Se qualcosa è mancato durante questo periodo, sicuramente non è la cucina. Le lunghe ore a casa ci hanno permesso di sperimentare, riscoprire e immergerci in qualche ricetta gourmet, o almeno provarci. Cosa dice la vostra bilancia? Abbiamo ragione? Sono comunque numerose ricerche nel 2020 hanno registrato un aumento di consumi in tutte le categorie di prodotti alimentari. Anche il web è ormai una giungla di blog, siti specializzati, influencer di padelle e fornelli. Dalla cliccatissima “carbonara scientifica” ai video mulinobiancheschi dell’iperstellato Massimo Bottura fino all’imperituro Giancarlo Perbellini, gli chef dello stivale hanno provato a stimolarci per riproporre un loro piatto. Ma non illudiamoci. Per diventare valide massaie, o dei veri pro, dovremmo almeno passare attraverso l’ottocentesco “La scienza in Cucina” di Pellegrino Artusi. Noi di Zero il nostro piccolo contributo, durante il primo lockdown, abbiamo voluto darlo con ricette pratiche, veloci, economiche e soprattutto: ok!
C’è una rinnovata attenzione al cibo: sì, ma con un’inevitabile vellutata di marketing. Non è solo un universo social di piatti #foodporn, quello che ci ha invaso nel 2020 e si appresta ad affermarsi anche in questo inizio di 2021, ma anche un pot-pourri di certificazioni con sfondo verde-prato-all’inglese che ci hanno distolto dalla semplicità di un comportamento etico verso il nostro territorio. L’ultimo decennio ha visto le eco-etichette, il km0, la parola “locale” diffondersi per gradiente in una società più attenta a questi argomenti, svuotandosi però di significato. Parole come “sostenibile” e “circolare” rischiano di diventare la foglia di fico per qualche sterile operazione di green washing. In un momento in cui il sistema alimentare è responsabile del 10% di emissioni di gas effetto serra e principale causa di disboscamento nei paesi in via di sviluppo, non dovremmo scherzarci troppo sopra.
In questa nuova adolescenza alimentare che stiamo vivendo diviene quindi essenziale poter dare gli strumenti per capire il peso e l’influenza delle proprie scelte quando si deve decidere cosa e dove comprare. Si tratta di un concetto brillantemente spiegato nel libro “Il dilemma dell’onnivoro” di Michael Pollan e che sta vedendo impegnati scrittori, contadini, commercianti, filosofi, cuochi, ricercatori. Questa ricerca di approcci e metodi nuovi per armare consumatori resistenti e indipendenti, ha le sue “avanguardie” anche a Venezia. Un processo di fermentazione, lento ma constante, diffuso in ambito lagunare è quello delle “Osterie della Buona Accoglienza” e dell’associazione culturale “Tocia: cucina e comunità”, capitanata dal – non chiamatelo chef – Marco Bravetti, visionario e eclettico personaggio che ha l’obbiettivo di portare l’attenzione sul rapporto intimo tra prodotto, luogo e ricetta. È arrivato il momento di conoscerlo da vicino. Ci facciamo raccontare la sua storia come fosse un menu: iniziamo con…
– Carpaccio con mayonesa di ostrica, alghe marinate e olio di sesamo
«Ho mosso i primi passi nella cucina del ristorante di famiglia, a colpi di “Sarde e Baccalà”» ci racconta il diretto interessato «ero un giovane cuoco appassionato, ma non avrei mai pensato che sarebbe stato il mio lavoro, dividevo l’attività in cucina con l’attività di videomaking. In quel periodo ero affascinato dai sapori incontrati nei miei viaggi, parlando con gli avventurieri della città o compagni di università, trovando in “dottor Google” un fedele compagno per sfamare la mia curiosità. La cucina, di tradizione, passo dopo passi mi andava stretta».
