Cominciamo con un aneddoto, che è il modo migliore per raccontare storie. Quest’estate sono stato in vacanza a Gubbio, splendida cittadina medievale e storico set di Don Matteo. Dopo aver guadagnato la mia patente di matto alla fontana del Bergello, compiendo quei tre giri canonici di rito attorno alla fontana, in presenza di un locals, mi sono fatto incuriosire dalla festa dei ceri – festa eugubina che si svolge il 16 maggio, sant’Ubaldo. Si tratta di una competizione di corsa che vede, appunto, i certi protagonisti: questi altro non sono che grandissime statue di santi in legno che vengono sollevate da giovani nerboruti e trasportate di corsa per tutta la città su carretti di legno senza ruote. E il volo pindarico nella mia testa, appena ho visto una serie di foto della manifestazione, è andato verso i carretti di Paolo Sarpi. Avete presente i carretti di legno che spesso vengono portati dagli esercenti cinesi delle macellerie o della ristorazione lungo la via principale di Chinatown? Nella mia mente quelli erano l’infrastruttura di legno più pesante dopo i ceri eugubini.
In Sarpi questi carretti sfrecciano e, assieme a questi, accompagnati dalle maree costanti dei mercati, viaggiano di continuo furgoni, furgoncini, camion e camioncini colmi di vivande e bevande, in un continuo riciclo delle materie che si ha fretta di far finire e consumare. È una questione di comodità ma anche di tradizione asiatica: i risciò infatti prendono il loro nome dalla parola inglese “rickshaw” che però deriva a sua volta da un adattamento giapponese delle hiragana che occidentalmente leggiamo come “jinrikisha”, un carattere che nel suo complesso è formato dai caratteri uomo, forza e veicolo, quindi interpretabile come “veicolo a trazione umana”. Inoltre, furono proprio gli asiatici cinesi a impiegarli come veicolo di trasporto della merce (in particolare quella alimentare) e in secondo luogo diventarono uno dei mezzi turistici per eccellenza (altro motivo per cui forse il mio cervello ha determinato questo collegamento inconscio, che in realtà mi restituisce a onore il titolo di matto). Parlando poi con chi via Paolo Sarpi – e in generale Chinatown a Milano – la vive, ci si rende conto di quanto questa zona sia stata e sia tutt’ora dinamica, proprio come i carretti, e abbia gravitato sempre – volente o nolente – nell’ambito degli alimentari e del commercio all’ingrosso.
Vivacità caotica e schizofrenica, carico-scarico, profumi e rumori: tutto tipico dei mercati.
La più grande rivoluzione del quartiere avvenne intorno agli anni Venti del secolo scorso, quando da zona denominata Borgo degli Ortolani si è passati a descriverla, al di là del titolo di cui è insignita ora, come tra le prime zone multietniche di Milano. Il nome di Borgo degli Ortolani è interessante e condivide parte della radice con il quartiere Ortica: l’etimologia si rifà appunto alla logica della zona, dato che entrambi i quartieri all’inizio del Novecento erano ancora luoghi dedicati alla coltivazione (in particolare pare che in zona Sarpi si facesse grande produzione di cipolle).
Da qui a immaginarsi tutta la via come un enorme mercato a cielo aperto, il passo è breve. C’è un’urgenza nel ricambio della merce, una sensazione di vivacità caotica che potrebbe far venire la schizofrenia a chi satura facilmente nel disordine, una confusione insomma che è tipica dei contesti della domanda e dell’offerta che non hanno mai smesso di costituire un pezzo del puzzle sociale dell’essere umano, arrivando, ogni tanto, a parossismi evidenti. Tipo pensare che Sarpi, come ci ha detto Ugo La Pietra, sia l’unica isola pedonale al mondo in cui sia concesso il mercato all’ingrosso, e perciò il costante carico e scarico merci.
I Maneki Neko: portafortuna sfacciati, scacciaguai che alzano e abbassano istericamente il pugnetto suggerendo la lotta al consumismo. Dalle casse.
Insomma, in questi contesti di compravendita asiatici, a saltare all’occhio sono spesso i Maneki Neko, che vengono piazzati puntualmente nelle casse e agli ingressi (in Sarpi se ne vedono parecchi, ma anche nei market in giro per la città), proprio perché il suddetto gattino è un portafortuna sfacciato, uno scacciaguai efficace che alza e abbassa istericamente il pugnetto, ricordando quanto la lotta al consumismo parta dal lavoro stesso, o quanto il sogno comunista cinese abbia avuto i suoi alti e i suoi bassi. In egual il Buddha, protezione e conforto dalle vetrine dei negozi di vestiti. Scostandoci dai simboli, lo sguardo e il desiderio cascano poi puntualmente sui prodotti più comuni – aka: tipici – come l’imprescindibile tè, in tutte le forme, a onorare il primato nella produzione, nella suggestione e nel consumo di questa antichissima bevanda; in secundis la seta, che porta una storia millenaria e che in Sarpi è l’antonomasia del fatto che i cinesi hanno come seconda maggior attività quella tessile.
Seconda perché la prima è veramente iconica, così iconica che qualsiasi metodo di ricerca (che sia tramite internet o attraverso l’antica biblioteca dai tomi impolverati) racconterà come più importante: la cuisine cinese. Sì, perché più che comprare le materie prime in Via Paolo Sarpi (e difatti nei market multietnici del quartiere ipotizzo si faccia tendenzialmente più rifornimento di snack e bevande), se magna. E se magna bene, a dispetto di quei luoghi comuni da boomer – intrisi di razzismo, ma si sa: ai vecchi il nuovo non piace mai – che la carne succosa sia quella di Briciola, tenero morbido e goloso cagnolino da salotto. O ancora, all’estremo, pipistrelli e pangolini. Io, la cosa più strana che ho mangiato in Sarpi è stata una medusa. Tanta roba. Ma ragionandoci bene, ci si rende conto che la critica è il risultato di un aspetto della cucina cinese: la sua versatilità e la sua vastità.
Vi basti sapere che in Cina s’è tentato di ordinare l’arte culinaria. È possibile distinguere otto cucine regionali, risultate dagli intrecci di influenze delle culture culinarie dell’Asia stessa del Nord America, dell’Australia e dell’Europa. Insomma, tolta l’Africa e le due calotte ai poli – queste ultime calotte, mi perdonerà il lettore, mi arrogo il diritto di escludere dalla tematica culinaria – la Cina ha ricevuto molto da tutti i continenti. Ed è un primo passo capire come questa, data la sua grandezza, possa edificare discorsi che vanno oltre il prodotto stesso, finendo per omaggiarci di significati di tradizione, filosofia, medicina e religione. Mi pare ci sia un significato profondo in questa materialità alimentare che si spalanca diafana alla sua anima spirituale. Forse Gubbio, nella festa religiosa dei ceri, mi ricorda i carrettini che portano il cibo per via paolo Sarpi; e forse il cibo, non mi vogliano accusare di blasfemia, pare una reliquia della religione abbracciata dal mondo.