In principio fu il teatro e la passione per la fotografia non lo ha mai abbandonato. Eppure il suo nome è fortemente legato alla musica „alternativa“ italiana (con buona pace del bisnonno compositore). Come giornalista, ma anche come dj, e poi produttore, discografico, direttore artistico. Classe 1973, milanese doc e figura poliedrica della vita culturale di Milano, Barnaba Ponchielli oggi è „l’orecchio allenato“ che sceglie i musicisti da far suonare la domenica per Upcycle Sounday all‘Upcycle Bike Café Milano e il lunedì da Gattò | Robe & Cucina, ma pure quello che pubblica e produce dischi con l’etichetta indipendente Sangue Disken (la cui storia dura da un decennio) e, in ultimo per ordine temporale, il direttore artistico della nuova rassegna mensile di Base, (dal titolo esplicativo) Italica. I più attenti avranno letto il suo nome per anni proprio sulle pagine di Zero (di cui è stato il primo responsabile della rubrica musica) e i nottambuli lo avranno (intra)visto mettere dischi come Sangue Disken in giro per locali. Oltre tre lustri – quasi quattro, in realtà – di attività che ci siamo fatti raccontare in questa lunga intervista.
Cominciamo dal principio: come hai iniziato ad appassionarti di musica?
BARNABA PONCHIELLI: Non lo so esattamente. Ricordo al liceo le prime cassette registrate con tanto metal, ma non solo. Prima in realtà anche cassette di Prince, Eurythmics e Supertramp, ma originali, durante le vacanze estive a Capalbio, non so se mie o no. E pure ascolti, sempre estivi, dei Beatles, in particolare Help: credo sia stato il primo pezzo punk che ho ascoltato, a posteriori. Ascolti non consapevoli, in realtà, mai presi seriamente. A dirla tutta il primo approccio con la musica è stato grazie ai miei genitori, che mi hanno fatto ascoltare fin da piccolo molta musica classica. Sia dal vivo, con opere alla Scala e concerti all’Angelicum, che in casa tra vinili e cassette e poi cd. Dal mio cognome si potrebbe supporre che ce l’avevo nel DNA, ma in realtà non ho avuto alcuna educazione particolare da quel lato, solo delle mal sopportate lezioni di piano. Anzi, so giusto che Amilcare Ponchielli ha composto la Gioconda (di cui il cattivo, per puro caso, è Barnaba) e la Danza delle ore, che tutti conoscono perché è quella degli ippopotami in Fantasia: purtroppo non siamo ricchi grazie a quella comparsata, perché il lato Ponchielli della famiglia è sempre stato un disastro in tal senso…
Ti ricordi il primo disco che hai comprato? E l’ultimo?
Il primo vinile mi pare sia stato Ancient Dreams dei Candlemass. La prima cassetta forse Powerslave degli Iron Maiden. Mi ricordo una cassetta dei Supertramp che avevo, Free As A Bird, ma non so da dove arrivasse. L’ultimo non me lo ricordo mai di solito, perché cambia continuamente.
Ci sono degli spazi, dei luoghi o delle realtà a Milano che sono stati importanti per la tua formazione?
Direi che gli spazi che sono stati più importanti per la „mia formazione“ son quasi tutti stati chiusi. Gli unici che hanno resistito – ed è il termine migliore in tutti i sensi – nel tempo sono Cox18, Leoncavallo e Torchiera, tutti centri sociali autogestiti. Il resto si è disintegrato sotto il peso del „business“, o meglio, sotto il peso dell’incapacità di creare un vero business dietro a un club che propina musica dal vivo, come mi pare accadere meglio all’estero: La Casa 139, Binario Zero, Rainbow e Rolling Stone. Certo, sono conscio che aprire e gestire un locale non sia una passeggiata dalle nostre parti, ma se come locale non ti metti nell’ottica di educare e intrattenere il tuo pubblico, senza che nessuno dei due aspetti prevalga, è inevitabile che a un certo punto l’esperienza si debba chiudere: se non dai ossigeno a una persona dopo un po‘ muore per asfissia.
Ti ricordi il primo concerto a cui sei stato? Come è andata?