Dopo aver accantonato la videocamera, Bravetti inizia a proporre al padre piatti «che oggi forse non apprezzerei neanche io» commenta. E lui? «Reagiva con un mix di sorpresa, suspense e inorridimento». Il Carpaccio con mayonesa di ostrica, alghe marinate e olio di sesamo è una delle ricette con cui inizia a contaminare gradualmente la carta del ristorante di famiglia. È un piccolo passo per la cucina veneziana, un balzo per Marco che sviluppa una cucina istintiva priva di schemi e regole fisse, guidata dal suo palato, lontana dal rigore scientifico che caratterizzava la cucina molecolare che vedeva la sua affermazione grazie al genio di Ferran Adrià e del suo “Bulli”.
– Tartare di Manzo con formiche di bosco
Dopo la cessione del ristorante di famiglia, Marco decide di andare via da Venezia: Spagna, Brasile e stabilendosi infine a Londra, inviando curriculum a diversi ristoranti tra cui il celebre “Noma” di Copenaghen. «Un sogno che può velocemente trasformarsi in un incubo o stress» ricorda, ma che lo ha condotto in un percorso di destrutturazione del gusto in regole organolettiche che tutt’ora caratterizzano la sua grammatica. Nel 2014 entra nel percorso di formazione di quattro mesi del “Noma” dove si unisce alla brigata di Rene Redezpi, co-fondatore e chef del noto ristorante danese, alla ricerca di «un’energia primitiva grezza del cibo». Freschezza, purezza, semplicità, etica, le basi su cui si basa il ristorante tre stelle Michelin. È un luogo iconico per la cucina che coniuga processi e tecnologie antiche e moderne, un laboratorio dove si indagano le nuove forme e dimensioni del cibo attraverso tecniche di fermentazioni, utilizzo di prodotti selvatici e insetti. Qui si rivendica il ruolo della cucina come protettrice della biodiversità e agente stabilizzante del territorio. Tra la preparazione del Garum (salsa liquida di interiora di pesce e pesce salato, utilizzata dagli antichi Romani come condimento) o andando a caccia di formiche tra la neve nell’area circostante Copenaghen, Marco trascorre un periodo di formazione che lo ha profondamente cambiato sia nel modo, che nell’approccio del prodotto. Un regno diverso, atipico, futuribile, ma allo stesso tempo strutturato e fluido. La chiave per cercare di capire il “Noma” sta nei suoi piatti e nelle tecniche che li compongono. «Se il piatto necessita di un’acidità e non ti trovi in un clima caldo-temperato» spiega Bravetti «il cuoco del Nord dovrà incontrare un nuovo prodotto per emulare l’aromaticità e l’acidità dell’agrume». La tartare di manzo con formiche di bosco è l’esempio. Infatti, prendendo in prestito le nozioni di chimica, l’acido formico contenuto nelle formiche può donare al prodotto la nota acidula-piccante ricercata. Il risultato non sarà lo stesso che con l’aggiunta del succo di limone o i capperi, però la costruzione del piatto avverrà applicando le stesse regole organolettiche, con un alfabeto diverso. È anche così che si impara ad uscire dalla comfort zone di un settore alienati nelle commodities, a volte imposte, dai soliti fornitori.
– Queochetivol (“quello che vuoi “) in Saor
Se il ruolo del ristorante è quello di promotore e difensore della cultura di un territorio, quale piatto potrebbe rappresentare e essere utilizzato come difensore del contesto lagunare? Marco, dopo un’esitazione solo apparente, risponde senza esitare: «Saor». Banale? Macchè! Il colpo di teatro arriva dopo, quando gli chiediamo con quale prodotto cimentarci la “rivelazione” è: «queochetivol».
«Saor» prosegue il nostro “chef di comunità” «è la tecnica alla base di una cucina di sussistenza e di conservazione nata dall’esigenza di un territorio che non offriva spazi produttivi estesi per sostenere una città nata e cresciuta come luogo di passaggio per mercanti e letterati. Una ricetta dei tempi passati quando nella città lagunare era costoso procurarsi il ghiaccio al contrario dell’olio, delle cipolle e del sale. Se alla necessità della popolazione di conservare il pesce o la carne, si aggiunge la disponibilità di spezie provenienti dall’Oriente si capisce come questa tecnica sia entrata nelle case dei nobili veneziani, arricchendola con l’aggiunta dell’uvetta sultanina o dei pinoli. Questo fenomeno è tipico del ‘600, dove le ricette popolari vengono servite nei palazzi nobiliari e borghesi con l’aggiunta di prodotti più costosi, generando così una stratificazione diversificata della ricetta nella città».
