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Fosbury Architecture

I curatori del Padiglione Italia alla Biennale d'Architettura di Venezia raccontano degli orizzonti tematici che muovono l'esposizione: tra territori, luoghi, spazialismi e spazialisti e altre frontiere riflessive sull'architettura

Geschrieben von Francesco Agostini il 17 Mai 2023
Aggiornato il 30 Mai 2023

Foto di Giacomo Bianco

Quest’anno, alla 18° Biennale di Venezia, il Padiglione Italia cita il Mondo Nuovo di Aldous Huxley: Ognuno appartiene a tutti gli altri. Lo hanno voluto quattro giovani architetti milanesi, che raccolti in Fosbury Architecture si sono occupati del progetto curatoriale raccogliendo a loro volta intorno a loro altri nove gruppi di practitioner sotto il nome di “Spazialisti”.

Tra pragmatismo ed emozione, Nicola Campri e Claudia Mainardi, membri del collettivo, ci raccontano com’è cambiato lo spazio in cui viviamo e quali sono i territori dell’Antropocene. Ci spiegano come lo hanno affrontato nell’esperienza del Padiglione: con nuovi approcci, nuovi orizzonti, ma sempre tutti insieme.

«Quello che cerchiamo sono degli anticorpi alla disillusione, per ridare significato a luoghi che a volte sono del tutto o in parte dimenticati.»

 

Voi, come Fosbury, vi siete conosciuti negli anni dell’università, tra nottate e fanzine. Quando vi siete accorti che intorno a voi c’erano altri attori, altri ragazzi della vostra generazione, che con la medesima determinazione indagavano la disciplina in nuovi territori?

CM: È una condizione che da sempre, dagli anni dell’università, ha plasmato il nostro modo di operare. Siamo tutti più o meno degli anni Ottanta; quindi, quando ci siamo laureati ci trovavamo nel pieno della crisi economica del 2008 ed era pressoché impossibile, come studio giovane, riuscire a mettere in pratica quello che negli anni precedenti si era imparato.
Una condizione, quindi, che non riguardava solo noi, ma anche i nostri coetanei, tutta la nostra generazione. All’interno di questo fenomeno, ciò che contraddistingue l’Italia rispetto ad altri paesi è la formazione di gruppi abbastanza ampi, di collettivi con chiare radici storiche. Tra di noi c’è chi si definisce un’agenzia e chi un atelier, non siamo fissati a un’idea di collettivo ma piuttosto a un modo di praticare insieme che forse non era l’unico, ma è quello che siamo stati obbligati a imparare. Poi ci si è trovati tra colleghi a condividere una condizione comune, certamente più forte in passato, ma diffusa anche oggi, nonostante siano passati più di dieci anni.

 

Noto una somiglianza, dalla forma del collettivo all’approccio al mondo di oggi, con quel gruppo di studenti fiorentini che negli anni Settanta esplose nel movimento Radical. Voi “Spazialisti” vi sentite un movimento?

NC: L’attinenza c’è e non c’è. Siamo appassionati del movimento Radical più personalmente che come collettivo, anche se abbiamo avuto dei punti di tangenza. Si può dire che il tipo di fenomeno che si sta sviluppando, questo “movimento” – se così possiamo chiamarlo, perché riteniamo sia ancora in parte inconscio – sia in realtà differente da quello del gruppo Radical. Forse il punto di attinenza maggiore lo troviamo nell’esperienza dei Global Tools, l’esperienza di design che più che un movimento fu un programma multidisciplinare, quasi educativo, che metteva studenti e professori sullo stesso piano.
Tutto questo accadeva all’uscita della crisi negli anni Settanta, seguita subito da un periodo di rimbalzo economico, cosa che nel 2008 non è accaduta. Ragion per cui questa pratica di collettivi, che in altri paesi europei ha avuto un boom e poi si è storicizzata, in Italia risulta più longeva che altrove.
Quindi sì: molti punti di attinenza, ma diverso il contesto. Il punto di partenza è il fatto di organizzarsi come pluralità piuttosto che come singolarità. Vediamo che i temi che emergono e anche le risposte metodologiche, nonché a volte formali, cominciano ad avere una certa assonanza, ma diciamo che uno degli obiettivi più o meno consci del padiglione Italia è anche quello di riconoscersi, di analizzarsi, per capire quali sono i punti di incontro e se effettivamente si può parlare o no di movimento. È questo l’obiettivo, che non riguarda però la prima fase dell’esposizione, in cui abbiamo attivato nove progetti sul territorio italiano lasciando a ogni gruppo la libertà di esprimere il proprio metodo, ma la mostra all’interno del Padiglione Italia: una sintesi formale, astratta e corale di tutto ciò che è stato fatto prima.

