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Demented Burrocacao

'Con le ideologie ci puliamo il culo': storia, vocazione, aneddoti e follie varie del festival più scoppiato di Roma, raccontati dal suo ideatore Demented Burrocacao aka Stefano di Trapani.

Geschrieben von Chiara Colli il 31 Oktober 2018
Aggiornato il 5 November 2018

Wohnort

Roma

Quando parliamo di forme di resistenza culturale dal basso nella Capitale, ormai da più di un lustro l’occhio e l’orecchio devono rivolgersi perolopiù verso Roma Est. La „borgata“ resta un baluardo – talvolta caotico ma sempre in prima linea – verso l’appiattimento/impoverimento della proposta culturale romana, di quella più emersa ma non solo. Tra le varie realtà, i club e le aggregazioni più o meno estemporanee che negli anni hanno dato vita a festival, serate, compilation, fenomeni indie e gruppi di culto, non fa eccezione il mitico BABA.

Espressione del volto più imprevedibile, deforme, esilarante, surreale e folle di una scena ma anche di un certo modo di intendere l’arte e la cultura, il festival “delle arti eccentriche e culture esplose” si appresta a festeggiare il suo decimo compleanno il 4 novembre al Fanfulla. In dieci edizioni – più vari spin off e in declinazioni varie ed eventuali – il BABA è stato un po‘ il fil rouge che ha attraversato un decennio importante per la Roma „underground“, mantenendo una purezza e un coraggio sempre uguale fin dagli esordi, nel 2008. Un festival tra musica e performance indefinibile per definizione, di cui abbiamo provato a narrare le gesta con il suo visionario ideatore, Demented Burrocacao aka Stefano di Trapani, che si appresta a celebrare con la sua creatura l’imminente BABALEANNO.

Come è nata l'idea del BABA, da dove arrivava l'ispirazione per un festival così ibrido e per certi versi anche “poco accessibile” e visionario?

Inizialmente l’idea era quella di fare un festival che coinvolgesse la zona dove sono nato e cresciuto, ovvero Torrevecchia/Primavalle. A Torrevecchia c’era il manicomio di Santa Maria della Pietà, che è stato un posto terrificante. Però poi è arrivato Basaglia e la pazzia ha cominciato a essere trattata con un diverso approccio terapeutico: ora infatti l’ex manicomio ospita uffici con tutta una serie di servizi – ovviamente discutibili quanto ti pare, perché ancora di strada ce n’è da fare riguardo molte problematiche, ma fino al 1999 era ancora aperto ed era un luogo fantasmatico, allo sfascio, in cui ci si faceva “allegramente” le pere. Nel 1997 circa ho partecipato al collettivo nato per fare in modo che il Santa Maria non cadesse in mano dei soliti giochi di potere speculativi, e che si procedesse a una riqualificazione. Presto mi sono reso conto che c’era troppa politica in mezzo, una situazione in cui ognuno voleva la sua fetta di torta, e pochi fatti che si concentrassero sulla cultura dal basso.

Più avanti, nel 2006, sono stato al DRAMARAMA festival, in Belgio, dove suonarono gli Yellow Swans, i Fat Worm Of Error e tutta questa gente che in qualche modo era in linea con la mia idea iniziale, e ho capito che il mio sogno poteva essere realizzato. Nel 2008 ho preso coraggio e ho contattato l’ex Lavanderia Occupata, che era proprio all’interno del Santa Maria, e insieme a Grip Casino e Alessandra Von Eva ho messo su il progetto iniziale del BABA. Subito dopo è entrato a darci man forte Valerio Mattioli, che ha individuato nella cosa che stavamo facendo un parallelo con la „Outsider Art“ d’oltremanica e si è occupato del comunicato stampa e dei rapporti con essa. Certo, noi eravamo molto concentrati sul fatto che Santa Maria della Pietà sfornava anche degli artisti quotati in Italia, come Gianfranco Baieri, che vivevano la loro condizione in perfetto stile Art Brut vivendo proprio in una casa famiglia dell’ex manicomio. Per me è stata una liberazione, diciamo, perché io stesso ho vissuto anni di depressione schizoide e mia nonna, come anche i parenti di molti degli amici/artisti che hanno fatto parte dell’entourage del BABA, si faceva gli elettroshock lì. È stato un modo per dire: la follia è una cosa che va vissuta, non messa sotto il tappeto. E trasformata in espressione, artistica o meno non ha importanza. Se non siete pazzi, è arrivato il momento di esserlo, insomma, perché la libertà si conquista da lì.

