Abbiamo incontrato Cerith Wyn Evans alla vigilia dell’apertura dell’imponente mostra …the Illuminating Gas, che fino al 23 febbraio 2020 occuperà gli spazi della navata e del cubo del Pirelli HangarBicocca: un’esperienza fatta di tempo e spazio, all’interno della quale si potrebbe stare per ore e dove l’impatto grandioso delle colonne luminose e dei grandi neon è bilanciato dalla luce naturale in cui ci si trova improvvisamente immersi entrando nell’ultima parte dell’edificio.
Ci si muove tra installazioni sonore e spazi architettonici, a fissare le ombre delle piante in movimento e a cercare di mettere insieme i tantissimi riferimenti: Duchamp e Broodthaers, il teatro nō giapponese e i Throbbing Gristle, vetri di Murano e moschee iraniane.
Tutto questo attraverso processi di montaggio e adattamento diventa forma, riempie lo spazio di luci, suoni, testi e immagini, che partecipano allo stesso modo a una mostra che è anche un grande repertorio di possibili significati ed esperienze.
Attraverso una chiacchierata illuminante abbiamo cercato di portare alla luce la visione di Cerith Wyn Evans sul fare mostre, sulla sua ricerca, sugli archivi e sull’immortalità.
Cerith Wyn Evans: „Dimmi cosa vuoi sentire“.
Vorrei iniziare chiedendoti quando e come è nato il progetto per questa mostra all’HangarBicocca, …the Illuminating Gas
Penso che il progetto abbia un punto di inizio, che è cresciuto gradualmente negli anni mentre il focus sui lavori è diventato una sorta di riflettore che si muove verso la possibilità di fare qualcosa. È iniziato come una discussione proprio qui, tra i curatori, mi hanno posto delle domande e adesso stiamo arrivando al vertice della mostra, abbiamo appena finito di installare gli ultimi pezzi. Richiede anni tutto questo, e intanto ti concentri sempre di più. È una questione che riguarda una zona dove le cose vengono messe a fuoco.
E come hai affrontato invece gli spazi dell’HangarBicocca?
Questi spazi sono davvero singolari. La cosa più notevole è il loro volume, la loro dimensione. Devi in qualche modo affrontare questa situazione gigantesca: parlando in termini generali le persone rimangono delle stesse dimensioni, i loro corpi sono forme similari in spazi differenti, si è trattato quindi di essere sensibili rispetto al concetto di scala, in termini di volumi. Inoltre un’altra questione da considerare quando si lavora su spazi molto grandi è ovviamente quella relativa all’acustica: questo concetto di distanza dello spazio è anche in relazione alla scala in senso acustico.
Il tuo corpo si sente più piccolo in una certa misura e tu sei in grado di vedere più lontano in uno spazio delimitato ma aperto.
Io ho voluto esaminare i parametri per capire se avrei potuto espandere la mia coscienza, la mia percezione, per arrivare ai confini, per incontrare cose che sono molto più lontane rispetto a quanto possano esserlo in una normale concezione dello spazio.
Non sono i volumi che incontri solitamente in un museo…
HangarBicocca è grande anche rispetto agli standard degli spazi espositivi contemporanei, e in un certo senso è evocativo di qualcosa di molto diverso, come i luoghi dove si svolgono concerti che contengono moltissime persone ad esempio, o gli stadi sportivi, e soprattutto una chiesa, una cattedrale.
Ha una grandiosità laica che deriva dal concetto industriale – o post-industriale – di produzione, quindi c’è una sorta di consumo, di produzione, la storia di queste cose… l’idea dei fantasmi delle macchine che erano prodotte qui: c’è un senso di storia con cui bisogna confrontarsi. C’è la necessità di essere così grandi, devi sempre ricordarti che è come se stessi ereditando uno spazio che non era originariamente costruito per questo.
Mi piacerebbe approfondire il concetto di acustica.
Questo tipo di acustica è legata anche al concetto di tempo, contiene la presenza di qualcosa che aveva una funzione differente.