Il primo concerto è spesso casuale, e infatti fu Madonna a Firenze: non ho alcun ricordo di quella cosa, ero lì solo perché una ragazza che mi piaceva ci andava e siamo andati assieme ad altri amici suoi. Più consciamente invece i successivi furono Pixies e The Sisters Of Mercy al Rolling Stone di Milano: in due serate diverse, ci andai con mia cugina e il suo fidanzato senza aver mai ascoltato nessuno dei due prima.
Nel 2000 sei diventato responsabile della rubrica musica di Zero. Cosa avevi fatto prima?
Prima avevo scritto per Jam e prima ancora, ai tempi dell’Università a Pavia, assieme ad altri studenti abbiamo avviato Inchiostro, il giornalino dell’Università, dove ho cominciato a scrivere di musica: esiste ancora, oltretutto. Due anni fa mi hanno pure intervistato perché era il ventennale! Inoltre sempre in quel periodo ho cominciato a lavorare per la Compagnia della Fortezza di Volterra, in veste di attore e addetto alle musiche.
Per dieci anni ti sei occupato di scovare nuovi nomi, parlare di musica o magari stroncare musicisti stranieri ma soprattutto italiani su Zero – sempre con un piglio molto ironico ma efficace e peculiare. Sono passati quindici anni, non una quantità esagerata ma, vista la velocità con cui da quando è arrivato internet tutto si consuma rapidamente, si tratta in effetti di una vita fa. Suppongo che leggi e ti tieni informato: come credi sia cambiato il modo di fare informazione musicale – soprattutto considerando che hai sempre avuto un certo senso critico? Credi che prima ci fosse più libertà nel fare informazione, trovi che oggi con l’aumentare dei mezzi di “informazione” (virgolette d’obbligo) ci sia più competitività, o che si tenda a un appiattimento? In tutto questo, dove si collocano i social network?
Devo dire che mi pare tutto molto peggiorato. L'“informazione musicale“ è disinformazione, sempre più in mano a fan che scribacchiano le loro paturnie diaristiche, piuttosto che fare delle recensioni o condividere opinioni utili e ragionate su questo o quel disco, su questo o quel musicista. L’appiattimento è verso il basso, anzi, oltre il basso: non c’è limite, raggiunto il fondo si scava, senza vergogna alcuna e senza rispetto per musica, lettori o musicisti. Io scrivo saltuariamente, anche perchè nessuno paga più per scrivere, nessuno paga più la professionalità o la competenza, ma solo quanto sei bravo a urlare contro qualcosa o l’opposto, quanto sei bravo/a a non avere alcuna opinione che possa urtare qualcuno. I social network sono solo uno strumento, spesso ormai utilizzato abbastanza male e superficialmente, ma comunque rimangono uno strumento e non sono la causa di nulla. La libertà di poter scrivere o dire qualunque cosa su tutto e sempre li ha un po‘ trasformati in bar, dove la chiacchiera la fa da padrona e la riflessione è bandita. E così è successo anche nel giornalismo musicale, purtroppo.
C’è un episodio divertente o comunque per qualche motivo memorabile che ti è capitato quando eri responsabile della musica di Zero?
Il primo che mi viene in mente è quel concerto degli Who Made Who che come Zero organizzammo nello scavo aperto dei parcheggi di via Ozanam: col gruppo che suonava nella voragine dei lavori e il pubblico sopra, al freddo a bere vin brulè.
Sangue Disken: quando nasce e in quale contesto, quale l’idea iniziale/il progetto alla base di questa che è un po’ la tua ragione sociale, e che tipo di approccio alla musica credi identifichi Sangue Disken? Come si è trasformato il progetto negli anni e conseguentemente i tuoi criteri di “valutazione”/selezione delle band da produrre o da far suonare?
