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Speciale Champions League – Le squadre e gli allenatori di Real Madrid e Atletico Madrid

Una città, due allenatori, 22 campeones e migliaia di sogni. Abbiamo raccontato tutto

Geschrieben von Paolo Madeddu il 19 Mai 2016
Aggiornato il 24 Mai 2016

Sabato 28 maggio, a San Siro, quelli che si giocheranno la Coppa dalle grandi orecchie non saranno solamente 22 atleti e 2 allenatori. Ma un mare di storie.

Eccole qui.

Le squadre

I galacticos

Alfredo Di Stéfano
Alfredo Di Stefano con una manciata di Coppe

1 settembre 1953. Il dittatore Francisco Franco annuncia che la guerra tra Barcellona e Real Madrid per Alfredo Di Stefano è finita. E che non ha vinto nessuno. L’argentino, che il Barca ha acquistato dal River Plate, ha già giocato un’amichevole coi blaugrana. Ma il presidente del Real, don Santiago Bernabeu, lo ha acquistato dai Millionarios di Bogotà. Nessuno capisce bene le camarille sudamericane attorno al calciatore: sta di fatto che la Federazione spagnola, su impulso di Franco, decide che Di Stefano giocherà per entrambe, ad anni alterni. Al Barcellona sono increduli: stracciano il contratto infuriati.

Bernabeu, sornione, si frega le mani, paga un indennizzo ai rivali e ingaggia la prima figurina della più fantastica collezione del mondo. Con la Freccia Bionda („Saeta Rubia“) il Real vince subito due campionati e raggiunge a quota 4 quell’altra squadra di Madrid. E accede a questa nuova competizione chiamata Coppa dei Campioni d’Europa, in cui Bernabeu crede molto. La vince cinque volte di fila: Di Stefano segna in tutte le finali.

Nella quinta, lui, il francese Kopa e l’ungherese Puskas asfaltano i campioni di Germania, 7-3 a Glasgow sull’Eintracht Francoforte, nel 1960, davanti a 130mila persone e alle telecamere della BBC.

I giornali britannici scrivono che anche nel continente, a quanto pare, forse, si mormora, c’è una squadra piuttosto forte.

17 febbraio 1974
Cruijff segna il quinto gol: Real Madrid-Barcellona 0-5. Cinque dita, la manita. In casa.
Va bene che in Europa non si vince più da un po‘. Ma questi hanno preso il giocatore più forte del mondo e vengono nella capitale a bullarsi. Come si fa nelle corride, il pubblico fa la pañolada sventolando i fazzoletti: lo spettacolo non garba. E nemmeno il Barcellona. Il futuro sarà fatto di manite rifilate a vicenda, e pañoladas se quanto si vede non è degno del Bernabeu – a costo di mandare via un allenatore che col brutto gioco ci ha appena vinto: chiedete a Heynckes. O a Capello.

27 maggio 1981. Finita. 1-0 per il Liverpool al Parco dei Principi, gol di Kennedy. La copa de las orejas, la coppa con le orecchie non arriva proprio più. La vincono inglesi, tedeschi, a un certo punto persino gli olandesi, si può? E il Real, fermo agli anni 60.

Decenni a tenere stancamente a bada quei noiosi catalani con tanti titoli in meno, e le altre piccole squadre spagnole. Ma in Europa, non si vince neppure con Stielike e Cunningham. Se non altro anche gli italiani son messi male, ci mancherebbe pure che le milanesi si rimettessero a vincer la coppa. Ma no, non può succedere, il Milan va e viene dalla B, e l’Inter quando appare il Real si squaglia, specie in Coppa Uefa, la coppa di quelli che non vincono. Però tra tutte e tre, che nostalgia.

17 luglio 2000. «Lo hanno fatto davvero – pensa Lorenzo Sanz – hanno eletto presidente quel Florentino Perez al posto mio. Dopo 30 anni ho riportato a Madrid la coppa, battendo la Juventus in finale; due settimane fa ho vinto pure l’ottava, battendo il Valencia. Lui gli ha promesso il re di Barcellona, Luis Figo. E hanno eletto lui». Una scelta senza sentimenti o riconoscenza. Come quella di Figo, peraltro: al Nou Camp durante El Clàsico gli tireranno una testa di maiale dalle tribune. E sarà questa la vera vittoria per i tifosi delle merengue. Non importa vincere: importa che tutti sappiano che ci sono tante grandi squadre, ma un solo Real Madrid.

