MUERTE
„The talk will take place in Milan, at the Triennale, Wednesday 26 at 7 pm.
It is not a party (and not a funeral); it is a serious talk!
Party will be maybe later, funerals we would rather avoid.“
Mercoledì 26 giugno 2019 si è tenuto in Triennale il commiato per la celebre rivista di architettura San Rocco, giunta a prematura fine (inizialmente il termine doveva essere il numero 20) con il quindicesimo numero dedicato, coerentemente, al tema Morte.
San Rocco è una delle più fortunate esperienze editoriali recenti nel campo dell’architettura, un giornale tirato in 3000 copie quasi sempre sold out. Una sorta di miracolo editoriale per un magazine indipendente prodotto in Italia e dedicato all’autonomia dell’architettura, disciplina che versa notoriamente in condizioni tragiche, perlomeno in questo paese.
Un gruppo di editori tra i trenta e i quarant’anni, nel 2010, ha costruito un caso editoriale capace di influenzare una scena architettonica europea e internazionale assopita da tempo in un dibattito che vede pochi argomenti disciplinari e che, in larga parte, esclude la storia, preferendo ad essa l’originalità e l’invenzione. San Rocco invece si occupa prevalentemente – o meglio si occupava – di storia dell’architettura, nella convinzione che non vi possa essere autentico progresso senza basi solide e che tali basi non possano che poggiare sulle nozioni che il passato fornisce e da cui è possibile attingere a piene mani.
Fino a qui niente di diverso da un magazine accademico, anche piuttosto conservatore. L’intuizione di San Rocco è stata rendere attraenti tali argomenti. Lo ha fatto attraverso diversi strumenti, forniti principalmente da una commistione tra fotografia, architettura e graphic design. Da un lato proponeva una prosa tutt’altro che accademica, volutamente disinvolta fino, alle volte, all’eccesso. Dall’altro si concentrava su un rapporto estremamente classico tra testo e immagini, escludendo diagrammi, infografiche e altri apparati visivi. San Rocco si componeva classicamente di testi, immagini e disegni.
Nonostante la fortuna critica della rivista, come è noto, nessuno ne ha mai letto per intero un numero. Se ne servisse prova, nella presentazione in Triennale di cui sto scrivendo, si è sottolineato varie volte questo aspetto, quasi anche con un certo compiacimento. Neanche gli stessi editor della rivista, se non forse alcuni malcapitati che avevano l’ingrato compito di selezionare le candidature al call for paper, hanno letto tutti i numeri per intero.
Paradossalmente, nel tentativo di ribadire il valore della teoria e della scrittura in architettura, San Rocco ha ottenuto l’effetto opposto. Il primato del testo sull’immagine, in opposizione al dilagare di immagini, render, visions, etc, (la principale tra le diverse invettive di San Rocco verso la cultura architettonica contemporanea), ha trovato nella fruizione della rivista una sua assoluta negazione. San Rocco è diventato in brevissimo tempo un oggetto di culto, un feticcio per giovani architetti – detti poi sanrocchini – che, lungi dal leggere i testi (alle volte anche effettivamente noiosi), hanno iniziato a ripetere i codici stilistici che hanno reso celebre la rivista, ovvero le assonometrie nere a linea bianche, i disegni al tratto, sempre in bianco e nero, il ridisegno di piante e alzati definiti da un codice stilistico uniforme, etc. In San Rocco il disegno è inteso come forma di conoscenza, nell’utilizzo che invece ne fa il sanrocchino il disegno è privato della nobile intenzione di indagare l’architettura tramite i suoi strumenti fondamentali e diventa un semplice canone stilistico, così come, nel 2010, quando uscì il primo numero della rivista, lo erano i pantaloni stretti da indie rocker, i maglioni larghi, le Clarks o le Vans rotte.
Da un lato credo che San Rocco abbia avuto un grande merito, ovvero far confluire gli architetti più interessanti di una generazione, quella che nel 2010 aveva dai 30 ai 45 anni, in un unico contenitore, presentandoli in un qualche modo come un insieme unitario. Mi riferisco ad architetti anche molto diversi tra loro, da 2A+P fino a Atelier Kempe Thill, da Kuehn Malvezzi a Piovene Fabi, da Baukuh a Salottobuono, da OFFICE KGDVS a 51N4E, che in questa operazione hanno trovato un’espressione collettiva capace di essere riconosciuta e mutualmente di riconoscersi. Per la mia generazione, ovvero quella successiva alla loro, è stato un gran sollievo, perché finalmente, in architettura, c’era qualcosa che stava accadendo, che si poteva toccare con mano e non solo vedere su archdaily nelle espressioni decadenti dei vari allievi di quarta generazione di Koolhaas o di Gehry, se non direttamente assistere alla produzione tarda dei suddetti maestri come fosse l’unica cosa che stesse accadendo. San Rocco, in questo senso, ha mostrato che con volontà, pochi soldi e buone idee le cose si possono fare, basta essere adeguatamente ostinati.
Alla fine dei conti credo però che San Rocco sia stato un grande fallimento. Non tanto per non avere concluso il ciclo (che da alcuni titoli e descrizioni bizzarre dei numeri a venire, in calce al San Rocco 15, credo sia forse anche un bene) quanto piuttosto per le ambizioni dei suoi autori, rivelatesi tragicamente sproporzionate rispetto all’ambiente circostante. Nel tentativo di riaffermare la parola scritta, la teoria e anche la storia dell’architettura come strumenti progettuali primari, San Rocco si è ritrovato a dovere la sua celebrità ad apparati grafici che differiscono da quelli criticati solo per il fatto di essere più eleganti e fatti meglio. Questo potrebbe di certo bastare se non fosse che l’ambizione della rivista era essere letta, non solo collezionata. In questo, se mai ce ne fosse bisogno, l’esperienza di San Rocco ha sancito un’altra volta il declino costante di una disciplina dove le parole sono sempre meno importanti e dove lo spazio per l’esercizio critico e lo studio storico (quello fatto con calma e non su facebook, pinterest o instagram) è sempre più ristretto.
In ogni caso, grazie San Rocco, prima si stava peggio.