Diviso tra Milano e Londra, e con alle spalle importanti curatele alla Gamec di Bergamo e al MADRE di Napoli, Alessandro Rabottini ha preso in mano la direzione di un miart in piena espansione, dopo la direzione di De Bellis, e sempre più amata da un pubblico non di soli specialisti. Ci racconta della sua famosa mostra a Villa Necchi, per Gemine Muse 2010, e delle scelte che ha compiuto per la manifestazione del 2017.
ZERO. Vivi di più a Milano o a Londra?
Alessandro Rabottini. Diciamo che passo a Milano tanto tempo, soprattutto per momenti intensi di lavoro. Però poi torno sempre a Londra.
In una tua intervista hai infatti dichiarato che per miart si lavora ogni giorno, non solo nel periodo in cui si sviluppa la fiera.
Penso che sia come per tutte le cose che sembrano istantanee, come, ad esempio, una sfilata di moda che dura 15 minuti, ma rappresenta mesi di lavoro. La fiera è una macchina complessa fatta di tante cose, per cui effettivamente sì, si lavora tutto l’anno su questo progetto. Con diversi momenti e con diverse intensità.
E invece a Londra qual è la tua attività principale? Quando vivevi a Milano eri curatore alla GAMeC di Bergamo, giusto?
Si, quando vivevo a Milano lavoravo fisso a Bergamo. Poi, nel 2011, sono stato chiamato come curatore esterno al MADRE di Napoli. Però vivevo già a Londra in quel periodo.
Per quale motivo ti sei trasferito a Londra? Per lavoro?
No, per motivi personali. Per questo quando dico “casa” intendo Londra. Poi, appunto, sono stato curatore al MADRE per 3 anni e ho cominciato a lavorare su miart con Vincenzo De Bellis già dal 2013, da quando ne ha preso la direzione. Mi aveva chiesto, oltre che occuparmi dei talk, di coordinare le sezioni curate.
Quindi svolgevi, viste le diverse attività, quasi già un lavoro da co-curatore/co-direttore della fiera?
No, perché non entravo in questioni troppo strutturali: avevo un ruolo di consulenza e coordinamento dal punto di vista curatoriale. Tecnicamente affiancavo Vincenzo in molti casi, ma non come vice direttore. Dall’anno scorso, con questo nuovo ruolo di vice direttore, sono entrato in questioni più relazionali con gli espositori.
Parli di quelle dinamiche interne di una fiera che conoscono solo gli addetti ai lavori. I talk me li ricordo – rappresentano focus importanti per miart -, e cosa intendi con “aspetto curatoriale” in una fiera?
Intendo affiancare il direttore nelle relazioni con i curatori che si occupavano dei vari settori come THENow, o la sezione di design, per esempio.
Ti sei sempre dunque occupato di contenuti?
Praticamente sì.
Con De Bellis avevi già collaborato prima?
Con Vincenzo ci conosciamo da tantissimi anni per diversi motivi lavorativi. Lui aveva collaborato con la GAMeC quando ero lì anch’io; ho sempre seguito moltissimo il lavoro di Peep Hole. Ci conoscevamo entrambi da quando eravamo proprio agli inizi. È stata un’azione organica.
Quindi è stato naturale chiamare te ad affiancarlo. E Milano la conoscevi bene, perché sei, di fatto, milanese d’adozione, o mi sbaglio?
Mi sono trasferito a Milano nel 2001. Quindi sono stato fisso in questa città quasi 11 anni. Anche quando lavoravo a Bergamo, facevo il pendolare.
Hai studiato qui o a Chieti?
Ho studiato a Chieti. Però devo dire che sento Milano come la mia città di formazione: è il luogo che mi ha dato delle opportunità e che mi ha accolto nella sua comunità artistica da subito. Quando sono arrivato qui a 24 anni sono subito entrato in contatto con la generazione di artisti che era poi quella della mia età. Da Lara Favaretto a Diego Perrone, Giuseppe Gabellone, Roberto Cuoghi, Pietro Roccasalva… tutti artisti che, ai tempi, avevano finito l’Accademia di Brera e che mi hanno profondamente influenzato.
Artisti infatti con cui tu in qualche modo hai collaborato.
Sì, in molte occasioni e con ciascuno di loro. E, probabilmente, il loro lavoro è stato parte del mio progressivo innamoramento nei confronti di Milano
Con quali istituzioni hai collaborato a Milano?
