Parlavo recentemente con dei colleghi londinesi, scambiando impressioni e aneddoti sulle vicissitudini culturali delle rispettive città. Se si manca da Londra per più di sei mesi, è probabile che al ritorno siano scomparsi tanti punti di riferimento: tutto cambia velocemente, senza pietà o apparenti rimorsi. Spiegavo loro come invece Roma sia apparentemente immutabile, fin dal tempo in cui i leoni pasteggiavano a Cristiani dentro al Colosseo. Roma continua a espandersi, piuttosto che cancellare e ricostruire. Una macchia d’olio urbanistico inarrestabile, che mangia la provincia e mette sotto una teca di vetro opaco il „centro“.
Questa tensione tra forze opposte, è da sempre sfidata e presa in giro dalla musica creativa: quella che fa capo al jazz, all’improvvisazione, alla sperimentazione. I musicisti di Roma per lo più abitano le periferie ma ogni tanto fanno incursioni al centro come banditi armati di strumenti. Soprattutto creano poli culturali che spostano l’asse gravitazionale, creando centri alternativi: non il posto in cui mangiare la carbonara e bere lo spritz, ma quello in cui si nutrono timpani e cervello.
Giacomo Ancillotto è uno dei più solerti banditi sonici di Roma. Attivo discograficamente dal 2010, vanta una quantità impressionante di esperienze e collaborazioni. A partire dai suoi Luz, in giro per tutta Europa per anni, ai Sudoku Killer, fino alla registrazione di „Tribe“, il disco di Enrico Rava per ECM. In mezzo anche la fondazione del collettivo di improvvisazione Franco Ferguson & Improring promotore di eventi, rassegne e dischi autoprodotti per più di un decennio, un collettivo che ha coinvolto i più importanti nomi della scena improvvisativa e jazzistica italiana e non. Più recentemente le fruttuose collaborazioni nei progetti di Simone Alessandrini e Maria Pia De Vito e ora finalmente un disco tutto a suo nome.
„Descansate Niño” è un album in trio (con Alessandra D’Alessandro e Marco Zenini) compendio dei mondi di Ancillotto: c’è il jazz, l’improvvisazione, l’attitudine punk e gli accenni d’elettronica, così come l’omaggio alla grande canzone italiana. Esce per l’ottima FOLDEROL, che dal 2018 mappa la scena musica sperimentale di Roma. Per navigare nella macchia d’olio urbanistico di Roma, nel disco e in tanto altro, sono andato a scomodare direttamente Giacomo.
Partiamo dal nome della prima traccia: perché Via Aurelia?
Via Aurelia 253 è letteralmente il luogo in cui vivo. Ma è anche molto di più: è la casa in cui è cresciuta la mia famiglia e di fatto il luogo che mi permette di poter fare il musicista senza un iperbolico affitto pendente sulla testa o, peggio ancora, un imminente sfratto per mano di qualche affittacamere in carriera. Questo disco parla molto di me e della mia storia ed è stato naturale quindi principiare il racconto proprio nel luogo in cui vivo e in cui lavoro — la mia “Paolo Fabbri”.
Approfondirei a questo punto subito il tuo rapporto con Roma: amore, odio, entrambe?
Nelle note che si trovano nel libretto del disco ho scritto che Roma è una città che solo noi, che ci siamo nati e che l’amiamo, ci sentiamo in diritto di poter detestare. È vero amore e quindi contraddittorio ed irrazionale. Amo il cinismo spietato dei romani ma lo considero allo stesso tempo causa del nostro immobilismo. Adoro quella pigrizia oziosa che conserva gelosamente il valore, spirituale e intellettuale, del tempo perso, quanto allo stesso tempo le difficoltà nel relazionarmici rallenta tutte le iniziative di cui mi rendo momentaneamente entusiasta. Da musicista osservo che Roma è una calamita che attira a sé tutta la provincia e persone da tutto il mondo: questo permette di vivere circondati da centinaia di musicisti incredibili come solo poche altre città possono vantare, ma allo stesso tempo crea terra bruciata tutto attorno. Invidio ai miei colleghi del nord, oltre a una vita meno caotica e più organizzata, la facilità nel muoversi; la possibilità di creare formazioni musicali con persone che abitano in città vicine e la possibilità di avere di conseguenza un più ampio raggio di azione per proporre la propria musica dal vivo a costi contenuti. L’effetto calamita dunque è una ricchezza della città, ma allo stesso tempo ne comporta in parte l’isolamento. È un momento difficile per una città sempre più martoriata dalla piaga del turismo e delle mangiatoie a cielo aperto. La maggior parte delle attività culturali è demandata ai circoli culturali e ai centri sociali, quando non li chiudono con pretesti fascisti. Le istituzioni sembrano assolvere a mere funzioni di rendicontazione bandi, proponendo attività culturali mainstream confuse senza preoccuparsi di creare attorno a queste un contesto culturale comunitario, di scambio. Insomma vai al concerto e poi vieni cacciato con gli idranti a casa prima di poter scambiare una chiacchiera o comprare un libro.
