La vita è fatta di tante vite. Fasi diverse che, in qualche modo sempre inaspettato, poi ritornano.
In una di queste vite ho avuto la fortuna di incontrare Fernando. Dico fortuna non perché abbiamo condiviso dei momenti splendidi di dolce e divertente gioventù, ma lo dico perché è da sempre una delle anime umane e professionali più belle che ho conosciuto.
E ogni forma del suo lavoro ne è testimone.
Fernando Cobelo (Venezuela, 1988) è un illustratore magnifico, che ha iniziato questo suo percorso affidandosi a un bisogno, quello di dare forma alle sue emozioni e questo è diventato con il tempo e una grande professionalità, il suo lavoro a 360 gradi.
Il foglio bianco non è più una paura ma uno specchio. Tu sei quello che stai vivendo.
La sua storia inizia lontano…
Sono del Venezuela, nato e cresciuto a Barquisimeto. Ho vissuto un’infanzia felice, non ho grandi lamentele a riguardo ma il Venezuela è molto difficile da un punto di vista sociale, politico e economico. Sono nato in una famiglia bellissima ma il contesto venezuelano ha avuto il suo peso e in qualche modo ho sempre desiderato andare via e conoscere un altro mondo.
Ero il tipico ragazzino che disegnava tutto il tempo: facevo i compiti creativi alla mia sorellina, ridisegnavo tutti i miei cartoni preferiti e poi ci giocavo per ore.
Il disegno è un elemento che è sempre stato presente in me e crescendo non l’ho mai perso, ma è inutile dire che in Venezuela non esiste la carriera da illustratore. In realtà non esisteva neanche in Italia a livello ministeriale, figurati in Venezuela. Quando qualcuno lì ha questa inclinazione “artistico-creativa” viene spinto verso l’architettura, come punto di approdo simile ma con la certezza di trovare un lavoro. E quindi l’ho fatto: mi sono iscritto a Architettura ed è stato bellissimo. Per noi lo studio è molto importante e, anche se non ho fatto l’architetto un solo giorno della mia vita, questa scelta mi ha permesso di entrare in contatto con il Politecnico di Torino. Ho fatto 4 anni lavorando durissimo per entrare nel programma che prevedeva 2 anni a Torino (o Roma). Considera che Torino da noi non è assolutamente conosciuta, quasi non esiste. Quando ho iniziato a cercare su google dove e come fosse, mi usciva la macchina Gran Torino e non la città. Quindi pensavo fosse minuscola ma continuando a fare ricerca ho scoperto che era la città perfetta per me: c’era la neve e non l’avevo mai vista oppure i palazzi barocchi… insomma, avevo deciso che sarei andato lì e in quei quattro anni in Venezuela me la sono goduta guardando al futuro e studiando Torino a memoria, fino al giorno in cui sono venuto a vivere in Italia. Mi ricordo che mentre sorvolavo la città con l’aereo per la prima volta riuscivo a riconoscere tutto, ero ossessionato dal mio sogno. È un momento che non dimenticherò mai: il mito della nuova vita.
Ma comunque neanche in quel momento l’illustrazione era nei paraggi nella mia vita. Non sapevo che esistesse e non sapevo come affrontarla. Mi sono laureato sia in Venezuela che in Italia ma non ho trovato lavoro in ambito architettura e quindi ho iniziato a fare mille cose e ho attraversato un periodo di frustrazione non indifferente perché, questo l’ho capito dopo, non avevo uno sfogo creativo di cui invece avevo tantissimo bisogno. Quindi un giorno ho preso una matita e un foglio di carta e ho fatto una sorta di autoritratto. Ricordo la sensazione: quando sono riuscito a unire emozione e disegno è stato catartico. Ogni volta che disegnavano riuscivo a sfogare e ad andare avanti e a sopportare tutto il resto.
So che ci va una grande quantità di intuito e fiducia per affidare alla propria sensibilità il proprio percorso professionale. Ci racconti come è stato per te? Come è cresciuta questa consapevolezza?
Con il senno di poi credo mi abbia aiutato l’aver studiato architettura: mi ha dato un bagaglio estetico molto forte, oltre che rigore sul piano della progettazione e della disciplina dedicata alla creatività.
