Cercare di comprendere lo stato attuale delle cose, del come le maniere di vivere, pensare e abitare cambiano, è materia puntualmente scivolosa. Ci vogliono appigli materiali, ci vogliono mappe ed esperienze altrui, perché tutto questo si configura in un termine che all’apparenza può sembrare semplice: orientarsi. Nel nostro caso, il soggetto è la città e il suo essere immancabilmente centro di produzione culturale, di abitudini, coazioni e cambiamenti.
Ora, quando abbiamo letto Abitare il Vortice di Bertram Niessen (edito da UTET quest’anno), attivista e progettista culturale, noto ai più per essere stato parte del collettivo Otolab e soprattutto per essere tra i fondatori di cheFare, era marzo e da lì a poco sarebbe partita una sentitissima discussione social, media e giornalistica durata settimane che aveva al centro proprio le condizioni di vivibilità, piacevolezze e disgrazie di Milano. In ballo c’era una sfida tra immagini di città contraddittore che riescono a coesistere: il caroaffitti e gli stipendi, il capitale reputazionale e la fomo, la nostalgia del passato e la nostalgia del futuro, accolte spesso entrambe da una certa rassegnazione e raramente analizzate da gruppi o collettivi in cerca di altri orizzonti d’azione.
«Chiamiamo “comunità” cose completamente diverse, da quelli che si trovano qui al pingpong (che in fondo è gente che sta insieme e abita uno spazio pubblico), ai gruppi targettizzati dalla comunicazione e dal mercato.»
Dal canto nostro, il libro di Bertram è particolarmente interessante perché interessato a capire come relazionarsi ai cambiamenti occorsi nella città – specialmente negli ultimi tre anni – ma ricapitolando una storia ventennale, che raramente è raccontata con i toni biografici e speculativi che caratterizzano Abitare il Vortice, e men che meno passando per i luoghi e i modi in cui s’è pensato di stare assieme. In questa chiacchierata abbiamo parlato principalmente di Milano, così come fa il libro, concentrandoci su alcune paroline d’ordine che scandiscono i discorsi e le proposte pubbliche degli ultimi anni: prossimità, quartieri, comunità e infine, ovviamente, produzione culturale.
Comincerei da quel che è più in evidenza: il titolo del tuo libro. Cos’è questo “vortice” a cui ti riferisci?
Diciamo che è più un’impressione che una dimensione analitica, ed è nata nel momento in cui mi sono deciso a scrivere il libro. Era l’anno scorso, quando tutto riapriva piano piano dopo la pandemia e si cominciava a tornare all’aperto, ma senza capire bene come comportarsi. Tutti erano ben contenti di stare fuori ma nessuno sapeva più come stare con gli altri: tutto era costantemente da rinegoziare, cosicché ogni momento all’aperto o in spazi chiusi – come gallerie, musei o club – sembrava una specie di remix tra tutte le modalità possibili di vivere gli uni accanto agli altri. In tutto questo, ovviamente, c’era una dimensione eminentemente prossemica, perché si cercava di capire nuovamente come e quanto potessimo stare assieme e in quali modi, insomma: mi sembrava che fossimo tutti dentro una grande centrifuga.
Hai già tirato fuori uno dei temi chiave che accompagna il libro: la prossemica. Parlata, comunicata e realizzata in tutte le salse possibili, tra urbanismi tattici e quartieri. Parole e temi che sono ormai tanto pubblici da passare tanto per disinneschi quanto per nuovi orizzonti o orientamenti di città. Che ne pensi tu di queste posizioni?