Le ultime line up sono incentrate soprattutto sulla musica, seppur in espressioni molto varie, bizzarre, imprevedibili e poco scontate nella scelta dei nomi... Però il BABA inizialmente e nel corso degli anni ha avuto forme diverse, molto ibrido del mescolare musica e performance. Il festival è deforme per vocazione, possiamo dire che c'è stato sempre un po' l'intento di spiazzare, disorientare, non avere mai un'identità catalogabile?

Questo sì, ma viene abbastanza spontaneo. Diciamo che a un certo punto se l’hype va da una parte, noi andiamo dall’altra. Ma non è studiato, è una cosa naturale. Per quanto riguarda il fatto della musica e della performance, beh, si sono sempre mescolati insieme. Ovviamente ci sono degli act in cui le due cose si fondono, ma anche altri che si concentrano solo sulla performance o solo sulla musica, o solo sulle arti visive. C’è abbastanza libertà di azione e di non azione, perché la questione la fa l’individuo che sale sul palco. Magari sta folgorato, ma poi quando sta lì si concentra in maniera esplosiva. È quello il bello. C’è anche chi non ha fatto assolutamente nulla, per dire. Quest’anno ad esempio ne abbiamo uno che neanche si presenta.

Il BABA non poteva che trovare la propria casa a Roma Est: che rapporto ha questo festival con il territorio, sia in termini di espressione di un contesto che influenza una dimensione in senso più generale, sia in termini di spunti nella scelta della line up?

Sicuramente è nato in un periodo storico in cui un po’ tutti quelli che vivevano laggiù e che gravitavano nelle situazioni legate al Fanfulla, alla fanzine Epoc Ero Uroi, alla serata Spasticalia (il DalVerme aprirà poco dopo) erano bene o male allo sbando, per cui quello che facevamo era quello che dovevamo fare. Non c’era nient’altro dietro se non dire quello che era necessario per noi, per la nostra sopravvivenza: fare qualcosa che fosse diverso a livello di musica, arte e cose del genere rispetto alla pappa che veniva propinata. Ci eravamo rotti le palle di tutta una serie di costrizioni, di codificazioni e puttanate varie e cercavamo nuove strade. Era una condizione esistenziale, necessaria. Però come ti dicevo il BABA originariamente nasce per portare tutti (non solo Roma) a Nord Ovest, a Torrevecchia, in un posto in culo a dio che diventasse come un’isola nella quale riprendersi l’eredità di una pazzia espressiva non liberata. A Roma Est siamo passati più tardi, perché ci sono stati dei problemi con l’ex Lavanderia che ci ospitava, problemi che hanno dimostrato che la sensibilità culturale rimane sempre sotto a quella ideologica, magari quella ferma a duecento anni fa. Noi con le ideologie ci puliamo il culo. Per cui a una certa forse il luogo non aveva piu’ importanza, il luogo ce lo portiamo dentro. L’ex manicomio l’abbiamo scatenato in luoghi come il DalVerme, il 30Formiche, il Fanfulla, il Varco, il Detour, lo Studio 54, Mezzo e via discorrendo. Insomma, come farebbe davvero un pazzo che gira per la strada in preda ai suoi deliri e dove si ferma dà ai suoi svarioni domicilio.


