Su zero esiste un’intervista lunghissima, risalente al 2015, in cui abbiamo chiesto ad Andrea Lissoni davvero di tutto: routine, sogni, lavoro, luoghi, passato, presente e previsioni. Da allora sono passati diversi anni e molte di quelle affermazioni sono virate, decadute, avverate: da curatore per Pirelli HangarBicocca si è spostato alla Tate Modern di Londra come Senior Curator International Art (Film) e poi, dal 2020, è direttore artistico della Haus der Kunst di Monaco di Baviera. Quindi proviamo a cambiare passo anche noi: torniamo da Andrea con nuove curiosità perché, dove lo ha portato in tutto questo tempo il suo lavoro un pochino lo sappiamo, e quindi proviamo ad addentrarci nella sua poetica e nelle sue riflessioni alla ricerca di una dimensione di visione più ampia che parte semplicemente da come lui vede se stesso. Di come il connubio di vita e lavoro si rivelano l’insieme di tutte le attitudini e le passioni coltivate da sempre.
«Non ci sono cazzi: questo lavoro da civil servant non si fa viaggiando. In un posto devi starci e con le orecchie estremamente aperte.»
Vorrei fare un percorso insieme: nel nostro ambiente sei molto stimato, il tuo lavoro negli anni ha confermato uno sguardo acuto verso gli artisti e il suo complementare, il pubblico, creando situazioni ed esperienze per entrambi i lati. Mi piacerebbe sapere in che modo ti vedi tu, come professionista che lega anche una componente empatica nel suo fare. Ad oggi, con anni di esperienze alle spalle, come ti racconti a te stesso?
Sono una persona estremamente appassionata e allo stesso tempo fortunata. Ho sempre cercato di avere a che fare con le passioni che avevo e in un certo senso non ho mai fatto quello che io adoro o quello che mi piace, non l’ho nemmeno mai mostrato. Infatti, quando ho iniziato a fare questo mestiere – che prevede il contribuire a mostrare e supportare, a rendere in qualche modo pubblico un contenuto – ho sempre cercato di fare quello che ritenevo fosse la cosa più pertinente rispetto al posto in cui mi trovavo, la cosa più pertinente rispetto alle domande che il posto aveva e non rispetto a me. In questo ho avuto la fortuna di essere sempre chiamato a partecipare a dei momenti di trasformazione, per qualche motivo sono sempre arrivato in un momento in cui la cosa si stava trasformando. In un’era primitiva era LINK che diventa XING e che genera Netmage come festival, che non ho fatto io ma ho accompagnato il lavoro di Daniele Gasparinetti e Silvia Fanti e ho contribuito a generare i contributi di quel festival.
Poi c’è stato spazio LIMA che agiva come un sensore, non aveva precedenti a Milano, non c’erano spazi indipendenti a quell’epoca, giusto qualche spazio d’artista ma era un unicum. È stato bellissimo perché è diventato un modo per dialogare con la città in modo per noi pertinente, partendo dall’arte e toccando delle corde di design e di moda che raccontavano scorci di una scena creativa che non era fatta solo da artisti. Pirelli HangarBicocca era un progetto non ordinario, metteva in atto una tradizione totalmente diversa rispetto a quello che c’era sul territorio: faceva una mostra all’anno, aveva accolto le Torri di Kiefer, insomma era l’inizio di una nuova impresa e ci chiedevamo come far arrivare il pubblico in quella zona e fare un programma, sempre con un’ottica di collaborazione e mai in solitaria. Poi è arrivata la Tate e anche lì ho avuto la fortuna o c’è stata la volontà – questo non l’ho mai capito – di essere chiamato nel momento in cui veniva costruito il nuovo edificio, quello di Herzog & de Meuron, e per anni abbiamo lavorato su quale sarebbe stata l’identità del luogo, su come sarebbe cambiata la circolazione, l’urbanistica in un certo senso. E così anche a Monaco: la situazione era gravissima, con problemi di ogni natura veramente grandi e rischio serio di chiusura che poi ha sbattuto contro il Covid. C’era bisogno di una trasformazione drammatica e un team di esperti ha ritenuto che io fossi la persona più idonea per fare questo passo.
Tutto questo per dire che io mi vedo come la persona che ha avuto la fortuna di aver trasformato quella che era una passione – basata su leggere, studiare, ascoltare, fruire molto, ballare, andare nei contesti più disparati – in una professione. Ciascuna di queste cose non le ho mai fatte in modo passivo ma ho sempre assemblato le parti, come quando sottolinei sui libri e fai la tua narrazione: ho sempre avuto questa curiosità per i bordi intorno all’arte visiva e ho cercato di rimetterli insieme rimpastandoli in sequenze lunghe, per una narrazione diversa.
Ho sempre scorto nel tuo lavoro una capacità di rendere le visioni oggettive. Una tensione in cui capti un bisogno e lo distendi, lo allunghi sullo spazio e nel tempo a tua disposizione. È come se scorgessi una lucidità estrema verso la dimensione più sensibile delle persone, e quindi dell’arte, e riuscissi a innescare dei processi di traduzione che li rendono esperibili. Ti andrebbe di confrontarci su questa cosa?