Secondo me si tratta di uno spettro di posizioni molto simili tra loro, perché in fondo ricorrono tutte allo stesso “slogan”: prossimità. L’idea semplice alla base è di essere vicino a tutti e a tutto, che la città prenda la scala di vicinanza di un paese. Ma ci sono inclinazioni decisamente differenti. C’è chi cerca di riprogettare i quartieri come se fossero paesi a tutti gli effetti, tutti internamente in relazione ma orientati quasi ed esclusivamente al servizio, per cui il cittadino diventa fruitore e utente, niente di più e niente di meno. D’altro canto esistono letture e versioni di cosa sia questa prossimità che forse sono più attente. Ad esempio quella di Ezio Manzini, teorico del design con una formazione politica piuttosto spinta, che sostiene che la dimensione prossimale abbia senso soltanto nel momento in cui di prendano in considerazione le pratiche capillari di cura reciproca. Che sì, è un modo di raccontarla, ma sicuramente è anche un modo di pensarla.
Ovviamente qui a Milano la logica dei quartieri, dei servizi, della “città dei 15 minuti” è sentitissima. A quale idea di prossimità si orienta secondo te questa città?
Milano è esemplare in questo senso: è una città che della costruzione di servizi ha fatto una specie di ideologia, e anche perché queste forme di progettazione e di fruizione funzionano a tutti gli effetti, sono efficaci, e in alcune zone ti trovi effettivamente attorno a casa qualunque cosa. Ma c’è un problema che rimane comunque, ed è quello delle disuguaglianze. In questo senso Milano è una città che è fatta di profonde differenze territoriali. Quartieri come Calvairate, San Siro, Ponte Lambro o Quarto Oggiaro tra gli altri vivono in stati di disagio non per una questione di servizi ma per le disuguaglianze che riguardano il reddito, la casa, la provenienza. Penso che Milano stia soffrendo proprio di questo: dell’assenza di politiche urbane radicate e radicali che s’assumano la responsabilità rispetto alle disuguaglianze, e questa è la ragione per cui tutto sembra pura cosmetica.
Un altro tema chiave e bollente, legato a stretto filo con l’idea della prossimità, è quello di comunità. Nel libro l’affronti nel contestualmente a una generazione che ha vissuto gli anni Novanta e il pieno della decade dei Duemila – che è la tua –, seguendo i mutamenti semantici che sono via via occorsi e soffermandoti sulle omologie tra il senso di comunità oggi e le comunità di tossicodipendenti. Cos’è oggi comunità?
La nozione di comunità è molto spacchettata nel libro, e questo proprio perché in quel termine, secondo me, c’è un potente elemento generazionale. Sono convintissimo che i telefilm degli anni Ottanta e Novanta abbiano cambiato il senso della parola per come viene utilizzata, per cui per esempio oggi negli Stati Uniti si usa e s’è usato per indicare le collettività – mentre in Italia non è stato così e così non è. D’altro canto, credo sia evidente che ci sia una certa voglia di comunità in tal senso, di situazioni che sappiano costruire legami nuovi e diversi che diano un senso di appartenenza. Ma ci siamo disabituati a ragionare in termini di grammatica politica rispetto a questi termini, e qui complice è la vaghezza del termine: chiamiamo “comunità” cose completamente diverse, da quelli che si trovano qui al pingpong (che in fondo è gente che sta insieme e abita uno spazio pubblico), ai gruppi targettizzati dalla comunicazione e dal mercato. Credo insomma che ci sia una grande necessità di ripoliticizzare le pratiche che stanno dentro a questa parola.
Molto spazio, in proposito, è dato alla tua esperienza e alla frequentazione e dei centri sociali occupati tra gli anni Novanta fino agli anni Duemila. Parliamo di anni leggendari, se si pensa anche soltanto a cosa fossero qui a Milano il Leoncavallo, il COX18, la Pergola o Isola Art Center. Quel che colpisce, cercando di fare una diagnosi della situazione oggi, è che sono tutti luoghi con diverse decine d’anni alle spalle (meno che Macao).