A quale quartiere sei più legato?
Vivere a Roma può essere un vero incubo e tutta la fatica e il disagio che viviamo penso andrebbe ripagato con la possibilità di vivere la città nella sua completa estensione in maniera attiva. Questo non accade e non può accadere, vuoi per la sopracitata pigrizia o per l’anacronistica impossibilità di potersi spostare con i mezzi pubblici dopo le undici di sera.Il Pigneto è in sostanza l’unico quartiere di Roma che ha prodotto cultura e che continua a farlo in maniera costante, mentre il cancro della burrata col pistacchio e dello spritz al cardamomo in piazzetta piano piano cercano di rosicchiarlo. Il mio auspicio è che non rimanga l’unico: sogno una Roma viva in tutta la sua enormità. Chiaramente questa è in parte una generalizzazione perché le cose in una città cosi grande accadono ovunque ma, appunto, “accadono” e non sono una costante come negli anni della mia formazione è avvenuto, e tuttora avviene, in quel quartiere. Io vivo a Valle Aurelia, un ex quartiere operaio, nelle cui fornaci si sono forgiati i mattoni con cui hanno costruito l’intera città e mi rendo conto che un ragazzo qui ha pochi stimoli, c’è poca possibilità di imbattersi per caso in mondi che non siano fatti di facezie o partite di pallone (dovuta eccezione i ragazzi di Jazz all’Inferno). Si è fatto negli ultimi anni un grande lavoro, parlo dei centri sociali, dei circoli arci e simili, e delle mille associazioni che promulgano bandi per l’attività artistica, ma ancora poco si pensa alla costruzione di un pubblico senza il quale tutto quello che facciamo non ha molto senso.
Suoni o hai suonato da anni praticamente con tutta la scena di jazz "alternativo" romano. Mi farebbe piacere raccogliere la tua impressione sull'evoluzione di questa scena, da dove siamo partiti, dove siamo e dove stiamo andando
Non amo il termine “alternativo” perché mi sembra è un modo di definire qualcosa che ha una sua identità solo in relazione ad altro come ci fosse un pregiudizio nei confronti del resto. La musica è un linguaggio in continuo mutamento e in quanto tale gli stimoli che vanno a formare le sue sintassi arrivano da tutte le direzioni costantemente. Parliamo quindi della scena che si occupa nello specifico di musica improvvisata o di “ricerca”. Per dodici anni sono stato parte attiva del collettivo Franco Ferguson, con il quale a cadenza mensile abbiamo convocato centinaia di musicisti senza distinzione di generi da tutta Italia a confrontarsi in questo ambito sul palco del Fanfulla, prima di noi un altro collettivo, Iato, si è preso cura di queste musiche mentre oggi è un altro collettivo, Åltera, a prendersene brillantemente carico. Probabilmente è proprio il caos romano, l’enorme quantità di persone che la attraversano, che porta giocoforza a raggruppare e catalogare quartieri, abitanti e attività per categorie e di conseguenza penso si generi un bisogno di mischiare le carte, di dare voce all’ignoto, di ricercare laddove la ricerca, anche musicale, non sa quello che cerca ma sa di trovarlo.
Ci sono anche degli omaggi espliciti a musicisti legati a Roma, da Gabriella Ferri al contemporaneo Igor Legari. Ce ne parli un po’?