«Il “Saor” utilizza la stessa grammatica, ma un diverso alfabeto, rispetto alle altre tecniche di conservazione presenti nelle città portuali del Mediterraneo combinando o utilizzando in modo autonomo la salatura, marinatura, frittura e essiccazione. Tali sistemi di conservazione ci appaiono ormai in parte anacronistici. I supermercati di oggi, visti con lo spirito dei secoli scorsi, potrebbero apparire metafore viventi del paese della cuccagna “dove le spighe recano pani invece dei chicchi e dove non esiste la vecchiaia” (Luciano di Samosata, Storia Vera, II sec. a.C.) eliminando la necessità di ricorrere a questi sapienti escamotages». Bravetti ci fotografa così una lenta, progressiva e ancora controversa mutazione nel rapporto tra l’uomo e il cibo, la cui disponibilità diffusa (o quasi) potrebbe spingerci a raggiungere il record demografico dei nove miliardi di persone entro 2050, senza essere però veramente coscienti di come sostenere tale crescita, e i relativi consumi, in forme sostenibili.
– Tocio: la salsa rivoluzionaria che non ha una ricetta codificabile
Dopo gli antipasti e i primi, ora voltiamo pagina. Dal “Noma” Marco torna a Venezia. Dopo un primo momento di palestra e di sperimentazione ai “Figli delle Stelle”, entra nel piccolo ed elegante ristorante stellato “Il Ridotto”, nove posti a sedere, dove ha la possibilità di affinare un linguaggio proprio. «È stato per me un momento di grande libertà espressiva» spiega Bravetti «nel quale ho potuto coniugare il mio spirito avventuriero del passato, con una nuova consapevolezza. Gli ingredienti fondamentali c’erano tutti: prodotti di alta qualità, un pubblico interessato e la possibilità di articolare tempi e luoghi nei piatti in un percorso verso il territorio primitivo lagunare». Il ristorante viene concepito non solo come luogo dove le persone devono stare bene, ma anche come un mediatore necessario tra la storia e i suoi abitanti, tra il contesto naturale che lo circonda e le sue tradizioni. Non può sfuggire come le arti della gastronomia, con le loro profonde radici popolari, oggi rappresentino una sorta di passepartout per la conoscenza di epoche lontane: agiscono come il salnitro (sostanza, nitrato di potassio, usata per conservare e che dà il nome alla lingua salmistrata, tipica ricetta veneta).
Nel 2019 nasce “Tocia: cucina e comunità”. Marco, come un frutto maturo che si stacca dall’albero, decide di lasciare il Ridotto, per sviluppare la sua personale idea di cucina resistente e popolare, rivolta anche a chi non può permettersi un menu stellato. Nasce così questa piattaforma nomade sperimentale e diffusa: il suo obiettivo è quello di portare avanti una ricerca accessibile sul cibo e l’alimentazione. Il “tocio” è il sugo/manifesto, la salsa rivoluzionaria che ne accompagna le azioni: «Materia viva che celebra un rito in cui la visione e le intenzioni attraverso la cucina si fanno sostanza» lo descrive così «Non ha una ricetta codificabile e non sembrerebbe avere un autore. Il “tocio” viene custodito dalla comunità, che se ne prende cura conservandolo, contaminandolo e godendone in forma conviviale. Mescolando pratiche e tecniche culinarie antiche e moderne, tecnologiche e primitive. Dal Mole messicano, con la tostatura dei singoli componenti poi pestati al mortaio, ai sughi di scuola classica italiana e francese, i soffritti e i ragù, le cotture lente e le pentole (tecie) di terracotta della cultura contadina, le conserve tradizionali nella civiltà mediterranea, fino all’uso delle fermentazioni che caratterizza il Miso nelle cucine asiatiche e le pratiche avanguardistiche della cucina nordica». Tutto quello che è avanzato dagli eventi a cui “Tocia: cucina e comunità” ha partecipato durante il 2020 come “Fresch.in festival”, “Cinema galleggiante”, “Vino Kilo”, ora giace latente in questo sugo manifesto, sintesi di un pensiero complesso, popolare e resistente.