È molto interessante. Su un piano più generale vorrei chiederti qual è il ruolo di un concetto come l’incertezza all’interno del tuo lavoro oggi. Penso sia sempre stato centrale nella tua ricerca.
È una domanda molto interessante, e proprio per questo è difficile rispondere in un modo che non rientri nel concetto stesso di incertezza. Non sono certo di come rispondere a una domanda sull’incertezza, e sono molto serio.
Non sono sicuro quale ruolo abbia l’incertezza, e questo è esattamente il ruolo dell’incertezza.
Questa è la mia risposta incerta.
È una risposta molto consapevole.
Sono un grande ammiratore del lavoro di John Cage e vorrei riportare la sua citazione: “non ho niente da dire e lo sto dicendo”. Fare un discorso per dire che non hai nulla da dire significa esporre il fatto che tu ne sei consapevole, e quindi certezza e incertezza sono sicuramente correlate, hanno un rapporto dialettico tra di loro, sono in qualche modo complementari. È una sorta di concetto Buddista.
Da una prospettiva differente, vorrei chiederti come affronti il progetto, un concetto che è sicuramente legato al modernismo.
È una domanda leggermente strana da pormi, perché non sono sicuro di essere particolarmente legato a un’idea modernista di progetto, e a quello che intendo come progetto del modernismo.
Probabilmente sono cresciuto mettendolo in discussione, e penso che il modo corretto di affrontarlo sia interrogarlo. Ritengo che il progetto interroghi un certo concetto di modernismo, e nello specifico guardi alle criticità del modernismo, al suo essere una costruzione ideologica.
Sono molto interessato anche ai tuoi modelli, ad esempio in questa mostra all’HangarBicocca alcuni tuoi lavori fanno direttamente riferimento a Marcel Duchamp.
In un certo senso sono come catene di riferimenti. Io ho la tendenza ad allinearmi verso alcune affiliazioni, sono attratto da alcune posizioni, oppure da luoghi su una mappa. Cose che ho percepito. Ci sono molti altri riferimenti, ma quello a Marcel Duchamp è consapevole, è come se fosse uno strumento.
E in effetti se parliamo di strumenti, forse si può capire meglio la domanda: Duchamp diventa una sorta di materiale, esattamente come lo diventano la scala, le proporzioni e il tempo lo diventano, oppure il vetro, l’elettricità, il linguaggio. Sono tutti materiali che contribuiscono alla realizzazione di una mostra come qualcosa di simile a un’occasione.
Riguarda molto il tempo. Insomma, potresti altrettanto facilmente e con altrettanta precisione fare riferimento a tante altre persone che si chiamano Marcel: Marcel Proust, oppure Marcel Broodthaers…
Sono importanti le collaborazioni nella tua ricerca?
Una delle cose più interessanti nell’avere degli amici è il fatto che puoi fare delle cose insieme a loro. Le collaborazioni nascono dalla sensazione che puoi estendere i parametri chiedendo ad un’altra persona dei consigli, oppure i suoi sentimenti, rivelazioni rispetto a qualcosa su cui poi si lavorerà insieme. In un certo senso la collaborazione è il primo passo verso un concetto di comunità.
Aprendo un dialogo a volte apri in un qualche modo un terzo spazio: ad esempio la collaborazione tra me e te per questa intervista produce un qualcosa di terzo, che è il dialogo tra di noi. Questo diventa un prodotto, assume una sua identità se vuoi, diventa uno spazio che condividiamo.
Le collaborazioni creano sempre qualcosa che sta nello spazio tra due o più persone, e ogni mostra è una collaborazione: tantissime persone hanno contribuito a quello che potete vedere qui all’HangarBicocca.
È interessante la definizione di collaborazione.