9 giugno 2009. I media annunciano l’arrivo di Kakà per 67 milioni di euro. Due giorni dopo, quello di Cristiano Ronaldo per 94 milioni. Arriva anche Benzema per 35. E poi Xabi Alonso, Albiol, Arbeloa. In totale, 252 milioni di euro spesi in un’estate. «Allora?», pensa Florentino Perez, rieletto presidente dopo tre anni di pausa. «Allora, chi sono i Galacticòs? Va bene, taglieremo Snejder, Huntelaar, Cannavaro, Saviola, Salgado, Robben. Ma che importa. Le stelle vanno e vengono. È il mito, che deve andare avanti. E il mito lo facciamo con Puskas e Netzer, Seedorf e Roberto Carlos, Ronaldo e Beckham, Zidane e Bale: i più famosi, i più costosi, i più vistosi. Tenetevi i campioni che scartiamo come caramelle, i Cambiasso e gli Higuain; tenetevi la noiosa pulce Leo Messi: noi siamo Cr7, noi siamo il torero nobile e arrogante. Voi siete quelli che hanno bisogno di noi, per poter dire: guarda, stavolta hanno perso, ha vinto la programmazione – o peggio, ha vinto la favola. Parlate pure. Ogni tanto, dalla nostra galassia, vi sentiamo».
Paolo Madeddu

I Colchoneros

L'Atlético Aviacion, antenato dei Colchoneros
L’Atlético Aviacion, antenato dei Colchoneros

1 aprile 1939. Francisco Franco annuncia che la guerra civile è finita. E che l’ha vinta lui. La Spagna può tornare a far campionati. Primo club a imporsi è l’Athletic Aviacion de Madrid, losco ibrido tra un’ex filiale madrilena dell’Athletic Bilbao, costretta (con le cattive) a fondersi con quella dei piloti di guerra franchisti, l’Aviaciòn Nacional. L’Athletic vince due campionati di fila. 10 anni dopo col nome Atlético Madrid, deciso nel 1946, farà un’altra doppietta, con un entrenadòr argentino di nome Helenio Herrera.

13 giugno 1956. I vecchi amici dell’Athletic Bilbao con sei campionati eguagliano il Barcellona, la squadra spagnola più titolata al momento. Purtroppo in questi 10 anni l’altra squadra di Madrid, quella con la maglia bianca, ha raggiunto l’Atlético a quota quattro. Come? Cosa dicono di aver vinto, quelli? Una finale a Parigi? Coppa di cosa? Ma che tonteria. Non fa per l’Atléti.

15 maggio 1974. Bruxelles. L’arbitro sta per fischiare la fine dei supplementari, l’Atléti sta per vincere la Coppa dei Campioni sul Bayern Monaco grazie al gol del suo giocatore (e poi allenatore) storico Luis Aragonés, eroe anche del campionato n.7 (…il dannato Real intanto è arrivato a 15).

Ha già accarezzato la coppa nel 1959, ma in semifinale è stato eliminato… sì, dal dannato Real. Venti (20) secondi alla fine: il terzino tedesco Schwarzenbeck prova da 35 metri il tiro dell’Avemaria. Il portiere Reina (papà del futuro portiere del Napoli) sta già festeggiando, si butta tardi: è gol. Non sono previsti i rigori, si rigioca due giorni dopo. Un massacro: 4-0 per il Bayern. L’Atletico si guadagna la nomea di squadra sfigata, i „Pupas“ (da un modo di dire spagnolo: «Esser più disgraziato di Pupas, che cadde di schiena e si ruppe l’uccello»). Ora, va detta una cosa: spesso le squadre, chiedete al Torino o anche all’Inter, dei loro periodi di sfiga si compiacciono un po‘. E l’Atléti, con la retorica dei romantici perdenti, col fascino del Mucchio Selvaggio alla Peckinpah, ci va a nozze. Fa pendant con quella faccenda delle maglie, biancorosse perché un tempo erano ricavate dai materassi: di qui il soprannome colchoneros, i materassai poveri ma orgogliosi. Il dannato Real non li prende sul serio. Per loro, El Clàsico è quello col Barcellona. Li snobbano come la Juventus snobba il Torino, lo chiamano El Patètico de Madrid. Per Javier Marìas, scrittore tifoso del Real, «L’Atléti è un caos di rumore e furia. Da che mi ricordo è sempre stata una squadra turbolenta, incanaglita e imbrogliona, che butta via partite già vinte, ma si permette di pareggiare a Glasgow con 8 giocatori in campo, a metà strada tra rissa ed epopea».

