Poteva succedere ovunque, nel senso che, date le premesse, aveva le stesse probabilità di accadere in qualsiasi altro posto. Questo se, a detta di chi c’era, in quel posto non c’era nulla – racconta Artwork, uno dei primi produttori dubstep, durante una RedBull Music Accademy, NdR. Perché se Londra è una delle metropoli più grandi al mondo, con trame di persone che si intrecciano e si districano nel tessuto urbano in particolar modo nel centro abitato, non si può proprio dire lo stesso di Croydon.
Il grigio era il colore dominante di quel panorama, dal cemento del marciapiede passando per i palazzi, arrivando fino al cielo.
Quartiere di Zona 5 ai margini di Londra, può essere considerato periferia delle periferie. Ci vuole circa un’ora per raggiungerlo dal centro città; alla stregua di un hinterland è la classica zona dove gli abitanti tendono a muoversi verso il centro cittadino per trovare qualcosa da fare. Ma per tanti che escono dalle loro zone in cerca stimoli, ce ne sono altri che rimangono creandosi i loro in maniera autonoma, ed è proprio in questo contesto di nulla cosmico che ogni singolo posto diventa angolo di salvezza dal vuoto e dalla marginalizzazione, e in questa storia quel posto è il Big Apple Records, negozio di dischi al 37 di Surrey Street, gestito dagli storici producer della scena Artwork e Hatcha.
È questo il punto di ritrovo dove giovani partecipanti del movimento si incontravano per ascoltare dischi e confrontarsi sulle loro produzioni, ed è tra questi che ritroviamo i nomi dei fondatori di un genere che al tempo era difficile da definire proprio perché non suonava come nient’altro, tra cui Mala, Coki, Loefah, Benga e anche un giovanissimo Skream. È qui che i primi tre nominati gettavano le basi per fondare la storica label DMZ con l’annesso evento notturno, ed è sempre qui che gli ultimi due rafforzavano il loro rapporto di amicizia e accrescevano la loro conoscenza musicale, inizialmente pari a 0, per poi sfornare pietre miliari del genere come Skream! e Diary of an Afro Warrior.
FWD>> night al Printworks con Skream ft. SGT Pokes in consolle, aprile 2023
Stiamo chiaramente parlando della dubstep, e per continuare a farlo dobbiamo prima fare un passo indietro per capire cosa definisce questo genere. Com’è facile immaginare, Croydon non era una zona particolarmente abbiente, e tanto meno lo erano i suoi abitanti, che di conseguenza non avevano spesso accesso a nuove e costose tecnologie. È infatti con computer di seconda mano, malmessi e potenzialmente rubati, che nascevano le prime produzioni dubstep, attraverso un software che ha marchiato in maniera fatale la struttura di questo genere: Fruity Loops Studio, programma che nella quasi totalità dei casi – lasciamo il beneficio del dubbio – era sotto forma di crack illegale. Aprendo FL Studio il tempo di default del metronomo è di 140 battiti per minuto, ed è senza alcun tipo di consapevolezza che quei bpm sarebbero diventati il tempo su cui si è costruito l’intero genere. Sono i primi anni Duemila e a Londra il genere musicale che domina la notte è la UK garage, che scala le classifiche raggiungendo uno status talmente elevato del music business inglese da permettere ai produttori di punta di creare le loro tracce all’interno di studi da migliaia di pound. È proprio dalla UKG e dalla sua variante, la 2-step, che viene partorita una figlia illegittima, la dubstep, ibrido che filtra i contesti di festa e celebrazioni tra champagne poppin’ e melodie colorate della UKG con l’ambiente scuro fatto di mezzi limitati che ingrigisce la periferia. Come raccontato da Mala, il grigio era il colore dominante di quel panorama, dal cemento del marciapiede passando per i palazzi, arrivando fino al cielo. È abbastanza curioso che il grime, diventato nel tempo il rap made in UK, abbia avuto una parabola molto simile, a partire dai 140 bpm di default di FL Studio passando per essere una deriva sperimentale e futuristica della UKG. Non è invece un caso l’overlap di pubblico e di collaborazioni tra il pubblico grime e quello dubstep, con MCs che facevano da host durante serate storiche come FWD>> e DMZ saltando da una scena musicale all’altra.
«Se il grime è la voce della Londra urbana arrabbiata, la dubstep ne è l’eco principale, il suono di bassi terribili che si riflettono sui muri in rovina.» – Martin “Blackdown” Clark
L’ultima componente necessaria per comprendere la genesi della dubstep si trova in quel „dub“ presente nel nome. Si sa che Londra è un meltin‘ pot di culture e comunità, e tra queste quella caraibica è sicuramente di spicco rispetto molte altre: South London è certamente zona focale per quest’ultima, dove troviamo il quartiere di Brixton, una little Jamaica non troppo distante da Croydon. La quota di producer discendenti di famiglie caraibiche e di conseguenza legati e influenzati dalla cultura dei soundsystem, dalla dub e successivamente dalla jungle, è ciò che porta la dubstep ad avere questa specifica componente di sperimentazione, questa ripetizione di bassi e percussioni simil trance spirituale e meditativa. Inoltre alla pari della dub, che nasce come genere sperimentale dove producer e fonici remixavano tracce raggae per poi stamparle sul lato b del vinile in formato 45 giri, le prime tracce dubstep erano sperimentazioni più oscure della UKG con derivazioni drum’n’bass e 2-step, anche queste stampate sul lato b degli stessi vinili, che potevano essere release ufficiali o white label.
Col tempo la dubstep è diventata il suono di Londra, evolvendosi e diramandosi in suond e stili diversi, da quella più emotiva e malinconica di Burial che con Untrue ha mosso il genere in una dimensione più mainstream, passando per le più disparate derivazioni, come la tear out e la purple dubstep, fino ad essere inghiottita e sputata dalla macchina turbo capitalista americana generando la forma più riconosciuta ma più odiata da chi ha iniziato il movimento: la brostep, termine derogatorio per definire tutto un filone di produzioni massimaliste con capostipite Skrillex, colpevole di aver predato e rovinato l’intenzione originale del genere.
Ma prima di attraversare l’oceano e diventare un genere per villains, la scena dubstep inglese era una nicchia di eroi che hanno iniziato un movimento senza neanche volerlo, o saperlo, perché occupati a farsi trascinare dal loro flow state, dall’essere in the zone totalmente focalizzati sulla loro musica. È grazie a questo genuino disinteresse su quello che succedeva al di fuori dei loro spazi e all’inesistente bisogno di cercare attenzioni dal pubblico che questa scena è riuscita a portare il resto dell’Inghilterra e del mondo a guardare cosa succedeva dentro, proprio come una vera nicchia sa fare. Come accenna Artwork, inizialmente alle serate dubstep trovavi 50 persone di cui 35 erano producer, presenti solo per sapere se una loro produzione sarebbe uscita dall’impianto del locale; che i loro dischi venissero suonati altrove non interessava a nessuno di questi, era una nicchia formata da una scena locale per quella stessa scena.
Nonostante la premessa iniziale, la verità è che non poteva succedere ovunque, non nel nulla di una qualsiasi altra zona periferica o di provincia. Questa sperimentazione naive che ha generato un vero e proprio movimento culturale il quale negli anni a venire avrebbe cambiato prima il suono di Londra e poi del mondo, poteva succedere solamente nel quartiere di Croydon, postcode CR0, che con un pizzico di casualità e fatalità è anche uno dei primi codici postali sperimentali, che di norma trovano il numero 1 come prima cifra numerica, mai lo 0. Infatti, la dubstep è nata proprio a CR0.