Solo rispondendoti a queste domande mi rendo conto di quanta Roma ci sia nel disco, forse è normale essendo un disco che parla tanto della mia storia: ci sta la “Via Aurelia” che porta da casa mia direttamente fino in Francia, la “Flemma” che caratterizza la nostra pigrizia atavica, c’è l’essere stati chiusi in casa per diversi mesi durante la pandemia (“Hikikomori”); “Sinnò me moro” di Carlo Rustichelli per quell’incredibile film che è „Un Maledetto Imbroglio“ tratto a sua volta da „Quer pasticciaccio brutto di via Merulana“ di Gadda (senz’altro poi ingigantita dalla stupenda interpretazione di Gabriella Ferri); ci sta Ennio Morricone che compose nella sua testa “Se Telefonando” in fila alle poste giocando con una melodia di tre note. Un po’ diversa la questione Igor Legàri, grande contrabbassista con il quale ho condiviso i palchi di tutta Europa ai tempi dei Luz, e che è però orgogliosamente salentino. Il brano è uno scherzo che gli ho voluto fare: ho giocato con la sequenza di note con cui prima di ogni concerto controlla l’accordatura dello strumento (e che ho sentito appunto migliaia di volte) e sul modo in cui la maggior parte dei “presentatori” sbagliano l’accento del suo cognome prima di un concerto: Igor Legàri è il modo “sbagliato” di pronunciarlo.
Qual è invece il legame con Paolo Conte, che dà nome al progetto?
Paolo Conte è stato senza dubbio uno dei più grandi autori di canzoni che abbiamo avuto in Italia e amo profondamente la sua discografia. La scelta di “Descansate Niño” è avvenuta guidando in solitaria proprio su via Aurelia un anno fa per un concerto. Stavo cercando un titolo che rappresentasse la musica che stavo componendo quando nello stereo è partita „Alle prese con una verde Milonga“ e all’improvviso mi è parso parlasse di me, del mio aver ritardato tanto l’uscita di un disco a mio nome. Per anni ho indugiato nello studio (…che fai dannare le mie dita…), nel lavoro di interpretazione di musiche di altri artisti (…Ebbene io l’ho svegliata e l’ho guidata ad un ritmo più lento…) e nel fantasticare di musiche possibili (…Verde spettacolo in corsa da inseguire da inseguire sempre ,da inseguire ancora, fino ai laghi bianchi del silenzio): questo disco rappresenta cosi il mio incontro con “Athaualpa”, che mi ha permesso di lasciare alle spalle il Giacomo niño e proseguire una nuova strada.
Quando e come si è formato questo trio? Come e quando hai capito che Alessandra e Marco erano le persone giuste?
Cinque anni fa ho vissuto una fase difficile della mia vita che ha portato alcune situazioni musicali a rompersi definitivamente. Alcuni eventi mi hanno aiutato a uscire da un buco nero in cui mi ero rintanato: da un lato, è orribile dirlo ma per me è stato cosi, la pandemia ha fermato il tempo concedendomi uno spazio di ripresa importante senza che il mondo attorno continuasse a correre con la frenesia cui usualmente ci condanna. Durante il lockdown sono ripartito dalla nuda materia, il legno, per costruirmi, in giardino e con l’aiuto di Massimiliano Rasori, le chitarre che ascolti nel disco. Dall’altro lato sono stati gli amici a ridarmi energia: sono stato coinvolto nei lavori di Simone Alessandrini, di Marco Cerri Ciommei e di Maria Pia De Vito; dall’altro ho incontrato dei nuovi compagni di vita e di musica con Marco Zenini e Alessandra d’Alessandro che con il loro entusiasmo e la loro enorme musicalità si sono messi al servizio di alcune mie idee musicali completandole e conferendogli un senso unitario che da solo non riuscivo a vedere. Mi ritengo davvero fortunato per questo incontro.
È il primo album ufficiale a tuo nome, dopo anni costellati di mille esperienze e collaborazioni. Come mai "solo" ora?
Descansate Niño ha in effetti per me un altro significato oltre a quello di cui abbiamo parlato. Questo titolo rappresenta per me l’invito a riflettere sulle proprie radici musicali e umane in un’ epoca che fa della “novità” un valore a sé, la dove per me il “nuovo” è nel percorso e non nel risultato. La musica del disco è una fotografia di quello che sono e del percorso che ho fatto per arrivarci. Per tanti anni ho prestato la mia voce a tanti grandissimi artisti dai quali, allo stesso tempo, sento di aver imparato tutto quello che so. In questo disco ho voluto mettere insieme tante idee, tanti punti di vista che ho disseminato negli anni, come a creare una fotografia del mio tragitto, dei miei suoni e delle mie visioni. Immortalare questo percorso, raccoglierne il frutto, mi permette di piantare il seme da cui germogliare il tempo che rimane. È un esordio si, ma ironicamente è anche un po’ il mio „Best Of“.