Beh, Lambretta e Pirati sono più recenti, degli ultimi dieci anni, ma è vero. Qui il tema credo che sia che l’ultima grande innovazione in termini di movimento per l’Italia sia stata quella dei teatri occupati, post Occupy, da cui sono nati il Valle, l‘Asilo e Macao – e si parla comunque del 2011. Di fronte a una città che è sempre più vissuta come forma di consumo, il capitale relazionale che si era costituito per esempio dentro a Macao sta facendo molta fatica a riversarsi in altri spazi. Fare sperimentazione culturale è diventato insostenibile in città. E questa è la situazione in cui allora si lavora sul mercato della cultura, soprattutto qui a Milano. Frequentando tantissimo Torino, posso invece dire che è una città che ha una quantità impressionante di circoli e microcircoli – con un costo della vita molto più basso –, e forse per questo è abituata al fatto che se qualcosa manca ce la si fa da soli.
Parlando di mercato della cultura e di capitale relazionale, viene fuori un’altra questione che interessa i margini oggi: quel che si dice underground. Parola e “scena” forse più presente allora che oggi, spesso legata alla militanza politica negli spazi occupati. Credi che underground – per quanto sia complicato parlarne oggi di fronte a un’indubbia compulsione comunicativa – e orizzonte politico trovino ancora spazio e rete in questi luoghi?
Sono convinto che, tanto per la mia generazione quanto oggi, si arriva all’underground passando attraverso delle esperienze politiche, che significa sostanzialmente interrogarsi sulla gestione del potere. Ma l’elemento coesivo non è necessariamente la comunità politica quanto la comunità estetica. Negli anni passati si andava da una parte o dall’altra perché lì si stava in un determinato modo: al Pergola, al Bulk o a Leoncavallo, quel che connotava lo spazio era il modo di stare assieme. La condivisione di valori c’era, ma fino a un certo punto: sicuramente al Bulk tra tremila persone trovavi anche qualche fascio – che, magari, frequentando quegli ambienti è finito anche a cambiare prospettiva. Ora, oggi non è che questi spazi non ci sono. Pensa al Torchiera – frequentatissimo – o al COX18 che è sempre pieno, pensa ai Pirati… questi spazi esistono, ma sono purtroppo residuali rispetto al panorama cittadino. La tendenza, ormai decennale, è che i luoghi della cultura vengono vissuti come spazi di servizio: si va a fare serata, ad ascoltare musica. Sono posti in cui si può godere del servizio, secondo una differenziazione di target e quindi di scena, ovvero persone con cui stai bene a svolgere delle attività. In questo senso si possono anche trovare diverse tendenze a livello globale. Ci sono città che reagiscono altrimenti, come Roma, Bologna o Torino, dove la dimensione culturale è vissuta con partecipazione. Arrivi e ci metti un pezzo: porti un tuo progetto, manca qualcuno che spilla la birra o qualcuno che gestisce la cassa e ti ci metti tu. Tutto questo a Milano è andato sparendo, e proprio perché è una città votata al servizio e fatta esclusivamente per questo, il cui utente ideale è quello che fruisce e se ne va.
Poniamo un’altra questione, che tocchi alla fine del libro raccontando la storia di CheFare e spiegandone gli obiettivi: quella dell’avvicinamento tra centro urbano e “provincia”, non soltanto nel pendolarismo o nella ricerca di luoghi più a buon mercato, ma nella creazione di luoghi deputati alla progettazione culturale.
Penso che anche qui la questione sia quella della prossimità con dei centri urbani, sommata ai costi di vita e alle persone di cui ci si circonda. È chiaro che per vivere a Milano bisogna permetterselo: bisogna avere una forte rendita o un capitale culturale e sociale importante, e queste caratteristiche fanno sì che molte persone si spostino spesso. Si potrebbe parlare di una città fatta di city user – anche se poi tecnicamente il city user è chi sta una settimana in città –, perché di fatto finisce che ti ritrovi con persone che vanno e vengono piuttosto che con cittadini nel senso più proprio del termine, di chi sta in città, cosa che fa passare ai più la voglia di investire nel posto in cui si sta.
