, tagli e mancate risorse, ora fermi, bloccati, in attesa di una sentenza che decida se siamo utili o no, se i servizi che rendiamo siano o meno importanti per la vita di una comunità
Le raccolte di firme, le iniziative di gruppo, i progetti di palinsesti streaming, le visite guidate virtuali: gli unici a muoversi e immaginare alternative per ricordare l’importanza della cultura sono soltanto i suoi operatori. Ma quale offerta per quale domanda? E dov’è l’élite intellettuale e politica?
Questo è il tempo dei virologi, il tempo dei pareri incerti di ognuno, il tempo di chi “più ne ha più ne metta”. Ogni giorno una storiella in più: chi vagheggia sistemi totalitaristici e abuso di controllo telematico, chi fantastica sulla potenza delle donne più resistenti, chi accusa i giovani irresponsabili, chi annuncia un vaccino, chi una proroga di date, chi gioisce per il cielo più blu, chi si intenerisce davanti ai caprioli a spasso per i paesi deserti, vedendoci un messaggio di madre natura, chi immagina società future in fila e schedati. E poi ci sono i decreti, uno dopo l’altro, e le autodichiarazioni, pezze su pezze, per tappare i buchi di questo sistema che fa acqua da tutte le parti.
Perché in fondo ammettiamolo, la pandemia non ha fatto altro che far venire a galla le piaghe incarognite di un organismo che non funziona; e rimanere chiusi in casa e in isolamento ci spinge a notarlo e ragionarci sopra.
Nella frenesia del quotidiano – tra la sveglia della mattina, la corsa in ufficio, in fabbrica, sul cantiere, i figli a scuola, lo spritz post lavoro, poi la spesa, la ricerca di un appuntamento, poi la cena frugale, i tempi allungati da case affollate e piccole, la famiglia, i bambini, le iscrizioni, le attività sportive, il richiamo dei vaccini, le visite di controllo, l’abbonamento in scadenza, il corso d’inglese, quello di cucina e quello di yoga, la dichiarazione dei redditi, le tasse che non sappiamo come pagare, le spese di condominio e le bollette, l’estetista che costa troppo, il parrucchiere, la rata dell’università, i corsi di aggiornamento, i contratti a termine, gli stage, le application, gli aggiornamenti del cv, le vacanze per chi può permettersele e la caccia ai voli lowcost – non ci accorgevamo di come corriamo dietro alla vita, di quanto poco la determiniamo, di quanto ancor meno scegliamo.
Ed è così che oggi forse scompare del tutto quella capacità di scelta davanti a un’urgenza epocale e incontrollabile, tamponabile sì, ma non gestibile, non con i nostri mezzi, non con la mancanza di previsione che ci contraddistingue.
Cosa diventeremo con i teatri chiusi, i club che non faranno più musica, i cinema che non proietteranno più film?
Un’intera fascia della popolazione sembra abbandonata al divano (per chi ha la fortuna di averlo nei piccoli appartamenti cittadini) o al letto: eccoci dopo anni di indecisioni, disoccupazione, tagli e mancate risorse, ora fermi, bloccati,in attesa di una sentenza che decida se siamo utili o no, se i servizi che rendiamo siano o meno importanti per la vita di una comunità.
Affidati a economisti e scienziati che purtroppo non conoscono le discipline umanistiche, le arti e lo spettacolo, e che di fatto non le nominano mai nei loro infiniti interventi da opinionisti in questi ormai identici e innumerevoli programmi tv che parlano solo di Covid.
E così passiamo le nostre giornate davanti agli schermi, in attesa di una nuova diretta, tra una parodia e un talk show rigorosamente politico in cui il primo e unico monito che sentiamo è “rilanciamo l’economia, rilanciamo la produzione”.
Le notti si fanno allora insonni, a pensare: per lo Stato e la maggior parte dei cittadini siamo davvero così poco utili? È possibile che per noi giovani (e meno giovani) entusiasti, che crediamo nella forza dell’arte, che abbiamo imparato a fare un po‘ di tutto, inventandoci piani e strategie comunicative per rendere la cultura accessibile a tutti, per presentarla divertente e fruibile, per portarla anche nelle periferie e nei contesti più scomodi poi baluardo delle campagne elettorali, possibile che per noi non ci sia come per gli altri una piccola se pur vana rassicurazione sul nostro futuro? Sulla possibilità che esisteremo ancora?
Cosa diventeremo con i teatri chiusi, i club che non faranno più musica, i cinema che non proietteranno più film? Saremo ancora in grado di sognare?