Credo di essere molto emo – senza il senso dei capelli neri e tutto il resto –, soprattutto nel senso d’essere legato alle emozioni. Se vuoi portarla in un ambito musicale ho avuto la fortuna di diventare adulto in un momento in cui tutti i generi musicali riesplodevano: jungle, trip hop, drum and bass, ma anche indie rock, stava succedendo tutto insieme. Era il momento dello shoegaze più drammatico e io sono il tipo di persona che adorava i My Bloody Valentine, per quella componente che ti fa sentire il mondo attraverso le emozioni, le vibrazioni delle emozioni.
A questo si aggiunge il fatto che ascolto molto l’intuito e forse fino ad adesso è andata bene, ma mi sono sempre affidato alle intuizioni, come una specie di guida segreta. Allo stesso tempo ho fatto il percorso più accademico del mondo: laurea a Pavia, borsa di studio a Parigi, scuola di specializzazione a Genova, Master della Normale di Pisa a Cortona, dottorato a Udine, tutto hardcore accademico e quindi forse anche come risposta a questo percorso ho sempre avuto questo bisogno di fidarmi dell’intuizione. Ma c’è anche un lato meno punk di questa mia ribellione: ho un problema con gli stereotipi, con le convenzioni, con quello che viene dato per scontato, mi manda fuori di testa. Nell’arte in particolare ciò che mi da più noia è l’attitudine a muovere una critica attraverso la scrittura senza poi essere in grado di mettere in pratica un cambiamento a riguardo, senza riuscire a farla sciogliere nella realtà.
Da questa riflessione viene molto del mio lavoro con lo spazio e le mostre: non ho mai pensato che una persona debba muoversi come una formica lungo i muri e leggere cose che parlano di altre cose, ho sempre pensato che quelle cose parlino da sé e parlano sufficientemente a chiunque. Quindi evito di costruire muri bianchi e di attaccare elementi alle pareti. Ho sempre lavorato a quella che chiamerei percezione corporea più che sulla lettura, immaginando che, come certe specie di animali, il cervello umano non è un muscolo al centro della testa ma disseminato per tutto il corpo.
Questo modo di riflettere e agire abbraccia una consapevolezza di complessità, di energie che si intrecciano e che inevitabilmente si contaminano e si nutrono. So che di calcio e basket ne mastichi. Io no, assolutamente nulla se non quei momenti di condivisione più forti che puoi vivere nelle finali importanti che ti fanno sentire parte di qualcosa. Per te cosa sono?
Sono tante risposte perché io ho due grandi mondi dentro lo sport: uno è lo sport di squadra e, come dicevi giustamente tu, il basket – che è anche quello che ho praticato a livello professionistico e continuo a guardarlo con grande attenzione e passione. Sono cresciuto negli anni della last dance e mi sentivo Scottie Pippen; era il periodo in cui emergeva Kobe Bryant, che era legato a Milano: mi ricordo suo papà, Joe Bryant, che giocava e ricordo anche quel ragazzino che sarebbe poi tornato anni dopo in un playground di parco Sempione. Per me questa figura scomparsa così tragicamente era un pensatore. Se approfondisci la vita di Kobe Bryant capisci il suo modo di vedere il mondo: la sua idea di antagonismo è stata di grande ispirazione per una persona come me, che stava cercando di capire come fare una cosa che nessuno gli consigliava di fare. Era il 1992 e io studiavo lettere e storia dell’arte moderna, e intorno a me c’erano altre quaranta persone che non erano né del mio mondo né del mio orientamento sessuale: vivevano proprio un’altra situazione. In questo senso, Kobe è stato per me una sorta di Bruce Lee.
Dall’altra lo sport che più amo e pratico in modo ossessivo è lo sci: sono addicted allo sci perché è pura interpretazione. Per me è l’idea di come si sta di fronte alla discesa: è nebbiosa, c’è la luce, è ghiacciata, tu la guardi e la devi interpretare in tempo reale. Per me è la gioia più grande e la trasferisco anche quando componiamo delle cose, che sia uno spazio di lavoro o una mostra o una sequenza di concerti e live nello spazio, tutto è guidato dalla situazione in tempo reale. Provo sempre a pensare: come li interpreterebbe il mio corpo se entrassi in quell’ambiente? O come la scenderebbe? E questa cosa rimane, è un piacere assoluto, è stupido e imbarazzante e mi vergono ma a livello personale, al di là della musica, è stato veramente l’aver giocato così tanto a basket, l’avere questa passione per il calcio e lo sport di squadra, che mi ha fatto capire cosa vuol dire il lavoro di gruppo, il lasciare lo spazio agli altri. Lo sport mi insomma ha formato a livello umano e professionale.
Aggiungo un altro strato, che emerge da sempre e sempre più frequentemente: la musica ma soprattutto la sua declinazione all’interno delle arti. Una commistione. Cosa ti sta rivelando la tua ricerca e il tuo sentire in questa direzione?