È l’opposto in un certo senso di qualcosa come la meditazione, che è pur sempre una forma di collaborazione ma non con così tante altre persone. L’architettura è collaborazione, la musica è una spettacolare forma di collaborazione così come qualsiasi cosa che viene messa al mondo quando è necessaria una conversazione. Una certa forma di mediazione, di uscita dalla tua voce interiore per portarla in superficie, per trasmetterla nella speranza che qualcuno sia interessato a quello che hai da dire. La collaborazione è alla base di ogni forma di produzione.
Il rapporto tra testo e immagine è centrale nel tuo lavoro. Vorrei parlarne con te, partendo da questa mostra.
Penso si debba guardare alla possibilità di una relazione, in un certo senso. Una relazione che molto spesso è trasversale, che si muove lateralmente – o in maniera simile – con l’implicazione di una direzione, se pensiamo a testo e immagine come correlati tra loro.
Possiamo determinare che in questa relazione prima di tutto i due termini immagine/testo sono definiti diversamente, sebbene un’immagine possa essere un testo e vice versa – che è una cosa molto ovvia da dire -, ma non sono sicuro che prefigurerei una chiara distinzione tra di loro. Piuttosto penso che ci sia una cerniera tra di loro, un po’ come una porta che ha un cardine fissato al muro: in questo modo si possono muovere in relazione.
Poi ci sono relazioni specifiche: ad esempio in un libro di fotografie, e se osserviamo un quadro in una galleria, il testo descrive l’immagine. Oppure in un libro convenzionalmente leggi il testo per avere più informazioni rispetto all’immagine, ad esempio il titolo oppure l’autore.
Ci sono cose che si muovono costantemente tra l’immagine e il testo, e che per me sono interessanti: ho un’attrazione verso la mediazione di queste aree, che sono spazi trasversali tra l’immagine e il testo, costantemente in movimento.
Questo riguarda anche …the Illuminating Gas e i lavori esposti?
Penso che si veda bene nella mostra, ci sono appunto diverse cose in costante movimento, in un processo di cambiamento, di sviluppo, di riassestamento. Quando attraversi lo spazio dell’HangarBicocca non si tratta tanto di riprodurre lo spazio, quanto di riconfigurarlo; sei costantemente in un diversa relazione rispetto al modo in cui sei in grado di percepire lo spazio.
In questo senso, immagine e testo diventano un territorio molto ricco da occupare. Ma sono le fluttuazioni, i trasferimenti di energia tra queste definizioni che trovo maggiormente edificanti, letteralmente illuminanti, per occupare questi spazi. Spazi che ricerco, che evoco, che interrogo ed esamino, e con cui sperimento.
Come artista hai un archivio? E lavori con gli archivi?
Combatto costantemente contro l’archiviazione del mio lavoro.
Archiviare qualcosa corrisponde a sistemarlo, e se si è coinvolti negli archivi – cosa che sospetto di essere a un certo livello – c’è qualcosa di non convenzionale in tutto questo.
L’archivio deve essere vitale, vivo, e quindi soggetto a cambiamenti. Si devono cercare modi attraverso i quali l’archivio possa essere costantemente rinvigorito, perché c’è qualcosa nel concetto di responsabilità con cui mi trovo leggermente a disagio, rispetto a un’idea di storia che neutralizza e fissa le informazioni.
Ho una relazione problematica con questo concetto di archivio simile a un modello scientifico, è come un dogma sospetto. O forse è solo che l’idea di archivio mi fa venire leggermente i brividi.
Ma al tempo stesso mi consola e trovo grande ispirazione passandoci del tempo: diciamo che se l’archivio fosse un tesoro, dei talismani, sarei più a mio agio con la sua presenza. Probabilmente è questa la mia prospettiva più ottimista.
C’è un progetto che non sei mai riuscito a realizzare nella tua carriera?
Si, ce ne sono tantissimi ma non ce n’è uno specifico. È difficile rispondere in modo serio: è una domanda enorme.
Non ho ancora trovato un modo di diventare immortale: questa probabilmente è la risposta più sincera. Ma c’è ancora tempo, spero.
Contenuto pubblicato su ZeroMilano - 2019-11-16