Francesca Colombo vive a Milano con il suo pianoforte, è una pianista non professionista, ha un percorso da ingegnere ma si occupa da sempre di cultura e della sua gestione. Ha lavorato per molti anni al Teatro alla Scala, è co-fondatrice e direttrice generale del Festival MITO, ed è stata la più giovane Sovrintendente in Italia al Maggio Musicale Fiorentino. Crede nella cultura politecnica, nei giovani, nel fare rete, nella multietnicità, nell’avere il coraggio di dare alla cultura un ruolo chiave nel dibattito che pensa al futuro, che guarda con fiducia. In un caldo pomeriggio di luglio abbiamo fatto una lunga chiacchierata sulla sua formazione e carriera, per arrivare infine a parlare di BAM e del fondamentale supporto di un’azienda come Volvo alla sua programmazione culturale.
Ho pensato quindi alla natura, al creare un habitat, a un viaggio artistico in ambienti reali e astratti, negli spazi metafisici.
Ho letto che ti definiscono ingegnere della cultura. Ti piace? Mi racconti dove nasce?
Mi chiamano così e mi piace molto! Il managing culturale è un mestiere di cui si parla molto oggi, ma io ricordo di aver davvero sofferto quando studiavo. Innanzitutto, io ho cinquant’anni e mi sono laureata nel 1996, quindi tanti anni fa. Ho due lauree che sembrano molto distanti tra di loro ma in realtà non lo sono, una in ingegneria gestionale al Politecnico e l’altra in pianoforte al Conservatorio Verdi. Quando mi sono accorta che non sarei diventata una pianista di fama internazionale, ho pensato di sviluppare questa mia passione in un’altra professione: volevo in qualche modo conciliare il mio amore per la musica, e per l’arte in generale, con lo studio di ingegneria. Detto questo il pianoforte è il mio migliore amico, è sempre con me, però non mi definirei una pianista. Quindi “ingegnere della cultura” nasce dalla volontà di unire queste due vocazioni, ma non è stato facile! Tornando al 1996, quando mi dovevo laureare al Politecnico, parlare di management culturale non era comune e l’unica persona che mi ha ascoltata, capita e aiutata è stato il professor Adriano De Maio. Quando gli parlai di questa idea una tesi di management culturale, lui, grande amante della musica, mi disse che era una bellissima idea, ma non sarebbe stato facile. Io in effetti avevo già preso quattro “no” da altrettanti professori. Nessuno voleva affrontare un tema che a me sta a cuore da sempre, e che poi ho avuto la fortuna di poter portare avanti nella mia carriera, occupandomi di cultura da un punto di vista manageriale.
Leggevo che sei impegnata in programmi di insegnamento. Cosa insegni?
Si, mi invitano spesso, in virtù della mia carriera. Ho avuto la fortuna di essere da sempre una grande lavoratrice, impegnata su progetti diversificati che mi hanno dato una visione ampia del management culturale, grazie a ruoli di direzione di istituzioni, di creazione di start-up e di consigliera di amministrazione come alla Pinacoteca di Brera. Ho lavorato con istituzioni già solide con una storia famosa e un’identità forte, per aiutarle a fare dei passi nell’inserimento di piccole dosi di managerialità, di contenuti culturali, di comunicazione, di creazione di una community intorno. Parallelamente ho collaborato con singoli imprenditori, come al MAST di Bologna, per avviare la loro personale realtà no profit. Noi italiani siamo veramente molto bravi quando ci mettiamo a fare le cose, raggiungiamo vette di qualità altissime!
Tornando all’insegnamento, come strutturi le tue lezioni?
Quando entro in università so che è un modo per raccontare le cose che abbiamo fatto, ma allo stesso tempo per sentire un po’ come va il mondo, capire cosa vogliono i giovani d’oggi, cosa pensano. Io faccio lezione ma gli studenti mi danno sempre molto, si crea un bel dialogo.
Hai menzionato molte città ma sei cresciuta a Milano?
Io sono lecchese, nata e cresciuta a Lecco sul lago di Como. Frequentavo Milano per il Conservatorio, ho fatto avanti e indietro per tanti anni, poi al liceo i miei genitori hanno pensato di iscrivermi al Collegio delle Fanciulle, proprio di fronte, per evitarmi la perdita di tempo del pendolarismo. E da allora sono sempre rimasta a Milano, quindi sicuramente milanese d’adozione ma lecchese d’origine e di spirito, un po’ montanara. Poi ho trascorso alcuni anni a Firenze, a Bologna, grazie alla nomina di Young Global Leader del World Economic Forum ho potuto arricchire le mie competenze professionali e costruirmi un network di livello internazionale. Ho girato molto e ho sempre viaggiato con il mio pianoforte e i miei animali.
Che animali hai?
Un bracco tedesco che si chiama Macbeth perché condivide la città natale con Giuseppe Verdi (e quello precedente si chiamava Falstaff) e una micina trovatella rossa, Meiji-meiji, con questo nome giapponese del regno illuminato.
Arrivando a BAM, leggevo che sei stata chiamata proprio per pensarlo, in un certo senso, e poi sviluppare tutto il progetto.
