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Alberto Salvadori a ICA Milano

L'associazione no profit e gli altri progetti milanesi

quartiere SouPra

Geschrieben von Rossella Farinotti il 24 August 2020
Aggiornato il 7 Oktober 2020

Alberto Salvadori

Dopo anni mirabili al Museo Marino Marini di Firenze, Alberto Salvadori è stato trascinato a Milano da una miriadi di progetti: la vicedirezione di miArt, le mostre con De Carlo e Giò Marconi, e soprattutto ICA, in uno dei più fascinosi edifici industriali poche decine di metri a sud di Prada.

Caro Alberto, quattro anni dopo torno a chiederti di raccontare del tuo lavoro e delle collaborazioni più recenti. Questa volta però cambiamo luogo, spostandoci nella mia città, Milano, non più Firenze. Milano che, di fatto, è diventata, forse, la tua prima dimora, almeno in ambito lavorativo. Quattro anni fa sei stato costretto a lasciare il Museo Marino Marini, di cui eri direttore artistico dal 2009, e dove sei riuscito a sviluppare mostre importanti di artisti giovani di radice toscana, o anche internazionali -da Betty Woodman a Pablo Bronstein a Tony Lewis. Poi hai lasciato il tuo ruolo per sviluppare progetti di qualità in altri luoghi. E dunque Milano. Qui eri già in pieno ritmo lavorativo con il team di Miart. Da quando sei entrato a lavorare per la fiera?

Milano dalla primavera del 2016 è divenuta piano piano la mia dimora professionale e devo dire con grande soddisfazione. Ho iniziato appunto con miart e nello stesso periodo ebbi il piacere di curare il catalogo e la mostra in Triennale della collezione Iannacone. Progressivamente la città mi ha accolto con sempre maggior complicità e a gennaio 2019 abbiamo aperto ICA Milano, una fondazione not for profit, e recentemente ho lavorato ad un progetto su Schifano con Giò Marconi, una mostra per il Vspace della Galleria Massimo De Carlo e altre cose arriveranno nel futuro prossimo.

Milano si è espansa, toccando anche luoghi che prima erano un po’ abbandonati, perché considerati lontani, scomodi. Grazie a Fondazione Prada la zona sud sta via via prendendo piede con diverse realtà. Tra cui ICA Milano. A distanza di quasi due anni dalla sua nascita, ci racconti perché è nato ICA, questa Fondazione per le arti e la cultura, che di fatto mancava in città?

ICA nasce in primis dalla passione comune che io, quattro amici collezionisti e imprenditori di successo, una persona davvero preziosa come Paola Manfredi e professionisti come Luciano Giorgi, Franco Broccardi e Dallas hanno per la l’arte e la cultura. Il progetto che abbiamo in testa è quello di una fondazione not for profit sul modello anglosassone, ICA di Londra con la sua storia presente e passata è un riferimento. Altro elemento importante è stato il sentire comune che arrivati ad un certo punto della nostra vita professionale si potesse fare qualcosa per gli altri, mettersi a disposizione di una comunità e della collettività. Milano è ricchissima di luoghi e contesti eccellenti, attivissimi e in grado di offrire un calendario quotidiano di ottimo livello. Può apparire bizzarro ma è proprio grazie a questa ricchezza che c’è sempre la possibilità di creare e sentirsi parte di qualcosa. Siamo estremamente soddisfatti di aver creato ICA a Milano di esserci e di rimanerci per dare il nostro piccolo contributo.

La relazione con il luogo che avete scelto per ICA ha seguito lo sviluppo urbanistico della città, delle sue mode e movimenti, o è stata una scelta estetica, visto lo spazio affascinante?

Abbiamo scelto questo luogo perché è stato ed è un luogo di lavoro. Tutta la zona dove siamo noi è caratterizzata, almeno per ora, da architetture pensate e realizzate per contesti di lavoro, alcune per esigenze primarie della comunità come il grande forno del pane adesso sede di una azienda per la preparazione dei pasti per il servizio scolastico e non solo. Il fascino dell’edificio, oltre ai suoi stilemi che rimandano a momenti precisi della storia dell’architettura del primo ‘900, è dato soprattutto da questa sua storia di lavoro: quasi 90 anni di ininterrotta presenza quotidiana di persone che arrivavano lì per fare qualcosa. Ci piaceva inoltre il fatto che non fosse fronte strada, non fosse un edificio isolato, che continuassimo ad avere una relazione quotidiana con altre realtà che operano in settori e ambiti completamente differenti. In relazione a questo anche il fatto che gli artisti, che lavorano, che producono, possano sentirsi liberi di esprimersi e prendere decisioni anche radicali rispetto allo spazio senza il timore di entrare in conflitto con il pensiero dell’architetto che lo ha realizzato, senza il dovere di ripristinare sempre la situazione ambientale precedente. Questo pensiero si inserisce anche in un altro ambito di pensiero di ICA, ossia la sostenibilità. Generalmente ogni mostra, ogni progetto, produce una enorme quantità di materiale a perdere, in particolare per l’allestimento; lavorando direttamente sull’edificio molti di questi oneri si abbassano o si annullano. Ho lavorato così per molti anni al Marino Marini, sempre e comunque con la complicità degli artisti, concentrandomi molto sul recupero piuttosto che sullo smaltimento.

Anche dopo questo periodo che abbiamo alle spalle, quello del lockdown, ICA ha ripreso con vigore. Penso al laboratorio in atto in questi giorni con Luca Trevisani e Emanuele Coccia – The Classroom#7 -, o al progetto co-curato con Luigi Fassi in collaborazione con la Galleria Massimo De Carlo. Pensi sia un segnale importante non essersi fermati, neppure in questo periodo strano?

Il periodo che stiamo vivendo è differente da tutto quello che almeno le persone fino alla mia generazione hanno vissuto. Un grande senso di impotenza e di dolore per il disastro sociale che si annuncia, in parte già visibile, si avverte quotidianamente. Cercare di continuare a lavorare e mantenere degli standard professionali adeguati era il minimo che si potesse fare. Come tutti i periodi importanti anche questo sta producendo cambiamenti significativi e proprio per tale motivo abbiamo l’obbligo di ragionare su come andare avanti e adattarsi alla nuova situazione. Mi auguro che il Covid19 non sia alla fine un’occasione persa per non prendere decisioni importanti per il futuro che ci aspetta.

Cosa accadrà a ICA da settembre? E, a tuo parere, alla zona di Milano sud, dove si sta creando una piccola comunità creativa?

Non riesco a immaginare cosa possa succedere a settembre, anche se è tra due mesi…se l’emergenza continua non credo che molto cambierà rispetto alla situazione attuale; se invece come tutti ci auguriamo le cose si metteranno meglio, credo che tutti non vediamo l’ora di ripartire.

Che posti frequenti nei dintorni?

In zona ci sono alcuni posti che sono diventati i miei posti di riferimento. Il bar Luce dei nostri vicini ideali e grandi amici della fondazione Prada, caffè e budino di riso eccellenti e molte altre cose davvero di qualità. Mi piace molto l’ambiente informale del Madama e della trattoria Calabiana. Un luogo magico e imperdibile è la cartoleria Bonvini. Spostandoci un po’ mi piace molto andare da Masuelli, trattoria meravigliosa, e fin dalla loro prima settimana di apertura, però più verso i Navigli, sono un fan e cliente abituale dei ragazzi del Nebbia.