Nel suo essere completamente folle e surreale, in un certo senso il BABA nasce e si evolve comunque come espressione di una parte della società o di alcuni lati spesso più nascosti di essa? Astraendoci dai guest specifici e senza voler calcare troppo sul concetto di “messaggio”, viene da pensare che questo incrocio tra nonsense e approccio cervellotico sia un modo per raccontare alcuni aspetti che fanno parte dell'inconscio e degli istinti collettivi dell'arte, del pubblico e, magari, anche della società.

Come dicevo, anche se a prima vista pare che ci divertiamo tanto, ci divertiamo tanto proprio perché non ci divertiamo. Sembra un paradosso, eppure l’unico modo per far fronte alla sofferenza è quello di folleggiare. E di esprimersi senza filtri, se possibile – anzi, se impossibile, visto che oggi come oggi si calpesta il diritto a essere pazzi, ma al potere ci sono i pazzi lucidi che scatenano genocidi. In questo senso il BABA è più attuale che mai perché noi possiamo essere più pazzi di questi pazzi e sconfiggerli non solo sul loro stesso campo, ma probabilmente anche con delle armi che loro si sognano, quelle dell’imprevedibilità. Questo è molto distante dalle ideologie rassicuranti dell’ arte “istituzionale”, a cui non frega un cazzo di questa problematica. Ci sono degli artisti che rinunciano alla loro follia per farsi mettere l’anello al naso dai management e tutte ’ste stronzate. Invece, a parte qualche mente illuminata, dovrebbe essere tutto il contrario.

Per quanto il BABA sia un appuntamento assolutamente underground, di ricerca, per certi versi lo trovo antesignano di alcune espressioni della cultura pop contemporanea, penso ad esempio alla presenza di Pop X qualche edizione fa (come Re Artù), un attimo prima di diventare un fenomeno "indie". Alcune espressioni della cultura/musica pop italiana attuale fanno leva proprio sul nonsense, sulla provocazione, diciamo pure sul trash... Credi che in fondo il BABA sia una manifestazione “pop” in questo senso, che nel suo essere slegato da trend ha anticipato, anche senza volerlo, una sorta di deriva, che però poi in ambito più emerso perde completamente la sua originalità?

Può essere. Premettendo che per me il trash non esiste e sta solo nella testa di chi ha la puzza sotto al naso, in effetti a parte Pop X, il BABA è stata la manifestazione dove per la prima volta in assoluto si è esibito Calcutta, all’epoca in formazione a due. Al BABA sono stati riscoperti dei gruppi storici che non suonavano da millenni, come i Gustoforte che poi sono andati al Thalassa e sono tornati ad avere una certa attenzione da parte della critica. Oppure icone come il grande Maurizio Marsico, che l’anno scorso ha fatto una performance video assurda al BABA e che è tornato alla grandissima sulle scene. Oppure metti, un Ludo Mich, che poi è finito al Primavera Sound dopo anni di underground, o i Tauro Boys che ora stanno per fare sicuramente il botto e hanno accettato coraggiosamente l’anno scorso di esibirsi in un contesto lontano dai soliti club/gabbia dedicati alla roba trap, situazioni di cui si erano bellamente stufati. Il pop come l’intendo io e come credo lo intendano i miei amici e fidi collaboratori è qualcosa di libero da schemi, come il „White Album“ dei Beatles: che se ci pensi è pura follia, senza alcuna direzione. Ovvio che poi arrivano situazioni che prendono le potenzialità di una cosa e la frenano. Però, per esempio, se penso a Pop X penso a uno che non lo freni manco se gli fai le iniezioni di anestetico… Poi come gli confezionino la scatola, quello è un altro conto. Sicuramente nel pop di oggi c’è stato uno sdoganamento dell’ ”allucinazione” – pensa alla suddetta trap, il massimo di assurdità nel campo del linguaggio pop – che però in virtù di questa cosa torna facilmente sui binari della stranezza e basta, del fenomeno da baraccone, e non è quello a cui puntiamo noi. C’è da dire che comunque abbiamo anche fatto esibire gente sotto falso nome, proprio per evitare qualsiasi hype e qualsiasi riferimento a una qualsiasi identità, perché di identità meglio averne cento se si vuole sopravvivere. L’originalità del BABA, se c’è, è quella di non pensare all’originalità ma di essere veri.