Ho collaborato, come curatore ospite, in luoghi come il PAC, la Triennale e Villa Necchi.
È una città speciale. Sotto tanti punti di vista.
Si, sono visivamente innamorato di questa città. Mi piacciono le strade, mi piace starci. Mi sento comodo qui.
Dove vivi qui? Hai ancora la casa?
Ho trovato una soluzione stabile che però attivo quando mi serve. E sono qui in Porta Venezia, è sempre stata la mia zona. Questo triangolo mi piace molto perché hai la sensazione del “paese”.
E a Villa Necchi che progetto avevi sviluppato?
Nel 2010 c’era una manifestazione, dal titolo Gemine Muse, che prevedeva una serie di mostre in diverse città italiane dove venivano attivati dei luoghi storici con il lavoro di artisti emergenti. Avevo sviluppato un progetto invitando Patrizio Di Massimo, Santo Tolone, Riccardo Beretta e Meris Angioletti a confrontarsi con le implicazioni estetiche, architettoniche e storiche di Villa Necchi. Tolone aveva realizzato delle sculture in ottone che riprendevano i disegni di fontane mai realizzate da Piero Portaluppi; Di Massimo aveva ideato una performance sotto forma di visita guidata e Meris Angioletti un lavoro sonoro che prendeva la villa come set ideale di un film inesistente.
Ti chiedo di questo progetto perché non sapevo che Villa Necchi avesse ospitato artisti contemporanei.
Villa Necchi e FAI sono stati molto aperti e collaborativi ed è stato bello lavorare insieme sulla storia di quel luogo, sulle vicende di quegli anni sia in ambito artistico, che politico.
Veniamo a miart e al tuo nuovo ruolo di direttore artistico di questa fiera che è così legata alla città. Si può ormai dire che la fiera sia diventata un’istituzione vera e propria e che c’è una grande collaborazione all’interno del tessuto urbano che le sta intorno. Il fatto che tu conosca questa città così bene è positivo per coordinare privati, musei, fondazioni… realtà non semplici da connettere tra loro. Poi ho visto giornate dense e serate pazze, come quella del 29 marzo, dove inaugurano la maggior parte delle gallerie milanesi.
Non penso che Milano sia una città difficile. Se confrontiamo l’offerta culturale di Milano in base alla sua estensione ci sono dei grandi vantaggi: tanta offerta concentrata in uno spazio fisico ristretto. Quello che costituisce il calendario della Milano Art Week, ovvero ciò che succede in città durante miart, è il frutto da una parte di un tavolo di lavoro che è riunito dal Comune di Milano grazie all’azione dell’Assessorato alla Cultura, attorno al quale si riuniscono le istituzioni pubbliche e private della città per sviluppare una serie di iniziative rivolte al pubblico come inaugurazioni, aperture speciali, eventi e visite guidate. Grazie ai risultati degli scorsi anni ora c’è un clima di grande collaborazione tra tutti i soggetti attivi nel campo dell’arte moderna e contemporanea. Abbiamo visto la manifestazione crescere, il pubblico arrivare, gli stranieri interessati sempre di più… dunque è naturale questo lavoro di squadra. Il fatto che facciamo partire gli eventi di “fuori Miart” già da lunedì 26 è un segnale di stato di salute. Ci sono dei progetti che si attivano proprio in quei giorni lì, perché magari durante l’anno non sono deputati all’apertura al pubblico, penso ad Adrian Paci a Sant’Eustorgio, per esempio.
Parlavo di complessità in questo senso: per le tante cose che accadono in uno spazio, come dici tu, ristretto.
Quello che noi, come fiera, possiamo fare è creare un contesto e accendere i riflettori su Milano: non potremmo farlo se loro non sviluppassero questa progettualità nell’arco di tutto l’anno. La settimana dell’arte è dunque un’ulteriore emanazione della qualità e del lavoro che viene fatto a Milano da tantissimi soggetti. Hangar Bicocca, Fondazione Prada, Palazzo Reale, PAC, FM, Fondazione Carriero, GAM, Museo del Novecento – per citarne alcuni – lavorano tutto l’anno e poi c’è questo momento in cui si crea un contesto d’attenzione. La fiera da sola non può farlo.
È diventato più un lavoro di squadra quello delle realtà milanesi che si occupano di contemporaneo. Anche quelle giovani, penso alle attività anche prima di miart, penso a Studi Festival in questi giorni, per esempio.