Sangue Disken nasce tra il 2007 e il 2008, se non ricordo male. Eravamo io, Carlo Pastore e Fiz di Rockit che ci siam dati questa ragione sociale per metter dischi al Rocket. Fiz è stato il primo a staccarsi dal trio, perchè io e Carlo stavamo puntando più a fare veramente i dj, ovvero mixare i pezzi e andare sempre più verso l’elettronica del periodo. Come duo abbiamo girato parecchio per la Lombardia, fino a lambire persino il Friuli in un quasi tour di 2 o 3 date -da solo sono arrivato in Toscana una volta e al Festival Musica Distesa, nelle Marche -, se non ricordo male, tra Brescia, Padova e Pordenone. La voglia di far uscire dei dischi è stata mutuata dal fatto che stavamo guadagnando dei soldi e che ci faceva piacere reinvestirli nella musica, la nostra passione. All’inizio ci siamo limitati a un’edizione limitata di Aspetto degli Altro in cd, il primo album prodotto è stato invece L’Esercizio delle distanze degli amici Minnie’s e poi la prima produzione originale fu Altro Disco, ovvero la prima raccolta di remix disco/fidget/house di una band punk, nel periodo dell’esplosione del french touch – inteso come Ed Bangers, Justice, Daft Punk prima maniera, etc. – dove si possono trovare i primi esperimenti alla sacra arte del remix di gente come Dariella (Amari), Sergio Maggioni (NEUANU), Rico dei Uochi Toki, il mai abbastanza compianto Enrico Fontanelli degli Offlaga Discopax e molti altri. Questa è l’uscita di cui sono più fiero, perché fu una delle prime a osare così tanto: purtroppo non ebbe il supporto mediatico che si sarebbe meritata. Poi ho proseguito da solo perché Carlo decise di proseguire la sua carriera televisiva e sfruttarne le implicazioni commerciali come dj, che ora l’hanno portato in radio a Babylon. Non so se consciamente il mio criterio di valutazione delle band sia mutato, sicuramente sì anche se a me pare semplicemente e continuamente lo stesso: ovvero optare per quelle più meritevoli e dotate. Che poi sono gli stessi criteri con cui cerco di selezionare le band per Gattò, Upcycle o in qualunque altro posto dove ho organizzato dei concerti o dei dj set.
Come Sangue Disken un aspetto che mi pare importante è quello di scovare nomi nuovi, di arrivare “per primo” su qualcosa che ritieni valido. Come produttore, quali sono le caratteristiche che attirano la tua attenzione, che ritieni significative quando ascolti o cerchi qualcosa di nuovo?
Difficile dare una formula alle intuizioni. Ad esempio, per Le Luci Della Centrale Elettrica non ho avuto dubbi fin dal demo sul fatto che ciò che stava facendo Vasco Brondi fosse una bomba: l’avrei fatto uscire con Sangue Disken subito, ma Carlo in quel caso disse: «No, è ancora troppo acerbo…», e abbiamo visto poi quanto era acerbo… Me ne parlò per la prima volta Dente: per quanto mi riguarda ha scoperto lui Le luci della centrale elettrica! Dente è un altro di cui ho intuito subito il potenziale, anche se quando l’ho conosciuto pensavo fosse solo un tipo con una capigliatura bizzarra e una pelliccia di finto pelo che faceva il filo alle mie amiche. Idem per Bugo, che ai tempi de La prima gratta mi esaltò così tanto che lo proposi in Virgin Italia: ma non lo capirono, infatti finì alla Universal. Insomma, si tratta di un bagaglio di nozioni impercettibili ma che si depositano di ascolto in ascolto, di analisi in analisi, di emozione in emozione, di concerto in concerto, e creano un proprio gusto personale che sa distinguere tra vero talento e i così detti “guilty pleasure” – che, modestamente, credo proprio di non avere! Sono armonie che accadono sotto i nostri orecchi tra parole e musica, suoni e intenzioni, energia e comunicatività. Bisogna allenare l’orecchio, insomma. Un qualcosa che oggigiorno pochi fanno, sia musicisti che “addetti ai lavori”, purtroppo.
Cos’è e su cosa è concentrato Sangue Disken oggi?
Sangue Disken è concentrato sul sopravvivere dignitosamente. Ogni giorno potrebbe essere sempre l’ultimo, ma poi si cambia idea repentinamente. L’ambiente musicale italiano – soprattutto affrontato in completa solitudine, come purtroppo mi sono ritrovato a fare io – è veramente pesante. Poi salta fuori un nome nuovo che ti arriva per caso e ci si esalta e si riprende forza. Come è successo con Old Fashioned Lover Boy e Berg o sta succedendo ora con Mèsa e Counterfly che sono gli ultimi progetti che sto aiutando a venir fuori, entrambi con due EP appena usciti. E poi ci sono Bandit il Cantautore, Joseph Foll che sto seguendo anche artisticamente, quasi come manager, ma senza rendermene conto, con cui stiamo preparando gli esordi discografici.