27 maggio 1996. L’uomo sull’elefante per le strade di Madrid è il presidente Jesùs Gil: sta festeggiando il nono titolo, seguito, su un cocchio tirato da 40 cavalli, dai giocatori; tra loro c’è Diego Pablo Simeone, autore di 12 gol, miglior marcatore dopo il bulgaro Penev.

Gil è adorato dai tifosi quanto il presidente storico cui è intitolato lo stadio, Vicente Calderòn: cavalca benissimo l’elefante del populismo. Non a caso per 15 anni è sindaco di Marbella, dove attua un regime tra Corea del Nord e Stato centramericano. I soldi li ha fatti come palazzinaro, anche se uno dei suoi primi edifici, costruito – fondamentalmente – senza fondamenta, nel 1969 è crollato: 58 morti. Ma un suo amico che di lavoro fa il dittatore spagnolo lo reputa un brav’uomo e lo fa uscire di galera subito.

All’Atlético, in 15 anni Gil cambia 49 volte allenatore (tra i tanti, Menotti, Sacchi e Ranieri), fa acquisti a sensazione, da Futre a Christian Vieri (nel 1997: 24 gol in 24 partite), tanto poi i soldi si trovano. Nel 1999 un’indagine scopre che i soldi non si trovano: accanto alle accuse di rapporti con mafia italiana e criminalità russa, contratti in nero e partite „aggiustate“, c’è un buco di 80 milioni di euro. Ora i tifosi gli cantano «¡Gil, cabrón, fuera del Calderón!». Nel 2000 l’Atléti retrocede. Gil, cacciato da qualunque cosa, muore nel 2004.

24 maggio 2014. Lisbona. L’Atlético allenato da Simeone, colchonero cattivo e fiero che con una squadra di tagliagole ha regalato la Liga all’Atletico dopo 18 anni (e due Europa League), sta per vincere la Champions League, e contro il dannato Real. Stavolta non può andar storta, manca un minuto e spicci. C’è un calcio d’angolo per i blancos, Sergio Ramos ci va di testa… Pareggia. Un difensore, come 40 anni fa. Nei supplementari, i biancorossi crollano: il Real fa tre gol e porta a casa la decima coppa contro, ehm, zero. Pazienza! L’Atléti ci riprova nel 2015. Arriva ai quarti di finale. Trova il Real. Che lo elimina. Pazienza! L’Atléti ci riprova nel 2016. Arriva in finale. Trova il Real… No, dai. E su.
P.M.

 

GLI ALLENATORI

Zinedine Zidane, l’amico di Carletto

zinedine

Chi l’avrebbe detto che il sublime Zinedine Zidane sarebbe diventato un allenatore? Pochi, forse.
Un buon allenatore, oltretutto, visto che Zizou si è finora distinto in due competizioni praticamente agli antipodi: la Segunda Division B spagnola, dove ha fatto bene col Castilla, e l’attuale Champions League, nella quale ha portato il Real Madrid alla finale di San Siro sbarazzandosi, tra le altre, di Roma e Manchester City.

Di certo fra i suoi endorsement non figurava quello di Marcello Lippi, tecnico che lo allenò alla Juventus dal ’96 al ’99 e che lo privò del Mondiale 2006 dopo la famosa espulsione causa testata a Materazzi. Il mister viareggino, infatti, ha commentato così qualche mese fa la notizia di Zidane nuovo mister Galactico: «Onestamente non me lo sarei mai aspettato. Quella mia Juve aveva un solo allenatore in campo: Didier Deschamps, l’attuale CT della nazionale francese. Eppure devo ammettere che tanti miei ex giocatori sono diventati mister a loro volta…».

Un nome su tutti: Antonio Conte, il futuro condottiero del Chelsea e attuale commissario tecnico italiano. Solo che Conte urla e martella a più non posso, Zidane non si sa. Dai suoi allenamenti filtra poco e il più delle volte le indiscrezioni ce le fornisce il diretto interessato. «Non mi piace alzare la voce – ha dichiarato colui che stese il Brasile nella finale mondiale del 1998 – ma ammetto che qualche volta sia necessario. Se urlassi sempre ai miei uomini vorrebbe dire che non ho carisma, cosa assolutamente falsa».