Forse la risposta si trova anche in queste belle parole che hai scritto per il comunicato stampa "In questa musica ci sono le mie radici che a fatica ho piantato negli anni della rabbia, ci sta la voglia e l’orgoglio di crescere per mettersi al servizio della propria storia". Parlando da un punto di vista strettamente musicale, quali sono queste radici? Quali gruppi, quali generi o movimenti. E da "uomo adulto" invece, cosa ascolti e cosa si è fatto largo nelle influenze dell'album?
È una vita che mi faccio interviste sotto la doccia in cui elenco compilation, liste di dischi preferiti, autori che più mi hanno ispirato, i più grandi assoli di chitarra. In questi giorni in cui questa domanda mi viene fatta più assiduamente mi trovo in difficoltà: mi da la sensazione di dovermi dare delle arie citando dischi ricercati o d’effetto. Allo stesso tempo sento la responsabilità di sponsorizzare, a chi leggerà queste interviste, una „condotta“. Per cui non risponderò riportando un fascinoso elenco ma dicendoti quello che cerco di fare il più possibile. Provo ad ascoltare tutto quello che viene prodotto in Italia, a partire dalla musica dei miei colleghi più vicini e amici. Cerco di andare il più possibile ad ascoltare musica dal vivo andando ai concerti nei luoghi che più hanno bisogno di supporto e privilegiando, come sopra, i live più piccoli rispetto a nomi altisonanti. Non è un discorso né di protezionismo né ovviamente di nazionalismo, ma è il sostegno oggi più sensato che si può dare alla musica e a chi la tiene in vita.
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La musica dell'album è audace ma allo stesso tempo ha in sé qualcosa di confortante. Quanto era importante per te confezionare un disco che fosse sia accessibile, sia rispettoso della creatività senza limiti?
Ho sempre pensato che la caratteristica principale di un’ opera discografica sia la possibilità di essere ascoltata più volte, mentre di contro amo la musica dal vivo perchè costruita sulla magia del flusso, dell’essere inafferrabile, del costruire in ogni istante un fugace ricordo dell’istante che precede. Faccio fatica a immaginare un disco di improvvisazione che non abbia un valore più che altro documentale e storico, anche perché ritengo che a intervenire della costruzione dell’improvvisazione entrino in gioco elementi esterni ai musicisti: il pubblico e i luoghi in cui la musica accade. Mettere in ordine questa visione non è facile, per cui nello scrivere la musica del disco ho cercato di “preparare” l’improvvisazione, di mettere dei recinti per poter “osservare”, magari più volte, quello che si muove all’interno, lasciando un coefficiente di libertà e di inatteso bilanciato all’uso. Per questi motivi ho fatto allo stesso tempo attenzione a registrare la musica in un luogo in cui fossimo liberi di registrare senza cuffie o divisori in una stessa stanza: il luogo migliore per poter dar forma a questi pensieri è per me senza dubbio il Jambona Lab di Antonio Castiello e Aldo De Santis a Livorno, città del cuore. Questa idea di produzione discografica ho comunque intenzione di sabotarla immediatamente con il mio prossimo disco.
Com'è ovvio, al centro della musica c'è la tua chitarra. In questi ultimi decenni, dai Novanta in poi, la sei corde ha subito cicli di oblio e riscoperta. Che rapporto hai con il tuo strumento?
Io amo la chitarra. Tanto. Il prossimo disco sarà tutto costruito intorno al suono della chitarra acustica, la mia ossessione, e sarà senza dubbio un disco più sperimentale. La definizione che ne da Segovia è quella cui mi sento più vicino: orchestra da gamba. La chitarra è uno strumento complesso, pieno di possibilità e pieno di trappole. È complesso comporre su questo strumento perché porta a delle soluzioni deliziosamente “solitarie” per cui gran parte del lavoro, quando si presentano le proprie idee ad altri musicisti, è scomporre le sue voci, reimmaginare da capo astrattamente il suono che si è creato; è uno strumento armonico che permette quindi di sovrapporre linee e creare armonie come un pianoforte ed è oltretutto un controller per i dispositivi elettronici, per poter manovrare suoni prodotti da altre fonti. Insomma è uno strumento completo e complesso, in quanto tale occorre la completezza di una vita per poterlo approcciare.