E quindi arriviamo al tuo ruolo come curatore nell’ambito della musica live. Prima domanda di rito: ti ricordi il primo concerto che hai organizzato? Come è andata?
Si me lo ricordo, a Milano Uzi & Ari a La Casa 139 nel 2007, lo organizzai per far colpo su una ragazza, ovviamente fallii in quel frangente, ma il concerto andò bene. Ma forse, prima ancora c’è stato un concerto che organizzai a Volterra di Dente e Le luci della centrale elettrica, entrambi chitarra e voce, all’interno di VolterraTeatro. Non li conosceva nessuno al tempo da quelle parti… Vasco non aveva ancora fatto uscire il primo album e Dente forse aveva appena fatto uscire Non c’è due senza te.
Quando nasce l’appuntamento da Gattò? Anche qui, com’era l’idea iniziale e come si è sviluppata e ingrandita nel tempo?
Gattò è casa Martinetti, praticamente. È un’azienda a conduzione familiare e sono stato tirato in mezzo a questa famiglia di pazzi da Olivia, che all’inizio confondevo sempre con Angelica e viceversa, visto che sono gemelle. Il primo concerto da Gattò lo hanno organizzato Alessandro Mariano (batterista di Minnie’s e Manetti) e Marcantonio Corrieri come Il Baffo, piccola agenzia di concerti curata dai due per passione che non ha avuto lunga vita purtroppo. Furono Slow Magic e Selebrities, era 19 marzo del 2012, e andò assai bene. Io cominciai a occuparmi dei live da Gattò dall’appuntamento successivo, principalmente facendomi intortare dalle maniere e dagli ammiccamenti di Olivia il mese dopo, invitando Paletti che presentava il suo esordio discografico, l’EP Dominus. E poi da dicembre dello stesso anno mi ci misi con più regolarità e stipulammo con Mario, il padre delle gemelle, di regolarizzare la cosa e da lì siamo arrivati a oggi.
La dimensione di Gattò, come anche di Upcycle, è peculiare: quali sono gli aspetti a cui hai imparato a fare assolutamente attenzione affinché la serata sia soddisfacente?
I dettagli che tengo più in considerazione sono quelli tecnici per le band, fare in modo che i musicisti siano a proprio agio con lo scarno backline che posso offrire: questa è la cosa a cui tengo di più. Se sono soddisfatti loro sono soddisfatto anche io, che ci siano 20 o 60 persone. Faccio suonare le band che possono avere un senso in situazioni come Gattò e Upcycle, ricreando il posto e la situazione che io vorrei trovare in una venue non musicale.
Quando nasce Upcycle?
Upcycle Sounday nasce nel gennaio 2015, Giovanni Pesce – uno dei soci del locale – segue da sempre i lunedì sera da Gattò e voleva provare a esportare la formula da loro. La domenica di solito alle 17:30 chiudevano. Colazione, brunch e basta. Da gennaio 2015 la domenica sono aperti fino alle 21 e tra le 17:30 e le 20:40 si fa load in, soundcheck, concerto, si cena e si mangia. I vari soci di Upcycle volevano rendere più frizzante la presenza della loro impresa nel panorama cittadino e mi hanno chiamato. E mi pare stia funzionando, è sempre pieno.
Dal punto di vista della direzione artistica e dell’atmosfera come differiscono i due appuntamenti?