Perché Milano adesso è diventata un incubatore di una nuova fiducia italiana e comincio a sentire l’inizio di un percorso di ritorno di giovani su Milano. Artisti e curatori giovani che, fino a qualche anno fa, sentivano quasi l’obbligo di dover andare via. Se guardo, ad esempio, tutta la scena degli spazi no-profit, le nuove gallerie, o parlo con curatori più giovani che stanno pensando di sviluppare un progetto qui, o, ancora, la manifestazione degli studi degli artisti… questo avviene se c’è poi un feedback. È un segnale di ottimismo e fiducia, anche verso un’ottica internazionale.
Come riesci a unire il binomio mercato/aspetto più organizzativo al tuo approccio curatoriale? Sembra che miart, negli ultimi 4 anni, si sia molto concentrata sulla qualità delle gallerie e delle opere, e magari meno sul fattore mercato? È come se la fase di sintesi e pulizia avesse prevalso.
In realtà non credo che De Bellis abbia mai separato i due momenti: sarebbe anche piuttosto artificioso pensare che il mercato sia una cosa, e la qualità un’altra. Le due cose si incontrano, il lavoro nella fiera incomincia dall’attività delle gallerie. Sarebbe impensabile mettere da parte del direttore una sorta di “cappello” al loro lavoro. I massimi artisti hanno una fortuna istituzionale e di mercato.
Italiani o internazionali?
Entrambi. Ti faccio un esempio generale: un Gerhard Richter, come Giuseppe Penone o Alberto Burri, sono artisti contesi sia dalle aste, che dalle istituzioni. La separazione tra la dimensione del mercato e quella della critica è un po’ manichea e le istituzioni non sono uno spazio ideale/platonico, ma si relaziona con il mercato.
Una delle peculiarità di miart, sempre legata a questa dicotomia di cui parlavi, è che, insieme alla sezione principale diciamo “classica”, ce ne sono altre quattro: “Decades”, curata da Alberto Salvadori, più storica, “Emergent”, legata appunto alle gallerie più giovani, “Generations” e “Objects”. Il pubblico come accoglie queste varietà?
La forza di miart è proprio questa ampiezza cronologica. Ogni sezione attiva un pubblico differente: un collezionista che, per passione o per portafoglio, compra artisti degli inizi degli anni Novanta, è più interessato alla sezione degli emergenti; quello più “blasonato”, che ha una preparazione e delle possibilità diverse, invece andrà dai “classici”. Ma quando queste persone si incontrano nello stesso spazio può avvenire uno scambio e si possono aprire diverse prospettive, ampliando anche il pubblico della galleria. Faccio sempre l’esempio di “Generations”, la sezione in cui un artista storico è posto in dialogo con un giovane. Quest’anno una delle accoppiate è tra delle opere di Giorgio De Chirico, portate da Galleria Tega, e dei lavori di John Stezaker, rappresentato da The Approach. Abbiamo dunque una delle gallerie italiane più storiche, con un maestro della modernità come De Chirico, in dialogo con una galleria dell’East End di Londra, che ha la sede sopra un pub e un programma sperimentale. Stezaker non è un emergente: ha avuto anche una personale alla Whitechapel di Londra, ma voglio sottolineare il fatto che il collezionista legato a gusti più “classici” viene a contatto con una realtà diversa dalla quale è abituato.
È un bello scambio. E anche una sfida.
Sì, abbiamo comunque creato un cocktail di elementi che stanno bene insieme.
Un’altra bella novità è la presenza di Oda Albera, una figura importante di trait d’union con gli espositori.
Sì, Oda si occupa della relazione con gli espositori e dei progetti speciali, alcuni sviluppati in una sezione che si chiama “On Demand”. Sentivo l’esigenza di inserire in fiera una figura come la sua, che ci mancava: Oda ha infatti lavorato per diversi anni in una galleria e quindi comprende bene i bisogni e le logiche degli espositori. Dovevamo avere un interlocutore con le gallerie che parlasse il loro linguaggio.
Qual è la cosa di cui sei più fiero del miart di quest’anno?