Sono quadrato e determinato e man mano che disegnavo, con un grande incoraggiamento da chi era intorno a me, iniziavano ad arrivare le prime commissioni, piccole prove che nel mondo c’era qualcuno che voleva spendere dei soldi per un mio lavoro ed è qualcosa che ti rende felice, è totale. Andando avanti nei mesi e negli anni ho pensato che se avessi dedicato più tempo al disegno sarei stato più felice e avrei avuto qualche commissione in più. E ho deciso di provarci.
Per due o tre anni ho tenuto aperte le due vie, da un lato il lavoro “classico” e dall’altra investendo nel mio, attivandomi molto sui social e contattando art director e agenzie, non solo in Italia ma anche all’estero e sono andato avanti odiando il mio lavoro di giorno e amando quello serale.
Fino a quando non sono arrivato a invertire i ruoli: mi sono licenziato dal vecchio lavoro e mi sono dedicato interamente alla mia professione di illustratore. E in quel momento la qualità del progetto è salita tantissimo, sia a livello tecnico che formale. Quando dedichi tutte le tue energie a qualcosa che ti rende estremamente felice, inizi a migliorare. E tutto tornava a livello professionale.
Ho iniziato provandoci e poi ho alzato le pretese su me stesso, man mano che riuscivo ad ottenere risultati cercavo di rafforzare i miei punti deboli. Una cosa bella dell’illustrazione è la costante evoluzione di questo mestiere, c’è sempre da imparare e scoprire con un’infinità di opzioni. L’azione sembra la stessa ma il contenuto mai. Devo fare ricerca, devo tenermi aggiornato, metto in pratica l’empatia. Faccio cose che sposano anche la mia personalità. E non alimentano la noia.
I soggetti delle tue illustrazioni sono molto sinceri con sé stessi e questo li rende fortemente comunicativi. Come riesci a mantenere viva questa capacità?
Quei primi disegnino che facevo non erano illustrazioni ma solo disegni. Erano molto autentici perché erano fatti da me per me. Non erano fatti per nessun altro e non avevano pretese. Provavo a disegnare quello che provavo durante la giornata o se coglievo un’emozione autentica. Quando ho iniziato a mostrare queste illustrazioni, ho capito che non ero l’unico a sentirsi così ma in molti si sono sentiti rappresentati da quelle linee. E credo che la chiave fosse la capacità di tradurre quello che sentivo. Quei disegni erano me e parlavano di me, mentre oggi mi trovo anche a raccontare dell’altro, devo usare la mia empatia per mettermi nei panni di qualcuno fuori da me e creare immagini che lo rappresenti, che racconti la loro situazione. Ad esempio devo illustrare fasi del lavoro, scelte, situazioni di migrazione. Cose vicine a me ma anche cose molto lontane da me. L’empatia che devo sempre mettere in pratica è uno degli strumenti più potenti e al tempo stesso una responsabilità.
Io a livello concettuale cerco sempre di usare metafore visive, usare elementi concettuali più che simboli letterali. Creo scene surreali e questo fa parte di me e della mia personalità e non potrei scindere le due cose nei miei disegni. Queste cose ovviamente le so adesso perché sono anni che lo faccio ma al tempo non lo vedevo ma intuivo che era qualcosa da abbracciare.
In che modo hai modellato la tua vita? Cosa ti spira e nutre?
L’architettura in primis, design anni 60, dal modernismo in poi ha avuto un sacco di influenza sulla mia estetica. Mio nonno e mio padre facevano decorazioni in gesso, anche se sono ingeneri, avevano un lato artistico. Il loro atelier era un luogo che davo per scontato, ero abituato e sicuramente mi ha nutrito. Ho un cugino/fratello che fa il fotografo e che ha una capacità di comunicazione visiva e professionalità che mi ha ispirato tantissimo. Era un esempio. La letteratura mi ha segnato molto, in sud Americana siamo molto folcloristici e ci nutriamo di un immaginario altro, come il realismo magico, dove gli oggetti fantastici diventano normali e questo aggiunge una certa poetica alla narrazione. Molto sottile e ricercata.