Concetti chiari e poetici, quelli del francese originario di Marsiglia, che si allargano fino al modulo di gioco. Alla sua prima uscita di fronte alla stampa spagnola (situazione mediatica che, da calciatore, gli faceva salire l’ansia), lo Zidane allenatore si è presentato – involontariamente? – come l’anti-Simeone in una sorta di preview della prosima finale: «Voglio vedere una squadra che sappia imporre il proprio gioco e che cominci a costruirlo fin dal portiere. Il possesso palla del Real dovrà essere basato su passaggi rapidi, rapidissimi; e l’idea è quella di arrivare in area nel minor tempo possibile coinvolgendo molti giocatori». Facile a dirlo, più complicato realizzarlo nella realpolitik del calcio-business, lo sport in cui tutti vogliono vincere e nessuno ama perdere.

Non è un mistero che Zizou abbia fatto di necessità virtù imponendosi di rimessa (grazie alle reti di Benzema e Cristiano Ronaldo) nella sua vittoria fin qui più memorabile da quando veste giacca e cravatta. Stiamo parlando del 2-1 inflitto al Camp Nou al Barcellona stellare dei vari Messi, Neymar e Suarez. Per non dire della semifinale di Champions contro il Manchester City del cileno Manuel Pellegrini, uno che ha iniziato ad allenare – fine anni 80 – quando Zidane muoveva i suoi primi passi nel Cannes.

Ok, il Real è approdato alla finalissima (reti bianche all’Etihad Stadium e autogol risolutore di Fernando al Bernabeu), ma la performance all’andata è stata deficitaria e decisamente sprecona la settimana successiva. Insomma, qualche problema i Blancos ce l’hanno ancora, dopo i tanti esperimenti compiuti da Rafa Benitez e che, fino allo scorso Natale, stavano compromettendo la stagione del club più titolato di Spagna. Già, il semestre pasticciato e deleterio di Rafa.

Fosse stato per l’autoritario presidente Florentino Perez, uno come il francese si sarebbe dovuto sedere sulla panchina delle Merengues fin dall’estate 2015, ma in quel caso Zizou non se l’è sentita. Ha preferito proseguire quell’addestramento soft al Castilla che l’ha fatto desistere pure dalla corte del Bordeaux, un’altra delle sue squadre storiche. Nella squadra-riserve della Casa Blanca, Zidane (carattere fumantino quando calzava gli scarpini) ha messo in discussione se stesso soprattutto dopo aver perso cinque partite su sei nel disastroso inizio campionato di due anni fa. Il problema, in quel caso, fu un irritante possesso palla poco avvezzo alla finalizzazione (curioso: la stessa colpa di un altro francese, Rudi Garcia, nella sua ultima stagione a Roma).

All’epoca Zizou corse ai ripari chiamando a Madrid il vecchio maestro, Guy Lacombe, già suo allenatore ai tempi delle giovanili del Cannes. Tutto risolto in pochi mesi. La cura Lacombe funziona, Zidane comincia ad accumulare schemi e moduli (nel maggio 2015 prenderà anche il patentino UEFA Pro, indispensabile per allenare qualsiasi team) e a fine campionato il Castilla sfiora la clamorosa promozione nella Liga.

Sarebbe ora di puntare a un grosso club, ma il sì alla panchina del Real arriva solo nei primi giorni del 2016, quando Benitez diventa persona non grata e l’offerta di Perez si fa a quel punto irrinunciabile.

Figlioccio di Ancelotti (i due vinsero la Champions del 2014, a Lisbona, sempre contro l’Atletico Madrid) e portatore di relax in uno degli spogliatoi più calienti di sempre, Zizou fa giocare il suo Real passando da un delizioso 4-2-3-1 a un molto più offensivo 4-3-3. Sulla carta una formazione semplicemente pazzesca partendo dai quattro difensori in linea (Danilo, Ramos, Pepe e Marcelo) fino ad arrivare al poker d’attacco (Ronaldo, James Rodriguez, Bale più Benzema punta centrale) e passando dall’essenziale diga di centrocampo formata da Kroos e Modric. Senza contare il brasiliano Casemiro e Jesé, un esterno sinistro cresciuto nelle giovanili madrilene che sa imporsi anche a partita iniziata (vedi la stessa gara vinta col Barcellona).