Il Fanfulla, nelle sue varie evoluzioni, è stato molto spesso la casa del BABA, ed è uno spazio con una funzione cruciale nel preservare una “scena” sotterranea e aperta a Roma. In che modo questo spazio riflette lo spirito ed è una casa accogliente per un festival così fuori dagli schemi come il BABA?

In realtà il Fanfulla è stata solo una delle case, e ho iniziato a organizzarlo là perché all’epoca il Fanfulla era il Forte Fanfulla e gli spazi permettevano una maggiore libertà di azione. Come già detto, abbiamo sempre cercato di diversificare le location: ci sono stati anni in cui il BABA addirittura si svolgeva in 4 giornate in 4 posti diversi! Negli ultimi tre anni abbiamo cercato di concentrarci solo su una serata, massimo due, con mostra d’arte annessa, perché a un certo punto ho notato una certa diffusione dei festival spalmati in più giorni, cosa che distrae molto ed è diventata un po’ roba da skip attention stile Spotify. Quindi ho preferito la sintesi, concentrazione massima in un punto, autismo – ah, parlo al plurale non perché sono matto, ma perché ad aiutarmi sono in tanti. Direi che il Fanfulla è un posto fuori dagli schemi, oggi più che mai. Forse uno degli ultimi baluardi di un certo tipo di libertà espressiva, pure troppo onestamente: se a Manu, che ormai è il mio braccio destro per il BABA, gli dici “Vorrei fare un circo nel Fanfulla con un elefante” lui dice “Ok”. E si fa. In generale, comunque, tutti i locali della scena di Roma Est mi hanno sempre aiutato a sviluppare i progetti più assurdi. Ed è una fortuna per me, e credo per tutta Roma, che esistano posti del genere.

A proposito delle altre location, come è stata la gestione di quelle delle prime edizioni, l'ex manicomio di Santa Maria della Pietà - di cui ci hai già spiegato la scelta - e poi, se non sbaglio, la città morta di Galeria?

Purtroppo dopo due edizioni abbiamo avuto uno scontro con l’ex Lavanderia e quindi ci siamo rifiutati di rimetterci piede: secondo me hanno sottovalutato una manifestazione che avrebbe potuto dare lustro a quella zona di Roma dove non c’è – credimi – davvero una cippa di cazzo. Riguardo alla terza edizione, ahimè non siamo riusciti a farlo alla Città Morta per vari motivi e ci siamo spostati al Casale della Cervelletta. È stata però un’edizione esplosiva, grandiosa. Non avevamo praticamente la luce, abbiamo finito che eravamo totalmente al buio, è stata una delle edizioni più primitive che mai e ancora la ricordo come una giornata surreale.

Per quanto riguarda le locandine, chi se ne è occupato negli anni? Hanno sempre avuto un'estetica visiva che, insieme alla musica, è stata peculiare nel riflettere più in generale l'estetica di “Roma Est”. Immagino anche che su questo punto sia stato fatto un lavoro ragionato, o comunque ci sia stata una sorta di coerenza (!) nel raccontare una scena...

La coerenza è nel fatto stesso di lavorare a un progetto che sta a cuore e che in qualche modo ti rappresenta, non nel contrario. Tutto succede diciamo per caso, ma per caso non è mai. All’inizio le locandine le facevano Alexandra Won Eva insieme a Massimiliano Bomba, ed erano un mix veramente strano che è nato in maniera molto spontanea. Poi le locandine sono rimaste nelle sapienti mani di Alexandra, col suo tratto naïf, e al posto di Massimiliano è subentrato ad affiancarla Ranius Be, Bomba è rimasto a curare i flyer fino a pochi anni fa, anche da Milano dove ora abita. Poi è subentrato Simone Tso che precedentemente dava una mano alla grafica: credo che sia giusto cambiare spesso anche nel discorso grafico, perché se è vero che la scena si racconta e non è raccontata, allora essa stessa cambia per forza di cose. Molti partono, molti ritornano, entrano nuove leve e quindi il cambiamento deve essere la cifra delle varie grafiche, per quanto possibile.