– Pasta e Fagioli resistente al corona-miso
Il progetto negli ultimi mesi è atterrato all’interno della sede dell’associazione “Spiazzi”, nel sestiere di Castello. È avvenuto alla fine di una calda estate che ci aveva fatto, quasi, dimenticare della situazione pandemica. «Qui» spiega Bravetti «ho voluto creare un luogo di racconto e di azione, uno spazio concreto dove stabilire un food lab composto da una tavola per riunire i commensali, una cucina e uno spazio espositivo. Un punto di ritrovo e di partenza per andare a fare un’attività di foraging nelle barene, a trovare gli ultimi pescatori della laguna o i produttori del Cavallino».
Dentro questo spazio Marco sta elaborando e trascrivendo un percorso di ricerca, dove gli ingredienti sono le persone, i sapori e gli incontri. L’apertura era prevista il 9 ottobre scorso. Ma nell’attesa di una nuova stagione, in questo lungo inverno pandemico sotto sale è già avvenuta la creazione di una dispensa viva composta da cibi fermentati, inviati o realizzati in loco dalla cordata di chef lagunari che hanno sposato il manifesto del progetto Tocia. Le iniziative in programma sono state annullate a colpi di Dpcm. Malgrado l’impossibilità di creare una programmazione culturale Marco non si da per vinto: «Confido nella possibilità di poter realizzare un festival di tre giorni in primavera dove concentrare le molteplici iniziative e dialoghi instaurati durante questi sei mesi. Un momento catalizzante per agricoltori, chef, consumatori, antropologi, artigiani che raccoglierà e sintetizzerà nei piatti, esposizioni, conferenze la nostra ricerca».
E ora, dopo tanto parlare, scaldiamoci assieme con questa ricetta coriacea della “Pasta e Fagioli Resistente al corona-miso”. Tempo ne avete no?
Una scoreggia seppellirà il virus!
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Ingredienti – Miso da 5 Kg
Tempo [a seconda di quanto vogliamo farlo maturare – dai 3 mesi]
1,6 Kg Fagioli Carona Secchi [ 3Kg da cotti]
1,8 Kg gogi
200 g Sale [4% sul peso totale]
Miso di Fagioli Corona
Pasta formato Ditalini [ Fondamentale]
Alghe
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Preparazione
- Preparare il gogi
-Cucinare del riso/orzo al vapore
-Inoculare le spore Aspergillus Oryzae e farlo proliferare a temperatura controllata
-Dopo 48 ore otterrai la muffa edibile - Preparare il Miso
-Mettere in ammollo i fagioli corona per una notte
-Cottura a vapore per 1 ora e mezza il fagiolo debe rimare-Portata a temperatura ambiente si aggunge il gogi e si frullano insieme per ottenere un impasto granuloso. Alla fine di questo processo si aggiunge il sale.
-L’impasto riposto in un contenitore viene appiattito posizionandone un peso sopra per facilitare l’uscita del liquido. Dopo l’uscita del liquido l’impasto viene avvolto da un panno per una corretta ossigenazione.
-Il prodotto nelle prime settimane deve essere rimescolato per facilitare la corretta fermentazione. Attenzione che state maneggiando una bomba batterica (buona) quindi realizzate queste operazioni con estrema cura evitando di contagiare l’impasto con batteri esterni lavandovi le mani e tenendo il prodotto in un luogo protetto.
-Lasciare fermentare il Miso di fagioli Corona dai 3 mesi in sù per ottenere il vostro prodotto. Il Miso una volta che si e’ stabilizzato può continuare la sua fermentazione irrobustendo il sapore finale del prodotto. Provare per credere! - …Passati questi sei mesi
-Cuciniamo i DITALINI nell’acqua dove abbiamo sciolto il corona-miso. Aggiungi le alghe per dare un tocco di salmastro-lagunare alla zuppa resistente.