Ce ne sono molte ma potrei iniziare dall’aumento del numero dei premi, che sono raddoppiati. Abbiamo dei partner con cui collaboriamo e ogni premio ha una giuria internazionale composta da direttori di musei e curatori. Ciò significa maggior visibilità internazionale per le gallerie e per gli artisti. Molti di questi premi, come il Premio Herno o il Premio Fidenza Village per “Generations”, sono dei riconoscimenti alla galleria. Altri agli artisti e alle opere, come il Premio On Demand, che abbiamo sviluppato con la casa di produzione svizzera Snaporazverein e che prevede 10.000 euro all’artista in forma di co-produzione per il futuro. Può trattarsi di una monografia o della una partecipazione a una biennale o una mostra collettiva. Questo significa che miart non termina il suo raggio d’azione una volta terminata. I limiti temporali e fisici della fiera sono superati da progetti futuri. È per me un grande risultato e rappresenta una metodologia che vorrei applicare di più in futuro. Lo stesso può dirsi per il Premio CEDIT per Object, che prevede l’acquisizione e la donazione di un’opera di un designer emergente italiano alla collezione del Triennale Design Museum, attraverso il sostegno di CEDIT Ceramiche d’Italia. Prima parlavi di miart come di un’istituzione, credo possa sviluppare modelli di collaborazione in questo senso.
Quindi c’è un importante ragionamento a lungo termine.
Anche nel programma dei talks, che quest’anno sviluppiamo per la seconda volta con In Between Art Film di Beatrice Bulgari, abbiamo consolidato l’idea che ci dovesse essere un tema: quest’anno è sul presente e futuro delle biennali nel mondo e delle rassegne periodiche. Abbiamo invitato ancora personaggi internazionali, circa 40 tra direttori di musei, artisti e curatori che parleranno durante le 3 giornate della fiera, come in un simposio che diviene un’attività formativa per università, accademie e master che parteciperanno. Abbiamo interlocutori come Deyan Sudjic, direttore del Design Museum di Londra, Kasper König che tratterà della storia di Skulptur Project, oppure Ippolito Pestellini Laparelli, partner di OMA/AMO, lo studio di Rem Koolhaas, e mediatore culturale della prossima Manifesta a Palermo, e Kathryn Weir, Capo dello Sviluppo Culturale, Centre Pompidou di Parigi, solo per citarne alcuni. Anche il programma VIP per i collezionisti è importante, come la lista delle gallerie di quest’anno, per me motivo di grande orgoglio. Tante di loro non sono mai venute in Italia: Barbara Gladstone, Zeno X, Marianne Boesky, Alison Jacques, Stuart Shave/Modern Art e Jocelyn Wolff, oltre a tutte quelle che hanno confermato la propria partecipazione dalle passate edizioni.
Come avviene la selezione delle gallerie a miart?
Tutto il processo di selezione delle gallerie avviene attraverso applications e con un comitato scientifico, questa è la macchina principale, tranne che per la sezione “Generations”, che è su invito. Queste differenti piattaforme ci permettono di fare cosa inattese e necessarie, come portare Meliksetian Briggs, una galleria di Los Angeles che rappresenta l’Estate di Bas Jan Ader, artista e performer olandese diventato una figura mitica dopo la sua scomparsa e che quest’anno sarà alla Biennale di Venezia. Insomma, le gallerie partecipano per diversi stimoli e input. Parliamo di 174 espositori e ognuno ha un suo motivo di essere lì. E per ogni specificità c’è la persona giusta, penso alla sezione di design, in edizione limitata, con Domitilla Dardi, o ad Alberto Salvadori, che ha fatto un lavoro sul moderno sorprendente, andando a scovare opere speciali. Da solo non potrei mai coprire tutte questo e, grazie ai miei colleghi, non sai quanto scopro in continuazione.
In una tua intervista infatti dici una cosa molto bella: che in Italia siamo sempre sotto periodo di formazione, ma che tu, in particolare, ti senti così perché impari qualcosa ogni giorno.
Si, fare questo lavoro è un privilegio. Lavorando nel mondo dell’arte avviene per forza, cambia tutto velocemente. Però devo ammettere di non sentirmi poi così tanto “giovane curatore” … mi sembra che in Italia si usi la parola “giovane” in modo un po’ gratuito, anche quando non lo si è più, quasi a voler arginare il ricambio generazionale.
Ti ho messo abbastanza sotto torchio per quanto riguarda la fiera, ora la domanda “zero”. Dove vai quando esci qui a Milano?
Tendo spesso a restare un po’ nella mia zona, qui a porta Venezia ma solo perché, a dire il vero, non esco tanto a meno che non sia per lavoro.