Come sei riuscito a far coincidere la tua passione e la tua professione? Quali compromessi ha comportato?
Paura a mille, quello senza dubbio. Però mi sono preparato molto. Ero emotivamente pronto ma non lo ero a livello pratico. Anche se avrei voluto licenziarmi anni prima non ho potuto perché non avrei saputo mantenermi. Quindi ho dovuto aspettare che le cose sul piano delle mie illustrazioni salisse, altrimenti tutto il tempo di questo nuovo lavoro sarebbe stato macchiato dal panico di non potermi mantenere e quindi le ansie. Ho dovuto essere molto strategico, molto attento a tutto ed è stato faticoso, ha richiesto molta pazienza e intelligenza. Il panico schiaccia i sogni: è giusto seguire il cuore ma con un cuscino di serenità.
Ci racconti alcuni dei tuoi progetti preferiti?
Il mio preferito in assoluto è stato un libro che ho pubblicato l’anno scorso che si chiama Sono qui, fatto in qualche modo per il mio primo decennio in Italia. Sapevo che volevo creare qualcosa ma non sapevo cosa. Una stampa o un’illustrazione. E ho scelto per un libro, giusto per complicarmi un po’ la vita. Il libro è interamente autoprodotto e accoglie storie di altri: storie di immigrati che hanno subito gesti di gentilezza arrivando in Italia. Contiene dieci storie di dieci persone che arrivano da tutto il mondo che ci raccontano quanto sa essere accogliente questo paese. La posizione politica è vergognosa, alimenta e diffonde solo situazioni negative, quindi ho cercato di rappresentare la mia esperienza che è stata bellissima. Non voglio ignorare le cose negative ma onorare quelle positive con storie brevi ma molto belle. È un libro che rappresenta molto bene me, anche se non ci sono in prima persona.
Lo abbiamo stampato in risograph e serigrafia, tecniche che hanno delle note molto artigianali e calde. Realizzarlo è stato molto divertente.
So che tieni corsi e laboratori che in qualche modo indagano il legame tra illustrazione e sensibilità. In che modo lavori con chi partecipa? Senza spoilerare troppo perché a breve avrai anche una tua room su Zero+ e vogliamo tenere la sorpresa!
A livello didattico mi è sempre piaciuto parlare davanti agli studenti e lo facevo già in Venezuela, come assistente di un professore e mi è sempre rimasto il pallino. Tra i lavori che ho fatto c’è anche stata la fase in una scuola di design dove, parlando tante lingue e conoscendo il design, mi mandavano a fare seminari e talk in giro per il mondo. È stato molto stimolante e ho potuto capire che trasmettere idee agli studenti mi appassionava.
Passo da scuole universitarie ma anche workshop con bambini: mi piace che si crei un ambiente molto sicuro dove nessuno si deve sentire giudicato. Cresciamo con un sacco di complessi sul disegno e ci vergogniamo, ma invece esistono tante tecniche e modi di raccontare e stili diversi e bellissimi. C’è uno spazio per tutti perché l’illustrazione è una professione in cui più autentico sei, più valore hai. Siamo pagati per essere noi stessi, dobbiamo abbracciare il modo in cui disegniamo e portarlo avanti. Chi sa disegnare oggi non ha avuto un dono dagli dei, ma ha avuto la curiosità, la costanza e l’interesse di approfondire un’inclinazione. Il disegno è una tecnica e in ogni caso va coltivata. Non esiste che qualcuno fa schifo a disegnare, semplicemente non si è al livello a cui si aspira. Bisogna avere pazienza, essere decisi ma clementi, bisogna migliorarsi ed è un po’ in salita, ma una volta assimilato è molto belle vedere come adulti e bambini mostrano i loro lavori con una certa fierezza e orgoglio.
Nei miei workshop per adulti ho studenti molto diversi e le esperienze vissute da ciascuno sono centrali. Il foglio bianco non è più una paura ma uno specchio. Tu sei quello che stai vivendo. Escono elaborati autentici, non importa il bello ma il riuscire a comunicare in modo chiaro dei concetti e l’empatia è alla base di tutto questo, dove la tecnica non è il centro ma il metodo è fondamentale.