In realtà l’unica differenza è che da Gattò posso permettermi l’ospitalità delle band mentre da Upcycle no. Altra differenza è che Gattò è più raccolto e si sente meglio per questo, mentre Upcycle è più dispersivo e l’impianto non riesce a coprire omogeneamente tutta la sala, quindi a volte il chiacchericcio si fa sentire un po‘ troppo. La programmazione è simile ma differente, nel senso che non faccio suonare lo stesso gruppo due sere di seguito, ma a distanza di una settimana può capitare benissimo. Però anche se sono due giorni consecutivi sono solo due locali situati in una città di 3 milioni di abitanti, quindi quale sarebbe il problema? Quale sarebbe la follia? L’unica follia e non fare come fanno a Berlino, New York o Londra, ovvero far suonare una band anche più di una volta alla settimana nella stessa città, così che più gente possibile la possa ascoltare, se è valida. Se al pubblico piace una sera, piacerà anche la sera dopo, no? E poi data la differenza di venue i concerti della stessa band cambiano considerevolmente da Gattò ad Upcycle e viceversa.
Mi dicevi che il pubblico di Gattò non è esattamente lo stesso di quello di Upcycle: come è andato diversificandosi nel corso del tempo? Le persone che si trovano a sentire musica live in un posto dove si mangia o si fa aperitivo, non parlano tendenzialmente troppo, diventando fastidiose?
Gattò è diventato più un appuntamento fisso e ha un atmosfera più intima e casalinga, quasi: le dimensioni ridotte uniscono di più le persone. Da Upcycle è un po‘ più dispersivo e c’è più pubblico casuale che a volte ai live non si accorge di chiaccherare a un volume un po‘ troppo alto. In entrambe le situazioni, con la qualità delle selezioni ho cercato di abituare il pubblico alla buona musica ma le maniere rimangono sempre le stesse in Italia, è raro trovare un pubblico attento e rispettoso di chi sta suonando. Anche se a volte sono capitate le magie e la musica da sola è stata in grado da sola di zittire il pubblico indisciplinato.
Avete mai provato a ovviare a questa situazione in cui le persone tendono a parlare durante i live in qualche modo, provando ad aumentare l’attenzione del pubblico prima del concerto, ad esempio? Sulla carta hai ragione, ma trovo che puntare sulle selezioni di buona musica sia fin troppo ottimistico come „provvedimento“… Non credi che le situazioni dove si fa altro – cenare, aperitivo – portino per natura le persone a sottovalutare/mettere in secondo piano se non ignorare la componente musicale… Più di quanto già non faccia in altri contesti, dove non si beve, non si mangia e non si sta seduti ma troppi parlano inspiegabilmente lo stesso?
Credo sia solo una questione di educazione all’ascolto e di rispetto per la musica come espressione sia artistica che lavorativa, cosa che da noi non va mai data per scontata come ad esempio all’estero. Qua da noi la gente, il pubblico, soprattutto poi a Milano, ha la pretesa quando entra in un locale di fare quello che gli pare, non capendo che stai entrando in casa d’altri, di persone che ti ospitano, ti servono e ti fanno ascoltare buona musica e ti fanno stare bene, quindi tu dovresti rispettare questa ospitalità comportandoti bene, come faresti a casa del tuo migliore amico o dei tuoi genitori. Tutto qua. Non è ottimismo pensare che la buona musica se ben veicolata attiri l’attenzione, è la regola per me: e ne ho la riprova a ogni concerto fatto da Gattò o Upcycle. Se una band o un musicista sanno il fatto loro, l’attenzione se la prendono e non con arroganza o maleducazione, ma facendo bene ciò che sanno fare, coinvolgendo, sapendosi comportare. All’estero situazioni come Gattò e Upcycle ci sono e funzionano perché sono i gestori dei locali a dettare la disciplina del posto in primis, e se qualcuno rompe le scatole lo zittiscono o gli chiedono gentilmente di abbassare il volume della voce. E questo, alla lunga, già educa il pubblico a comportarsi bene, ad ascoltare. In Italia, annoso problema, il lavoro artistico non è inteso come lavoro, ma come passatempo, come qualcosa che si dovrebbe avere gratis e da questo deprezzamento ne deriva il poco rispetto che sovente siamo costretti a subire. Detto questo, ci vorrebbe anche un filtro maggiore nelle proposte musicali, ovviamente, che punti alla qualità, quella vera, e non che la programmazione di un locale venga fatta tanto per riempire locale o tasche dei gestori: perché così facendo, a mio parere, equivale al rubare e truffare la gente. Insomma è un cane che si morde la coda. L’essenziale è pensare in prospettiva, avere pazienza e cura, non sperare nel rientro immediato appena programmi un concerto oppure aspettare che l’evento Facebook basti a portarti pubblico pagante ed educato.