 

Mi ha colpito l’immagine che avete mostrato alla conferenza di presentazione: il "Mondo novo" di Tiepolo a Ca’ Rezzonico. In un’epoca come la nostra, che molti definiscono Antropocene, in cui l’uomo influisce drasticamente sui sistemi globali, forse il mondo nuovo non è nascosto dalla calca inquieta, non si trova dietro alle persone. Ma non è forse, oggi, la stessa calca e il suo sistema di relazioni, esplose in infiniti livelli di comunicazione, a definire il nuovo orizzonte del futuro?

CM: Condivido questa osservazione. Il quadro del Tiepolo ci sembrava veramente perfetto per descrivere questa condizione attuale. Anche per far capire come in realtà la storia è una ciclicità che si ripete ma sempre in modo diverso, similare. L’obiettivo è quello di creare una sorta di coesistenza, di equilibrio tra le parti, che non per forza prevede l’esclusione. Noi non siamo contro un’architettura che costruisce, ma per un’idea dove la costruzione non è il fine ultimo dell’architettura. Per noi è il risultato di un’indagine sulle relazioni alla base: capire come si costruisce, quali sono le condizioni e se è realmente necessario farlo.

 

NC: Hai parlato di Antropocene. È chiaro che uno dei punti salienti della nostra riflessione è la presa di consapevolezza che l’architettura non possa più vendersi come risolutrice di problemi, ma che debba mettersi tra i problemi, riconoscersi come parte integrante dell’impatto che la nostra industria ha a livello globale. Quindi il nostro invito è quello di concentrarsi su una dimensione che noi chiamiamo spaziale, dove lo spazio viene inteso come un campo espanso in cui il practitioner si trova a operare in un tessuto di relazioni tra persone e luoghi, le stesse persone e luoghi del quadro di Tiepolo.

 

Le sperimentazioni che Spaziale presenta in questo nuovo Grand Tour italiano, in territori limite tra esibizioni, performance e allestimenti, sono accomunate dal fatto che non si è tentato di definire nuovi spazi, quanto nuovi approcci, nuove pratiche per abitare quelli esistenti. Tutto ciò ha molto a che fare con il tempo. Avete sbagliato nome, o è l’idea di spazio che oggi è cambiata?

NC: In realtà il tempo è uno dei temi più importanti del nostro padiglione. Vogliamo riflettere su un orizzonte temporale passato che si trova esteso sulla memoria locale, e allo stesso tempo trovare il modo di oltrepassare quella stessa memoria – che a volte ha sedimentato pregiudizi e visioni su quegli stessi territori nei loro orizzonti futuri. Quello che cerchiamo sono degli anticorpi alla disillusione, per ridare significato a luoghi che a volte sono del tutto o in parte dimenticati. Il tema del progetto, quindi, esce dal frame della mostra ed espande l’orizzonte temporale oltre i sei mesi di esibizione, dove spesso ci si concentra più su ciò che succede in uno specifico spazio e in uno specifico tempo. È una visione più a lungo termine, di ottimismo e anche di rispetto per i luoghi dove interveniamo.

 

Penso all’intervento sulla transizione alimentare a Cabras, in Sardegna, o a quello di Belmonte Calabro, che indaga il divario digitale. Per quale motivo si è resa necessaria questa nuova prospettiva, che travalica i confini della disciplina architettonica? Perché avete chiamato anche esperti in altri campi? È mancata l’aderenza tra lo spazio fisico materiale e un territorio politico decisionale?

CM: La volontà di far lavorare i gruppi di architetti con figure che non appartengono allo stesso ambito disciplinare, ma che proprio per questo potessero arricchirlo, deriva proprio dal fatto che oggi, dato il contesto in cui viviamo, ognuno appartiene a tutti gli altri. L’architetto non può operare da solo, deve ridimensionarsi. Non può cambiare da solo il destino della terra. L’architettura, per come la intendiamo noi, è un’agenzia: un progetto collettivo in cui le varie figure sono chiamate a competere, dall’esperto di alimentazione alla scrittrice.

 

NC: Ci rendiamo conto che l’unico modo di definire certi fenomeni è quello di “sfide impossibili”. Se il divario digitale, la transizione ecologica e la neutralità carbonica sono temi che affrontati su scala globale fanno tremare i polsi, è anche vero che se affrontati in maniera verticale, in un contesto specifico, possono far scaturire delle idee, avere delle tangibili ripercussioni. Hai citato Belmonte Calabro: non ci aspettiamo di risolvere il divario digitale con il nostro progetto, ma ci interessava riflettere su come ricucire le infrastrutture nel territorio delle aree interne, un tema che dovrebbe essere sull’agenda in primis dello Stato, ma anche degli stessi progettisti. Siamo alla ricerca di strumenti che operano dal basso, che capovolgono il modello top-down delle smart city cercando delle forme di tecnologia facilmente ri-programmabili, a misura d’uomo, che incentivano l’esplorazione di luoghi spesso abbandonati e dimenticati e proprio come succede a Belmonte Calabro.

 

Anche qui la questione è quella dello spazio.

