Impossibile non provare simpatia e affetto per la signora Elena Martin Brini, da tanti anni venditrice di cappelli di qualità. Il suo negozio in via Ancona offre la possibilità di immaginare come era la Roma di tanto tempo fa. Quella che, a pochi chilometri, ospitava Mussolini nella sua residenza di Villa Torlonia, ma anche quella del miracolo economico italiano. È conosciuta da tutto il quartiere, anche perché questo quartiere lo ha visto cambiare più volte.
„Io sono l’ultima artigiana rimasta. Ho due medaglie d’oro: una come artigiana e una come negozio.“
Non credo di essere mai entrato in un negozio di cappelli. Mi racconti come è nato.
Consideri che questo è il negozio più antico di via Ancona, mia madre lo ha aperto nel 1936.
Accipicchia.
Questo è un pezzo d’antiquariato, me compresa.
Questo non è vero, guardi che stile che ha!
Questo lo dimostra! Comunque, dicevamo, mia madre aprì il negozio nel 1936 in questa zona. Qui vicino, a Villa Torlonia, c’era la dimora di Mussolini. Questo significa che, oltre a lui, c’era tutta la sua cricca, che come potrà immaginare era piuttosto esigente e facoltosa. Tutti comprarono gli appartamenti qui: era un quartiere di benestanti e qualsiasi cosa costava moltissimo. Il mercato di piazza Alessandria, qui in fondo alla strada, fu il primo mercato coperto di Roma.
Ora invece il quartiere è profondamente cambiato.
Be’, certo, ora è un quartiere impiegatizio. Ci sono molti ministeri e uffici. Questo ha cambiato l’economia e la sua impostazione commerciale della zona. Ora, per esempio, noterà che è pieno di ristoranti e posti per mangiare perché gli impiegati hanno la pausa pranzo. Una volta il sabato era il giorno in cui le famiglie uscivano, anche con i bambini, per fare le compere. Oggi il sabato qui non c’è nessuno perché gli impiegati non lavorano.
Certo, però forse questo non è mai stato un quartiere pieno di gente che gira…
No, non è mai stato un quartiere da struscio, come ad esempio può esserlo via del Corso, dove la gente si muove a flutti e dove è impossibile trovare la strada vuota – forse è successo solo durante il lockdown. In generale, la conversione a quartiere impiegatizio ha cambiato profondamente la conformazione di questa parte di città.
Lei ha vissuto in prima persona questi cambiamenti.
Sì, anche perché non le ho detto che mia madre avviò anche la prima lavanderia a secco di Roma. Fece questo perché ai tempi aprirono moltissime lavanderie e allora lei volle diversificarsi. Aveva questa macchina enorme del lavaggio a secco e, oltre a lei che si occupava del macchinario, c’erano tre stiratrici, due lavandaie, due ragazzine che portavano i vestiti a casa delle persone – può sembrare strano, ma un tempo era un’usanza comune – e poi due lavandaie, perché allora c’era molto cotone: andavano per la maggiore i trench à la Ubaldo Lay e per quelli serviva la fontana con l’acqua per lavarli a mano. Infine, tre stiratrici per chiudere la grande mole di lavoro quotidiano. Avevamo anche il locale qui di fianco al mio e per organizzare ancora meglio il lavoro lo lasciò per la pulizia e la vendita dei cappelli.
Mi parli infatti del suo lavoro. Cosa fa di preciso? E poi, com’è cambiato?
Il mio lavoro è sempre quello. Purtroppo però non lo posso quasi più fare. Non posso quasi più fare un cappello su misura perché nelle mercerie non c’è più la stoffa necessaria. Non c’è più la teletta, non ci sono più i fiori, i cordini, i fiocchetti. Non c’è più niente da modista.
Non esistono più o si trovano con grande rarità?
La modisteria non esiste più, io sono l’ultima. E faccio fatica a trovare tutto ciò che mi serve. Per dire, le piume. Dove trovi le piume oggi? Una volta invece si vendevano. Oppure i fiori di seta. Tutti venivano qui per prendere i cappelli adornati con questi particolari raffinati.
Si ricorda di qualche personaggio o qualche persona bizzarra?
Dice personaggi à la page? Be‘, ne venivano molti. Ma il rapporto con loro era questo: mi ordinavano un cappello, mi dicevano esattamente come lo volevano, io glielo facevo e glielo davo. Fine.
Be', perché lei è una professionista…
Invece gli influencer adesso mi dicono questo: “Sa quanti cappelli venderebbe se pubblicassi una foto su Instagram?”. Purtroppo però non capiscono che io non ho una fabbrica alle mie spalle. Sto fuori da quel giro. Se io avessi una fabbrica alle spalle chiamerei e ne ordinerei una carrettata. Quello lo fanno i grandi magazzini. Io sono artigiana, è diverso.
Secondo lei quando è iniziato il declino dell’artigianato? In che periodo ha cominciato a notare questo cambiamento così radicale? Una ventina di anni?
Sì, una ventina di anni. L’epoca di Berlusconi.
Sì, be’, non è stato un politico tra i più brillanti in effetti.
Ha massificato tutto. Ma c’entrano anche internet, Google e queste cose qua.
Certo, la sfida della globalizzazione, un mercato aperto a ogni cosa, etc.
Il fatto è che su Google uno vede la foto, sceglie il colore e la taglia e poi pretende che il prodotto sia perfetto. Mi chiedo: come si fa a scegliere una cosa così personale semplicemente vedendo una foto? Io non disprezzo affatto chi non compra capi di un certo stile. Però come fai a non toccare con mano la stoffa o a vedere se un capo è dello stesso colore delle scarpe? Non puoi certo capirlo attraverso una foto.
Questo è vero. Quindi prova un po’ di nostalgia?
Non è che provo nostalgia. Io sono l’ultima artigiana rimasta. Ho questo negozio con due medaglie d’oro: una come artigiana e una come negozio. L’artigianato purtroppo è morto. Questo è un peccato. Perché o lo capisci o non lo capisci. Il prefisso di artigianato è “arte”. A volte mi chiedono perché non tramando quello che ho imparato.Ma come posso insegnare un mestiere che non ha futuro? È una specie in via d’estinzione. E io sono qua a mantenere il presidio dell’artigianato. Questo è il mio lusso esistenziale. Sto dieci ore al giorno qua. Ognuno ha i suoi parametri del lusso: c’è chi si riempie di ville, di macchine. Il mio lusso invece è quello di esistere ancora e di stare qui, anche se non mi conviene. E lo pago. Perché il lusso si paga. E io lo pago con le dieci ore che sto qui.