La verità è che per noi quello che sta succedendo è il sogno che abbiamo avuto per tanti anni. Se uno avesse la curiosità di andare a vedere cosa si scriveva sui quadernetti del LINK scoprirebbe che eravamo veramente ossessionati con la cultura del cut and paste e del cut and mix, senza sapere veramente cosa sarebbe successo ma intuendo che quella cosa lì sarebbe stata fondamentale. Erano i primi anni della rete ed era troppo presto per vederlo, ma noi adoravamo già la cultura scratch e ci sembrava fondamentale Joan Jonas, perché continuava a impastare fonti differenti. Poi è arrivata per esempio una label come Ninja Tune, dove ci sono quegli autori che fanno del cut and mix con un’estetica fruibile, quasi a livello pop, e che a poco a poco cresceva, uscendo dalla nicchia. Per questo quello che vediamo adesso per noi è una vera gioia. Capisco che è un problema per molta gente, che la musica è cambiata e che non ci sono più un certo tipo di dischi, ma è un vero sogno che ha preso forma e che pone delle questioni che noi ci chiedevamo, domande anche politiche legate all’origine culturale e alla combinazione dei sound, al significato delle scene e al posizionamento che lì si assume. Ora queste domande si stanno specchiando nell’arte, si stanno avvicinando e trasformando in una questione culturale ed etica bellissima e necessaria, ed è davvero eccitante. Non ho un grande problema a dire non è più come prima, che questo è un momento di convivenza e conversazione. Ma queste bastardizzazioni sono un sogno: una rivoluzione artistica che diventa rivoluzione sociale.
Ti sei sempre spostato molto, in una sorta di flusso lento in cui restavi anche a lungo in certi luoghi ma poi oscillavi altrove. Sia con le istituzioni che con i diversi artisti e i loro progetti che hai seguito. Che cosa è il viaggio per te?
Rispetto al viaggiare: abbiamo un costo per l’ambiente e quindi, se vado da qualche parte, unisco più momenti – per esempio uno di intrattenimento, uno di conoscenza e uno di lavoro. Cerco sempre di restare in ascolto del luogo e di connettermi a chi ha un legame con esso. Il muoversi invece è molto legato al fatto che ho sempre dovuto lavorare per vivere, e che prima di poter fare solo questo avevo già più di 40 anni. Prima lavoravo in editoria, facevo il consulente, facevo mille cose per sopravvivere e tante volte gli spostamenti erano legati al lavoro.
Ma essere un curatore è come una forma di insegnamento continuo e non lo faccio per me. È un lavoro che esiste per fare in modo che dei contenuti artistici che ritengo fondamentali vengano trasmessi in tempo reale, che diventino dei classici e che ci sia un’interazione con essi nel presente – e questo prima di dover arrivare a ricreare ponti tra quello che è stato dimenticato per riportarlo alla luce. Quindi non ci sono cazzi: questo lavoro da civil servant non si fa viaggiando. In un posto devi starci e con le orecchie estremamente aperte. Non c’è un’altra via: io non posso lavorare a Monaco, per Monaco, e poi stare settimane in giro a vedere biennali e varie. Io sono qui e vado a vedere ogni cosa che succede qui e non perché rappresento l’istituzione ma perché queste persone fanno e sono le cose che succedono qui, sono quelli con cui costruiamo insieme ciò che voglio che abbia un impatto. Se riesci a capire il contesto e il modo in cui esso vibra, allora riuscirai anche a creare delle situazioni generative, che sanno rispondere ai loro bisogni. Alla fine sono una specie di parlamentare senza tessere: sono pagato dal pubblico per generare senso e questo è un peso ma una risorsa fondamentale, mi tiene concentrato e presente. Mi porta a esserci e a restituire l’opportunità e la fiducia che mi sono state date.
Quando hai capito che tutto questo per te era arte?
C’è stato un momento, verso la metà degli anni ’90, in cui il comune di Milano aveva indetto una sorta di progetto giovani e mi era stata data l’opportunità di fare un programma di film e video d’artista, che in quegli anni stavano esplodendo, al cinema De Amicis (che ora non c’è più) coinvolgendo personalità come Matthew Barney, Sharon Lockhart, Tracey Moffat. A questa occasione si lega un ricordo molto emo: al tempo si proiettava ancora in 16 o 35mm, tecniche fragili che potevano generare problemi in ogni momento. Io stavo sempre sul fondo della sala, vicino alla cabina di proiezione, e qualche istante prima che partisse il film provavo sempre un’emozione forte, in bilico con il fallimento possibile ad ogni istante. È una sensazione che mi ha sempre dato tanto e che ancora mi porto dietro: so che la settimana prossima la sentirò ancora perché stiamo per lanciare un evento con Public Possession con una line up, ci saranno dei workshop e io lo so che quella sensazione ci sarà, perché la vedo nel pubblico. È uno scambio tra me, che sono invisibile, e gli altri; è un momento che continua ad andare. È puro drifting. Sei in un flusso che ti trascina, sei leggermente in controllo ma con la possibilità che possa succedere qualunque cosa in qualunque momento: i piranha, un masso, è quella tensione prima che inizi tutto: quello è il momento. Poi si comincia. Questo è il codice emo di cui parlavo prima e che penso da cui tutto sia iniziato.