Così che fuori, per esempio a Genova, Biella o Vicenza ma pure Bologna, ci sono altre situazioni. Qui il comune mette a disposizione spazi, politiche di fondazioni bancarie o d’altro tipo che aiutano a pagare gli affitti, e tutto questo permette di creare e trovare teatri collettivi importanti. Prendi per esempio Asti: mai frequentata in vita mia, ci capito poco tempo e trovo tre spazi di questo tipo nel raggio di 500 metri. Due chiese barocche ristrutturate di cui una è teatro – tra l’altro con la direzione di Chiara Bersani – e un circolo Arci che se ce l’avessi dietro casa ci andrei tutte le settimane.
Detto tutto questo, tra comunità, prossimità, nuovi centri di produzione culturale e attivismi, cosa vedi accadere nelle città in Italia? C’è qualche vettore carsico che sta cambiando il modo di vivere e percepire la città?
Credo che ci siamo almeno due livelli. Uno è un punto di vista organizzativo e l’altro un punto di vista tematico. Rispetto al primo, è chiarissimo che ci sono delle tendenze a riorganizzare persone e istanze sociali in nuove forme, dal momento in cui la pandemia ha dato tagli netti a tutta una serie di abitudini ormai depresse. C’è sicuramente tutto un mondo che è quello dei nuovi centri culturali, che sono in tutta Italia, anche se a Milano hanno una forma prevalentemente di mercato – perché devono pagare affitti molto alti, perché sono il risultato faticoso di operazioni finanziarie pazzesche e devono essere tenute in piedi, insomma, le ragioni sono molte.
Per quanto riguarda i temi ce ne sono quattro che sono giganti. Uno sicuramente è l’abitare, per cui mi auguro stia partendo una nuova stagione di mobilitazione dentro alla quale la casa sarà un tassello enorme, ma fuori dai codici estetici e politici degli anni Duemila – che poi sono gli stessi degli anni Settanta, perché in fondo l’affiliazione era quella. La ragione è semplice e condivisa a tutti: la casa oggi è diventata un problema per gente che prima non ci pensava. In secondo luogo la mobilità: un po‘ per i pendolari incazzati e un po‘ perché è veramente difficile andare in biciletta, e anche questo porterà sempre più attriti. Un’altra è ovviamente il lavoro, dove trovi chi dice che gli stipendi sono alti dimenticandosi però che non sono mai proporzionali alla vita in città. Per cui quando esce un articolo che ti dice che gli stipendi a Milano sono i secondi più alti d’Italia, la verità è che non ti dice niente: un conto è la media e un conto la mediana. Qui è pieno di general manager che guadagnano 300mila euro all’anno, ma per ognuno di loro ce ne sono tanti che hanno uno shit job e guadagnano troppo poco per vivere. Queste tre questioni, questi tre temi, sono quelli che potranno fare della città della prossimità una dimensione di conflitto urbano, inteso positivamente – stiamo a vedere che cosa succede. Infine ce n’è una quarta: l’attivismo climatico, ambito che più degli altri fa fatica a prendere piede. Tutti sanno che è un problema, ma il conflitto non ha ancora forme strutturate. Vero, c’è XR, Ultima Generazione, FFF, ma seppur siano punte interessanti devono ancora trovare prese forti sul dibattito pubblico.
Un’ultima domanda tornando alla materia del libro: perché la scelta di raccontare tutto questo partendo da una dimensione biografica?
Un po‘ perché in fondo avevo voglia di farlo, e un po’ perché non sapevo bene come disporre questioni che sono anche abbastanza teoriche senza annoiare troppo le persone. Ma anche perché una delle impressioni più forti che ho è che manchi – per mille motivi – una lettura storica degli ultimi vent’anni vista attraverso lenti simili. Qualcuna ce n’è, ma sono estremamente di nicchia e a volte troppo autoreferenziali. Quando avevo vent’anni, questo stesso tentativo di narrazione fatta sugli anni Settanta mi aveva aiutato molto a capire tutta una serie di cose. Ora, io non ho l’ambizione di fare chissà cosa, ma sicuramente questo è un punto da tenere in considerazione.