CM: Perché la questione dello spazio è centrale. Può sembrare apparentemente una contraddizione, ma non lo è. Se ci si pensa bene, una mostra di architettura, a differenza dell’arte, è generalmente una riproduzione fatta di modellini e fotografie. In realtà, in questo caso, agendo direttamente sui luoghi, ancorché in scala minore, abbiamo fatto dei veri interventi al di fuori della Biennale che avranno anche un lascito nel tempo. Un esempio è il caso di Trieste, dove all’interno di una grotta, con un’installazione di per sé effimera perché lavora coi suoni e con la luce, ha permesso una infrastrutturazione permanente per la comunità di speleologi che ci lavora.

 

I rapporti scalari che legano il mondo si rendono espliciti nelle installazioni site-specific, che in maniera verticale attivano dei processi orizzontali su un territorio più ampio, sviluppandosi nel tempo. È questo, dunque, il modo in cui lo spazio fisico riottiene rilevanza? Agendo contemporaneamente su diverse scale nei tempi lunghi?

CM: È proprio alla base del nostro progetto reagire molto localmente. I luoghi scelti non sono le metropoli, ma paesi come Ripa Teatina. Sono realtà fragili, talvolta ai margini, ma lavorando con le comunità dal basso e con le persone, queste azioni piccole con la loro piccola storia possono esercitare un grande impatto.

 

NC: È fondamentale che questo tipo di rivoluzione parta dall’università. Spesso in Italia c’è uno scollamento tra quello che si progetta tra gli anni di studi e quello che poi sarà il lavoro concreto. Occorre ricucire questo strappo con buone pratiche di insegnamento. Crediamo sia assolutamente centrale anche per ricalibrare il ruolo di un giovane architetto contemporaneo in un tessuto quasi del tutto costruito, con una densità abitativa emergenziale in molti casi e con condizioni di critico spopolamento in altri.

 

Anche all’estero, come la curatrice di quest’anno propone, è ormai chiara la necessità per l’architettura di infiltrarsi in campi che storicamente non le appartengono, ricucendo territori, uomo e natura con nuove soluzioni sistemiche e infrastrutturali. A tal proposito penso che il gruppo di architetti italiani che avete raccolto al Padiglione Italia abbia una caratteristica molto importante che lo contraddistingue: il tema del simbolico, dell’immaginario, del rituale. Dal canto delle sirene della baia di Ieranto fino ai tetti di Taranto. Perché il rito oggi è così importante?

NC: Cito chi ha coniato il termine inglese critical spatial practices: queste pratiche si muovono tra pragmatismo ed emozione. Crediamo che la componente emozionale all’interno del progetto architettonico non vada trascurata, perché è l’effettivo collante tra il progetto sullo spazio e la comunità. Se c’è un campo di intesa, il punto di incontro è proprio questo. Dapprima occorre alterare il significato funzionale dei luoghi, ma poi è necessario anche uno scarto percettivo, e soltanto tramite una componente celebrativa, ritualistica ed emozionale questo è possibile.

 

Come sottotitolo del Padiglione Italia avete deciso di citare Il mondo nuovo di Aldous Huxley: “Ognuno appartiene a tutti gli altri”. Ma alla fine il filosofo inglese disse anche: “Volevo cambiare il mondo. Ma ho scoperto che la sola cosa che si può essere sicuri di cambiare è se stessi”. Come si fa allora, secondo i Fosbury, a convincere gli altri, abitanti del mondo, a prendersi cura e continuare queste pratiche?

NC: Sono convinto che la rivoluzione parta sempre da casa propria. Credo che il vero progetto di uno studio di architettura sia il progetto dello studio di architettura stesso: capire come organizzare una collettività ristretta di cinque professionisti è parte integrante del modello che vuoi trasmettere e proiettare sul mondo. Si parte dalla progettazione del sé, della propria pratica.

 

CM: Oggi più che mai mi verrebbe da dire che lo sguardo etico sul modo in cui si pratica debba necessariamente partire proprio dal singolo. Chi fa il mestiere dell’architetto deve considerare il proprio impatto in un orizzonte ampio, andare oltre un’idea di studio legata solo a un’idea di stile. Deve avere salde radici, non dico politiche, ma coscienziose della propria agenzia, su ciò che ci circonda, su ciò che avviene domani, su ciò che è necessario e ciò che non lo è.

 

Quindi cosa ci aspetta nel Padiglione Italia?

CM: Questo ancora non si può dire, ma quello che per noi è importante è che il padiglione non sia solo ciò che si vede a Venezia, e che Venezia stessa sia un po‘ una festa per celebrare quello che è stato, quello che sarà e per raccogliere insieme ciò che fino a oggi si è portato avanti separatamente.
Quando accadrà, per la prima volta, vedremo tutto in modo corale.

 

Un po' un rito, insomma.

CM: Un rito anche quello, sì, possiamo chiudere così.