Tra Gattò e Upcycle c’è stato un live in particolare complesso o complicato da realizzare?
In realtà, pensandoci bene, mai. Anzi, quelli apparentemente più complicati con 5 o 6 musicisti, tipo Manuel Volpe, Tomorrows Tulips o The Pharmacy – tutti realizzati da Gattò – non hanno mai dato problemi, anzi sono tra i più riusciti di sempre.
Milano l’hai vissuta sotto vari punti di vista, come operatore culturale e come fruitore: rispetto a 15/20 anni fa secondo te sotto quali aspetti Milano è “migliorata” e sotto quali “peggiorata” per la musica dal vivo?
Ora c’è più scelta ma più superficialità, meno cura nel prodotto finale, meno filtri di qualità per selezionare. È tutto più confuso. E così facendo certe cose interessanti rischi di perdertele perchè coperte dal rumore bianco della fuffa. Un tempo l’assenza della rete già permetteva un filtro di qualità notevole, in cui le scoperte erano davvero scoperte sensazionali che ti portavi avanti per anni, non così usa e getta come oggi.
Un “tema caldo”, uscito in varie interviste, è quello della mancanza di “spazi”: le rassegne spesso sono itineranti e non è facile associare una particolare identità a un luogo (è successo l’anno scorso per Sotto La Sacrestia, che poi ha chiuso). Confermi che sia così e secondo te dove sta la problematica? In chi non vuole rischiare, o nella risposta del pubblico?
Sì, confermo. È così. Non si rischia sulla lunga distanza e sul ragionamento, creando programmazioni coerenti e di qualità. Sembrano tutte fatte random e senza una logica ormai. Sotto La Sacrestia è stato l’unico esempio di coerenza e qualità nel tempo, seppure per il poco che ha vissuto. Bisogna osare di più col pubblico, non assecondarlo, come fanno da anni Dj Henry e Davide Zolli con La Società Psychedelica e come hanno fatto la scorsa stagione con Sotto.
Ci sono delle nuove realtà che trovi interessanti, in ambito musicale ma volendo anche culturale in senso più ampio?
Il fenomeno tutto milanese ma in espansione di Motel Forlanini e delle sue eroine M¥SS KETA e Gaia Galizia è la cosa più figa e originale uscita da Milano da un bel po‘ di tempo a questa parte: Riva, il mastermind musicale dietro ad entrambe (e che sta dietro anche a LIM) è sicuramente il produttore di musica elettronica più frizzante del momento a mio parere. In crescita costante e sempre ispirato.
Tu sei milanese doc: qual è il tuo luogo preferito di Milano? Qualsiasi – parco, museo, luogo d’arte, o anche posto a cui sei semplicemente affezionato…
Idealmente, un posto che ammiro un sacco è la nuova Fondazione Prada. In generale l’operato della Fondazione è stato una parte importante della mia formazione culturale, indubbiamente da quando hanno aperto mi sa. A ogni mostra quel posto è rimasto il mio preferito di Milano, anche perché in costante evoluzione e mai uguale a se stesso. Una finestra affascinate su mondi alternativi di guardare oltre le apparenze che altro non sono che lo specchio della società con tutte le sue contraddizioni.
Ci sono invece dei luoghi in cui ti piace andare a bere o mangiare?
In Paolo Sarpi, il quartiere cinese di Milano, ci sono due situazioni nate di recente che esulano dall’etnicismo culinario tipico della zona e offrono atmosfere poco milanesi ma molto piacevoli. oTTo in Paolo Sarpi all’8, un bar ristorante aperto tutto il giorno fino a sera tarda con wi fi, una balconata con tavolini molto berlinese e i mitici quadrotti; il Recreo Bar Sartoria, in via Albertini 9, un raffinato blend tra Tapas Bar e un negozio di sartoria: tapas, cocktail, bevande, selezione musicale e la verve di barman e addetto alle tapas creano un’atmosfera abbastanza unica.