Certo, con fenomeni del genere, qualche scettico potrebbe sminuire l’importanza dell’allenatore, di qualsiasi allenatore. Dimenticandosi ingenuamente la gestione di così tante primedonne e i wild mood swings legati alle prime sconfitte. Immenso fu l’apporto di Ancelotti a smussare la pressione ossessiva della Decima (il Real non vinceva la Champions dal 2002 prima dell’arrivo provvidenziale di Carletto) e a far sentire importante CR7 senza, allo stesso tempo, cedergli le chiavi dello spogliatoio.

Zidane sta facendo un po’ la stessa cosa, con molta calma e relativo acume tattico. Il che smentisce un altro luogo comune del calcio: se sei stato un fuoriclasse in campo, difficilmente potrai allenare. Troppo vanitoso il tuo approccio alla vita. Il compianto Johan Cruijff, nei suoi anni felici al Barcellona, smentì decisamente questa chiacchiera da bar. Adesso tocca al buon Zizou ribadire il concetto.
Simone Sacco

Diego Simeone. La fatica non è negoziabile.

Atletico Madrid's Argentinian coach Diego Simeone gestures during the Spanish league football match Club Atletico de Madrid vs Elche CF at the Vicente Calderon stadium in Madrid on April 18, 2014. AFP PHOTO/ DANI POZODANI POZO/AFP/Getty Images@@DV1707650.jpg
Foto di DANI POZODANI POZO/AFP/Getty Images

Hai voglia ad analizzarlo. Hai voglia a sostenere che il suo Cholismo è sulla bocca di tutti e ora lo studiano anche ad Harvard per formare i futuri manager del pianeta. Fate pure, ma tanto non ci arriverete mai a clonarlo. Al massimo vi potrà andare come con i Led Zeppelin: replicati a più non posso dall’industria discografica, riprodotti musicalmente in centinaia di altri gruppi, ma al tirar delle somme ci sono rimasti giusto i Whitesnake…

Poche frottole: per essere come Diego Pablo Simeone González, be’, bisogna nascerci. E lui l’ha fatto il 28 aprile 1970 a Buenos Aires, lo stesso mese che un altro “Paolo” (McCartney) metteva fine all’epopea dei Beatles.

Rileggiamo la sua vicenda: da bambino, ai soldatini e alle macchinine, preferisce di gran lunga il Subbuteo e quindi appare inevitabile il colpo di fulmine, letale e assoluto, col football. Brucia le tappe e a diciasette anni è già titolare nel Vélez Sarsfield, mitologica squadra sudamericana che deve il suo nome a una piccola stazione ferroviaria di Baires (oggi chiamata Floresta), dove i suoi tre fondatori trovarono rifugio dalla pioggia battente.

È da queste parti che Simeone diventa definitivamente “El Cholo” (il meticcio’) dopo che un allenatore delle giovanili – tale Victor Spinetto – un bel giorno gli fa: «Oh ragazzino, lo sai che mi ricordi il tuo omonimo?». Dove l’omonimo altri non è che Carmelo “Cholo” Simeone, rude difensore degli anni 50. Solo che Diego non è solo rude: è totale. Il suo stile (che qui in Italia potremmo ricondurre alla foga indimenticabile di Marco Tardelli) è talmente basico che sembra davvero di vedere l’Atletico Madrid odierno.

Il Cholo sradica il pallone dall’avversario (i Colchoneros fanno addirittura meglio, giocando d’anticipo), dialoga col compagno ed è già là, cinquanta metri più avanti, pronto a concludere a rete. Una macchina fatta di muscoli e voglia di primeggiare.

Romeo Anconetani, il mai troppo compianto presidentissimo del Pisa, se ne invaghisce perdutamente vedendolo in Arabia Saudita ai Mondiali Under 20 e quindi – all’alba dei Nineties – per il Cholo si spalancano le porte dell’Italia, alias il campionato più bello del mondo.

Bisogna essere onesti: arriva nel nostro Paese il 24 luglio 1990, in un periodo in cui i rapporti tra Italia e Argentina non sono, per così dire, rilassatissimi (ricordate la maledetta semifinale di Italia 90? Esatto, quella vinta ai rigori dall’Albiceleste…), ma Simeone ci mette poco a farsi adorare. Resterà sotto la famosa Torre due stagioni prima di emigrare in Spagna, dove al Siviglia giocherà con un irriconoscibile Maradona (per El Diez il declino era appena cominciato) e con la casacca biancorossa dell’Atletico inizierà una focosa relazione condita da un trionfo nella Liga del ’96.