Sì, esatto, quando sono arrivata c’era la Biblioteca degli Alberi e con la Fondazione Riccardo Catella abbiamo creato BAM, a partire dal nome stesso, che mi sembrava più pop, incisivo. Era una bellissima sfida, tutto da inventare ma a partire dal grande punto di forza della rigenerazione urbana fatta in Porta Nuova, con i grattacieli e il bosco verticale. Ecco, sul fronte della start up BAM sono stata molto fortunata perché abbiamo avuto tanta libertà nel creare un’identità, per cui il logo, il nome BAM, il colore, tutta l’immagine grafica. Poi siamo passati a creare e articolare i contenuti ascoltando l’identità del luogo. Abbiamo studiato molto e la complessità di questo progetto, per cui è la prima volta in Italia che si fa una partnership tra pubblico e privato per la gestione di un parco, ci ha dato modo di approfondire che forma dargli.
Che struttura ha BAM da un punto di vista di fundraising?
Il business model, che forse è stata la parte più difficile da pensare, volevamo fosse sostenibile, quindi dovevamo stare attenti a quanta potenza avevano i budget, quanto si doveva spendere sulle responsabilità della manutenzione, pulizia e sicurezza del parco. I cittadini possono anche ignorare il nostro programma culturale, ma si godono la bellezza del parco. Quindi mettere insieme tutti questi tasselli non è stato facile e forse la parte più lungimirante è stata sottoscrivere un accordo con il comune di Milano, la Fondazione Riccardo Catella e COIMA che mettesse insieme tutti questi aspetti regolando i rapporti tra le parti. Per gestire questa complessità di mettere insieme tanti aspetti, comunicazione, marketing, fundraising e business, ringrazio sempre la mia formazione politecnica.
A proposito della tensione alla contemporaneità, ci racconti il progetto Visioni Diacroniche, dedicato ad un’arte contemporanea che lavora strizzando l’occhio al futuro.
L’anno scorso Chiara Angeli [Direttrice Sales & Marketing Volvo Car Italia, ndr], con la quale lavoriamo da anni, mi ha chiesto di pensare ad un progetto dedicato nello specifico all’arte contemporanea, con un brief molto chiaro: il tema era la sicurezza come ambiente creativo. Per me si è aperto un modo, ho dovuto pensarci tanto. Mi occupo molto di contemporaneità, più performativa che digitale o artistica in senso di arti visive, anche se alcune installazioni le avevo curate anche per BAM. Ho pensato quindi alla natura, al creare un habitat, a un viaggio artistico in ambienti reali e astratti, negli spazi metafisici. Mentre scrivevo una bozza, in cui trasferivo la commissione di Volvo in un’idea, ho capito che avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse a scegliere gli artisti e così ho chiamato una professionista che stimo e che è un’amica, Ilaria Bonacossa. Abbiamo ampliato la riflessione all’habitat, la sicurezza e l’ambiente, arrivando a mettere insieme le sue e le mie competenze. Così abbiamo portato a Volvo la nostra proposta sugli artisti, con un press office che ci potesse supportare sulla comunicazione. Il team di BAM ha seguito tutta la produzione, la contrattualistica, la logistica, eccetera.
Quindi è l’ultimo capitolo di una storia virtuosa. Ma com’è nata la collaborazione con Volvo Studio Milano?
Volvo è il nostro Park Ambassador. Quando BAM è stato presentato, ed era ancora solo sulla carta, Volvo, attraverso Chiara Angeli, ha risposto con entusiasmo commovente, esemplare. Parliamo tanto di comunità, di benessere, ma servono le risorse per portare avanti questi progetti: noi sappiamo fare il nostro mestiere ma sono preziose le aziende che ci sostengono. Con Volvo abbiamo quindi un rapporto privilegiato perché è da sempre dalla nostra parte, investe su quello che facciamo durante l’anno. Chiara è molto visionaria!
Che tipo di opportunità nascono dalla cooperazione tra BAM e Fondazione Riccardo Catella e un marchio automobilistico come Volvo?
Siamo molto vicini ad alcuni valori. Spesse volte la creatività e la sintonia con un partner nascono proprio dalla condivisione di valori di base come la sostenibilità, la sicurezza dell’ambiente in cui viviamo, l’attenzione alle persone e ai loro desideri ed esigenze, che Volvo traduce in oggetti e servizi, e noi in esperienze performative ed emozioni.
Ti saluto con una domanda che in questo periodo faccio sempre: che rapporto hai con Milano? Come la vedi e la vivi nel 2023?
Io sono molto riconoscente a Milano, mi ha accolta, mi ha insegnato moltissimo, è una città in cui vivo bene. L’ho lasciata per un po’ di anni, ma dal 2018 sono tornata a casa con piacere, sono orgogliosa di appartenervi come cittadina. Dal mio punto di vista, e non parlo del tema urbanistico, trovo che a Milano ci sia un humus di realtà creative e sperimentali meravigliose, che andrebbero maggiormente valorizzate e messe in rete. Il business, la moda, il design non devono esaurirla, Milano ha un patrimonio culturale straordinario, come abbiamo dimostrato in diverse occasioni, deve solo crederci fino in fondo, veramente! mettendoci più risorse economiche, ed aprendo dialoghi costruttivi tra assessori, sindaco, istituzioni pubbliche e private, operatori, eccetera. Nel cuore del dibattito sul futuro di questa città ci dev’essere anche la cultura, con un ruolo importante. Mi piacerebbe vedere una città che non si dimentichi, inoltre, di essere italiana, di relazionarsi con il resto della penisola, e allo stesso tempo aperta al mondo e alla multiculturalità.