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Come si vive nel co-housing Porto15: intervista ad Alla K

quartiere Porto

Geschrieben von Salvatore Papa il 27 Juli 2020
Aggiornato il 28 Juli 2020

Foto di Rosario Rufolo

Al numero 15 di via del Porto c’è il primo co-housing pubblico d’Italia. Si chiama semplicemente Porto15 ed è stato inaugurato nel 2017 dopo una ristrutturazione dell’edificio da parte di Acer e un bando aperto agli under 35. Una comunità aperta ed eterogenea formata da singoli, coppie, amici e famiglie che si è da subito costituita associazione per promuovere diverse attività.

Alla ci ha raccontato la sua esperienza di „co-houser“.

 

Ciao Alla, ci racconti del progetto Porto 15? Cosa succede lì dentro che non succede in altri appartamenti?

A livello di spazi, abbiamo degli spazi comuni in cui svolgiamo attività talvolta aperte anche agli esterni (corsi di yoga, laboratori di coro, corsi di danza per bambini ecc.). C’è una ciclofficina dove riparare le nostre tantissime bici, una lavanderia attrezzata con una lavatrice e un’asciugatrice industriale, una dispensa alimentare dove riporre e fare le conserve o travasare il vino. Un piccolo gioiello è la nostra falegnameria dove capita di autoprodurre i mobili o piccoli oggetti d’uso comune. Nella cucina comune e nel doppio soggiorno organizziamo le cene e festeggiamo i nostri compleanni, oltre alle assemblee bisettimanali. Sempre lì è stata inaugurata l’anno scorso la biblioteca sui temi della migrazione e del genere “BiblioNoi”.
Abbiamo un salottino polivalente utilizzato come spazio coworking/saletta riunioni, in più una sala per video proiezioni che in occasione di eventi diventa sala giochi per bambine e bambini che vengono con i loro genitori a trovarci. Nell’ampio atrio organizziamo dei concerti o spettacoli teatrali. Ci capita spesso mettere a disposizione i nostri spazi per assemblee o riunioni di vari gruppi/ comitati, avendo la fortuna di disporre degli spazi senza barriere architettoniche.
A livello di buone pratiche, abbiamo una macchina condivisa, che viene utilizzata da diversi nuclei, consentendoci di abbassare l’impatto ambientale del nostro progetto.
Abbiamo un’attrezzoteca che ci permette di utilizzare i piccoli elettrodomestici e altri oggetti messi a disposizione di tutti i cohousers. Organizziamo regolarmente dei momenti di scambio di vestiti e oggetti casalighi e abbiamo, inoltre, allestito un angolo bookcrossing dove lasciare o prendere un libro.
Facciamo un’attiva lotta allo spreco alimentare, quando qualcuno ha degli avanzi o eccessi di cibo, li dona alla comunità o organizza una merenda per consumare tutto insieme.
Siamo infine un punto di distribuzione Arvaia e partecipiamo a diversi GAS.
Tra le esperienze più recenti, l’ascensore, durante il lockdown, è diventato un mezzo per scambiare merce di prima necessità e farmaci, senza dover uscire di casa.

Com’è la composizione degli inquilini?

Il progetto aveva i giovani sotto i 35 anni come il suo target principale. Altri requisiti del bando pubblico sono stati un certo ISEE e la presentazione di una lettera motivazionale a conferma della disponibilità a partecipare a un laboratorio per la costruzione del gruppo dei futuri cohousers. Ad oggi siamo una quarantina tra famiglie, single e coppie, di cui 9 minorenni.

Tu perché hai scelto di vivere in un co-housing?

Perché mi piaceva l’idea di sperimentare un nuovo modello di abitare, di essere all’inizio di qualcosa che potesse fare da modello anche per gli altri. Sono fiera di vivere qui ed essere “coabitante” è una parte importante della mia identità. La seconda motivazione era la possibilità di tornare a vivere nel pieno centro. La zona è molto comoda ai servizi ed è ben collegata, per il mio lavoro e il mio stile di vita è fondamentale. Infine, volevo mettere a frutto le mie competenze e conoscenze in ambito della sostenibilità, sono stata e sono ancora convinta che un’abitazione collaborativa sia un ottimo ambiente per cercare di mettere in atto le pratiche solidali, inclusive e sostenibili.

Raccontaci anche un po’ di te, cosa fai e i motivi per cui vivi a Bologna

La mia prima casa a Bologna è stata nel quartiere Porto, in via Marconi, dove abitava il mio fidanzato di allora. Il destino ha voluto che, dopo 10 anni, io tornassi a vivere qui, a pochi metri da quella casa.
Qualche anno fa sono stata in Svezia per un master e avevo la possibilità di rimanerci dopo lo studio, ma ho preferito tornare nella mia cara Bologna. Attualmente lavoro all’Università di Bologna e mi occupo del trasferimento tecnologico.

Quali i tuoi luoghi preferiti del quartiere?

La Cineteca e le sale cinematografiche in via Lame, soprattutto durante i festival.
La Cremeria San Francesco in piazza San Francesco e la gelateria Galliera 49, soprattutto d’estate.
C’è poi la sede del Gruppo Esperantista Bolognese „Achille Tellini 1912“, in via Avesella 16, che frequentavo qualche anno fa. E la Stazione Centrale: nonostante io non sia pendolare, prendo spesso i treni, anche quelli SFM, in direzione Vignola o San Benedetto Val di Sambro, per raggiungere alcuni punti di ritrovo per fare trekking.

Quali sono i simboli del quartiere secondo te?

Porta Lame: uno dei luoghi in cui mantener viva la memoria di quello che è successo durante la Seconda Guerra Mondiale. Il Mercato Ritrovato nel cortile della Cineteca: il miglior posto dove incrociare le persone che non vedi da tanto, sabato mattina ci trovi mezzo mondo. Il Cassero, senza dubbi uno dei luoghi grazie al quale Bologna ha la fama di una città accogliente. Infine, un simbolo un po‘ personale, è il platano in piazza Minghetti, uno degli alberi monumentali di Bologna che ci ricorda quant’è importante il verde nel contesto urbano. A questo proposito mi piacerebbe che anche i Prati di Caprara diventassero un simbolo del quartiere e della nostra città in generale.