Momento aneddoti: immagino che i ricordi siano un po' offuscati, ma riesci a menzionare la performance più epica, la più esilarante e la più memorabile che hai visto al BABA?

Ah beh… La prima sicuramente è stato il BABA Zen del 2011. Praticamente Antonio Giannantonio aka Grip Casino si era inventato questa cosa di mettere in cartellone un sacco di gruppi finti. Poi in realtà la gente che partecipava sul serio era di un minimalismo pazzesco, tipo solo un act a categoria. La cosa era in qualche modo provocatoria, la performance vera era quella e la gente entrava nella performance senza saperlo. Io sono arrivato al punto di pensare „vabbè, ora questi ci uccidono“, invece è andata bene anche se ovviamente erano tutti perplessi. Però aveva ragione Giannatonio a proposito di un certo modo di fruire le cose da parte della maggioranza delle persone: sono distratte, prendono gli apertivi, vanno agli eventi per parlare, non per viverseli… In un certo senso neanche si sono accorti della perculata. Insomma era un po’ una critica alla fruizione delle cose che tanto va di moda ora nei vari angoli del pianeta. Se voi siete superficiali, noi vi diamo quello che volete, ma in maniera più profonda.
La performance più esilarante mi sa che è quella dei Donna Moderna: nel 2010 parteciparono al BABA girando al Casale della Cervelletta con calze in testa e imbracciando chitarre acustiche. Si ritrovarono con i due bull terrier di Andrea Marziano degli Hiroshima Rocks Around che li presero a mozzicate sul culo, inseguendoli per tutto il casale e addirittura con i denti riuscirono a rompere le corde delle loro chitarre. Davvero eccezionale!!
Quella più epica è stata la performance dei belgi Last Gifted. Un gruppo grandioso, composto da un ex tossico, un bassista senza dita delle mani e un chitarrista in sedia a rotelle, ora non ricordo che tipo di problema motorio avesse, comunque con un bel po’ di cazzi. Erano accompagnati da Warren Fungus, un personaggio più unico che raro, ed erano arrivati a Roma senza neanche uno strumento, chiamando il loro supergruppo Nobodies with Nothing. Alla fine gli presto la mia chitarra e lui mi fa “Mi serve il plettro” al che gli rispondo „Eh ma cazzo, manco il plettro!“, e lui “Eh, sennò perché ci chiamiamo Nobodies with Nothing?”. Quella sera i belgi terrorizzarono i baristi dell’ex Lavanderia, probabilmente poco avvezzi alla psichedelia, perché chiedevano birre a ripetizione… Però ecco, avevano con sé LSD puro, poteva andare peggio.

E la performance più “fallimentare”/problematica?

La parola „fallimento“ nel vocabolario del BABA non c’è, qualsiasi fallimento viene automaticamente trasformato in un fattore in più, come da lezione di Sun Ra a proposito della musica di gruppo: se uno sbaglia a suonare, tu seguilo e tutto si raddrizzerà. Posso ricordare la performance di Lilith Primavera come Nara Strabocchi al Babanatale, con quella maschera presa da una bambola gonfiabile, molto devo-luta. Dovevo mandare un video karaoke dietro le spalle mentre cantava: il video non partì mai per problemi tecnici e si vedeva solo la schermata blu con la scritta „NO SIGNAL“. Lei a quel punto si gira, guarda lo schermo e fa “NO SIGNAL!” iniziando a cantare. Inutile dire che c’è stata un’ovazione e che „NO SIGNAL“ è entrato nel nostro slang giovanile.