Non so se gli alti e bassi che vive in generale la cultura in Italia a Milano siano più legati a un problema di tipo politico (come a Roma) o culturale, di approccio alla materia (la tendenza a fare di tutto una moda, quindi con visioni che non ragionano sulla lunga distanza). Se avessi una carica politica, o comunque se ne avessi facoltà, ci sarebbe qualche cambiamento in particolare che opereresti nel rapporto tra musica dal vivo e territorio?
Beh, con Pisapia e Sala la città è sicuramente migliorata, anche se ci sono sempre situazioni assurde e estremamente provinciali che ho difficoltà spesso a spiegarmi. Da parte mia proporrei semplicemente una selezione culturale più organica e sensata, contemporanea e di spessore, ovviamente seguendo i miei gusti, che comunque sono abbastanza eclettici e attenti.
Tornando alla musica e all’ultima novità che ti riguarda, dal 16 marzo a Base prenderà il via una nuova rassegna, Italica, di cui sei il direttore artistico. „Solo musica cantata in italiano“ è il claim, ma ci racconti che tipo di caratteristiche avrà oltre a questa, se ci saranno delle differenze rispetto alle altre rassegne che curi o comunque in generale che tipo di linea artistica avrà e come sceglierai gli ospiti? Mi pare che il contesto sia simile a quello di Gattò e Upcycle: hai sperimentato che si tratta di un concept che funziona e di cui c’è sempre più richiesta in città?
Italica è esattamente quello che dice il claim, questa è la caratteristica principale, accompagnata dalla qualità e dall’originalità delle proposte musicali. La lingua italiana è una delle più armoniche del mondo e ha un sacco di storie interessanti da raccontare che non solo noi italiani possiamo apprezzare. Un esempio lampante sono gli Itaca, che con I Camillas saranno i protagonisti dell’ultimo appuntamento fino ad ora programmato per l’8 giugno: sono una coppia berlinese illuminata dalla musica pop italiana di qualità a cui hanno deciso di dedicarvisi porgendole omaggio attraverso un electro pop frizzante, accattivante e mai banale. A Base, inoltre, non ci saranno limitazioni di volume – se non quelle ridicole imposte per legge, purtroppo. L’unico concept che funziona per una buona direzione artistica, in generale, credo sia il gusto delle proposte e l’accoglienza, ho sempre lavorato in questa direzione e spero che si riesca, proseguendo in questo percorso, a riempire Base.
Italica si propone anche di valorizzare e far emergere i talenti italiani: trovi che nel nostro Paese si pecchi ancora molto di esterofilia – sia per quanto riguarda i gusti del pubblico sia dei musicisti che per certi versi tendono a emulare realtà internazionali – o possiamo a questo punto affermare che si siano sviluppate delle tendenze più vicine alla sensibilità e „tradizione“ (di nuovo virgolette d’obbligo) italiana?
Beh, ultimamente il trend sta cambiando decisamente. La palestra esterofila ha finalmente portato a produzioni originali che sanno valorizzare e usare l’italiano più che bene e ad avere un’ottima esposizione: dopo la sbornia di rock duro di Afterhours, Verdena, Ministri, Teatro degli Orrori, Sick Tamburo, etc. di qualche anno fa – ma ancora ben piantati nel presente tutti – club e festival sono ben contenti di ospitare progetti più pop ma non meno validi come Calcutta, Cosmo, Thegiornalisti, Brunori Sas, Zen Circus, Motta… – giusto per citare quelli che riempiono locali di pubblico cantante che doppia parola per parola tutto ciò che i musicisti cantano. E io dico meno male! Ho già citato la ballotta Motel Forlanini, aggiungo qualcosa di rap che mi sembra stia uscendo dagli stereotipi ora vigenti come il toscano Crema o i romani Carl Brave X Franco126 o il duo Coma Cose, nuova incarnazione di Edipo. Mi ripropongo di approfondire ancora Rkomi di cui mi han parlato tutti bene. Oggi come oggi sei più tradizionale se dici di ascoltare musica non cantata in italiano, la lingua unisce tutti nella comprensione anche della musica: anche perchè diciamocelo chiaramente, il 90% dei gruppi indie italiani che cantano in inglese, l’inglese neanche lo sanno! E te lo dice uno che ne ha anche pubblicati fieramente più di uno!