Da lì è ancora Belpaese quando Massimo Moratti lo porta all’Inter per proteggere le spalle di Ronaldo. Il primo anno meneghino è da incorniciare (la Beneamata vince la Coppa UEFA demolendo la Lazio in finale a Parigi), il secondo già più problematico: si vocifera di un furioso litigio del Cholo con il clan guidato dal Fenomeno. Dodici mesi dopo, però, sarà lo stesso Simeone – che nel frattempo è diventato laziale – a soccorrere Ronaldo dopo il suo tremendo infortunio avvenuto in semifinale di Coppa Italia. Il Cholo è nervi, ma anche cuore che non conosce confini. Il 2000, alla Lazio, è uno dei suoi tanti anni magici: vince lo scudetto segnando un gol pesantissimo alla Juventus, affondata poi nel pantano perugino. Simeone s’innamorerà di quei colori biancazzurri che tanto gli ricordano quelli della sua Selección (è un falso storico, infatti, che sia una bandiera interista: Diego Pablo è rimasto a Roma il doppio dei suoi anni milanesi) e il 5 maggio 2002, da serio professionista, infligge alla Beneamata la sua più grande delusione sportiva dell’era moderna.

Nel 2006, tornato in patria, appende gli scarpini al chiodo, ma un futuro da opinionista non fa per lui: Simeone vuole allenare e il suo, all’inizio, è un pratico 4-4-2 dove tutti lottano come spartani. Fa subito il botto con l’Estudiantes, ma presto impara a sue spese (le deludenti annate al River Plate e al San Lorenzo) che dirigere il gioco da una panchina è il mestiere più difficile del mondo.

Rispunta l’Italia: il Catania gli offre un posto e gli dice: «Cholo, salvaci dalla B». Il Nostro, in Sicilia, comprende che un 4-2-3-1 (i maligni dicono 4-5-1) potrebbe risolvergli il problema principale del football moderno: fare le nozze coi fichi secchi. Portare a casa i risultati pur non potendo spendere come sceicchi arabi o magnati post-sovietici.

Salvato l’elefante catanese, torna all’Atletico Madrid e diventa dio in terra vincendo qualsiasi cosa (Liga, Europa League, Supercoppa Europea, Coppa del Re, Supercoppa di Spagna) e sfiorando la Champions nella finale 2014 di Lisbona, quella del pari in extremis di Sergio Ramos. Eppure lui non dimentica: «A Madrid ho avuto fin dall’inizio più mezzi e giocatori migliori; a Catania invece ho dovuto cavarmela in mezzo a tante difficoltà che mi hanno temprato il carattere e fatto crescere.».

Il semplice (che non vuol dire facile) resta il suo stile di vita: contratto multimilionario, ma per renderlo felice bastano una corsa in spiaggia, una tazza di Mate e un toast gustato a colazione mentre sfoglia la stampa sportiva. Il look sempre impeccabile (quel giacca-cravatta-camicia-pantalone total black che ha già fatto tendenza), il capello ingellato a dovere, un grugno quasi alla Tom Waits e un capolavoro tattico che solo gli ignoranti continuano a vedere come l’anti-calcio, o l’autobus parcheggiato davanti alla porta. E invece si tratta di undici uomini grintosi sempre dietro la linea del pallone.

Parliamoci chiaro: se giochi contro i Colchoneros non esiste campo per l’avversario – chiedere a Barcellona e Bayern Monaco – e talvolta neppure aria. L’uruguagio Godin, supremo centrale difensivo, è un po’ l’alter ego del suo allenatore, mentre la cerniera di centrocampo, rafforzata dagli esterni Koke e Saùl, sembra quella dei jeans quando si lotta coi chili di troppo: strettissima. Per non dire dei due attaccanti, il francese Griezmann e l’ex milanista Torres, che si sacrificano a più non posso perché per Simeone la vittoria arriva solo quando «El esfuerzo no se negocia», la fatica non è negoziabile.

Se il calcio di Zidane sono gli Air, quello del Cholo assomiglia decisamente agli AC/DC. Soprattutto quando Brian Johnson canta lascivo «Hard as a rock».

Duro come la roccia.
S.S.