Dovendo fantasticare, relativamente: quale sarebbe la bevanda “ufficiale” del BABA?

Il Babazzo. Che è una variante del bobbazzo, una bevanda di mia invenzione a base di whiskey e batida de coco. Aggiungendoci del tabasco e della paprika, direi che potremmo brevettare questa nuova variante… Ora che ci penso potrei servirla al BABALEANNO.

E invece dal punto di vista logistico: come gestisci, dove fai dormire, dove porti a mangiare tutta questa gente che passa al festival? Hai un trattamento particolare quando ci sono nomi storici, diciamo artisti over 60?

Ma guarda gli artisti over 60 sono talmente punk che mi danno una pista. Bevono dalle 10 di mattina, sono dei treni ad alta velocità. Li ospito in parte a casa mia e in parte in un b&b convenzionato col Fanfulla, in parte sparso nelle case dei collaboratori. Li porto a mangiare romano ovviamente! Trattorie rustiche, un po’ gli cuciniamo… Insomma, ci coordiniamo il più possibile perché si divertano. Di rompicoglioni ne ho avuti davvero pochi, i veri rompicoglioni sono i vicini, che non capiscono quando uno ride alle 4 di notte di gusto, magari ad alta voce. Ludo Mich ad esempio ha una risata coinvolgente, ma è riuscito a farsi sentire fino al piano terra del mio palazzo, tanto che mi hanno citofonato e ci siamo giustificati dicendo “Sa, è belga”… E loro “Eh, anche io ho parenti belgi, ma mica ridono così forte!!!”.

Come scegli gli artisti/performance, hai delle linee guida nella costruzione delle line up?

Vado a istinto, diciamo che so dove non devo andare, e di solito scelgo performance che sono curioso di vedere live. Soprattutto mi piacciono quelli che sono timidi nelle loro proposte, che hanno paura, poi una volta che salgono su quel palco fanno i numeri. È un po’ l’essenza di tirare fuori la pazzia senza vergognarsene.

Negli anni sei stato soprattutto tu ad occuparti del BABA, ma ci sono delle persone/realtà che ti hanno aiutato a portare avanti questa impresa?

Sono stato solo a ideare la cosa solo dopo il 2011, ma sono sempre stato circondato da una serie di amici, collaboratori, artisti che mi hanno dato un sacco di dritte e che ho regolarmente ringraziato nel blog del BABA alla fine di ogni edizione. Sono davvero tanti e il BABA alla fine è una cosa collettiva, che non appartiene a me. Solamente nell’ultimo anno non ho scritto il solito post di ringraziamento perché… Era lungo e mi stancavo, avevo il cervello fritto per enumerarli tutti! Allora ho scritto solo “grazie a tutti i collaboratori”. Quest’anno però lo rifaccio dettagliato, è il decennale, sennò magari giustamente mi menano…


Raccontaci questa edizione, i suoi "highlight" o comunque gli spunti lungo i quali hai costruito la line up...

Ho deciso di fare dieci act musicali perché sono dieci anni dalla prima edizione, e poi le perfomance e i dj set li ho scelti basandomi su un discorso numerologico segreto, ma sempre coerente con il BABA. La mia idea è semplicemente di fare una festa di compleanno, tipo quelle stupide delle medie… E così sarà. Negli highlight sicuramente metto Giancarlo Schiaffini, che è un mito dell’avanguardia jazz italiana, e ID M Theft Able, che suona per la prima volta a Roma ed è veramente incredibile: un rumorismo cinematico che diventa improvvisamente arte a tutto tondo. E poi il 3 novembre, allo studio del duo GrossiMaglioni, ci sarà il pre-BABA con la prima mostra itinerante di arte impoverita con il maestro Lorenzo Lustri – per scoprire di che si tratta andate sul blog ufficiale del festival. In generale comunque non so cosa succederà veramente, quindi credo che l’highlight sarà il BABA tutto. E a dirla con sincerità, anche di uscirne vivi.