Quando Roma era come Amore Tossico, lui c’era. C’era quando al Palasport i Talking Heads venivano immortalati dalla Rai, ma pure quando la Roma alternativa si vedeva al Uonna. C’era quando in Italia esplodeva lo ska, ma pure quando la Capitale veniva invasa prima dal reggae e poi dall’hip hop. C’era quando nasceva uno dei live club più importanti degli ultimi 25 anni a Roma, il Circolo degli Artisti, e beh, era lì perché ne era il direttore artistico. Era al Forte Prenestino – e dove, sennò? – quando si facevano i primi Toretta e dove nacque l’amicizia importante con Luzy L. Impossibile da collocare in un’unica scena, in un’unica banda, profondo conoscitore di soul e reggae, ma anche di molto altro (sentitevi i suoi recenti mix di cumbia, per farvi un’idea), Bob Corsi ha attraversato da appassionato e poi, in varie forme, da „addetto ai lavori“ tre decenni di musica a Roma. Ha anticipato tendenze (come l’interesse per le colonne sonore e la library music), ha sfidato il mercato discografico con la sua Goodfellas – nata quindici anni fa, resistita alle (varie) crisi del disco e oggi in perfetta salute. E poi ha fatto un sacco di altre cose, in radio, dietro la consolle e (ri)pubblicando dischi di culto con la sua Penny Records. Il cerchio (per ora) si chiude con l’arrivo della doppia colonna sonora, quella originale di Detto Mariano e la rivisitazione de La Batteria, di Amore Tossico. Pronto a riaprirsi prima che riusciate a finire di leggere questa intervista.
ZERO:Cominciamo dalle presentazioni. Quando, dove sei nato e come hai iniziato ad appassionarti di musica?
BOB CORSI: Sono nato a Roma nell’agosto del 1965. Ho iniziato da giovane ad andare ai concerti, tra la fine degli anni 70 e i primi ’80. Mio fratello più grande suonava, io ho cominciato a suonare la batteria ma in realtà tutti in famiglia suonavamo. Noi fratelli facevamo le prove con i nostri gruppi a casa, in questa stanza che era diventata praticamente una sala prove, con synth, batteria e strumenti vari.
I tuoi genitori erano dei super freak?
No, per niente. Ma mia madre era completamente terrorizzata che noi ci drogassimo, quindi la considerò una valida alternativa. In quegli anni, Roma era invasa dalla droga e molti amici e compagni di scuola erano chi morti, chi in comunità… Anche per questo Amore Tossico per me è un film assolutamente formativo, i personaggi di quel film – non nel senso di quelli reali – io li ho conosciuti. Poi vivevo a San Giovanni, che non era come oggi. Un tempo, attorno alla statua di San Francesco c’era il ritrovo delle persone un po’ più strane ed era una zona di spaccio… Un’area allora assimilabile a Centocelle o al Pantheon.
Ti ricordi il primo disco che hai comprato?
Probabilmente la colonna sonora di Grease, nel ’78. Quando eravamo ragazzini c’era questa abitudine di regalare i 45 giri per le feste di compleanno, facendo la colletta.
Quali sono stati i tuoi primi ascolti musicali?
In parte erano in opposizione a quelli di mio fratello, lui sentiva i Led Zeppelin e io gli Who, ad esempio. Ma soprattutto odiavo l’ondata progressive, quindi quando è esploso il punk e la new wave per me è stata una liberazione. E ho cominciato a frequentare tutti i concerti che allora c’erano a Roma.
Se parliamo di fine anni 70, si trattava di un periodo caldo anche nel rapporto tra musica dal vivo e questioni di ordine pubblico…
Gli autonomi avevano deciso che la musica dovesse essere gratis, quindi scoppiavano sempre tafferugli durante i concerti, addirittura a Santana al Velodromo tirarono una molotov sul palco. Per lungo tempo a Roma quasi non ci furono live, l’Italia era stata bannata dai tour internazionali. Dopo un po’ questa cosa si è sbloccata, ed è esplosa una nuova ondata di gruppi che per un ragazzino come me erano a dir poco entusiasmanti.
A 14 anni sentii i Police in tour con Reggatta de Blanc e i Cramps di spalla, poi The B52s, Talking Heads, Madness, mia madre non mi mandò a sentire Bob Marley, sempre per quel discorso della droga, e ancora ce l’ho con lei… Già giravano un sacco di cose wave e in realtà il punk in Italia era arrivato a scoppio ritardato, non con i Sex Pistols – che erano considerati un po’ finti, sempre per questioni politiche – ma con i Clash. Joe Strummer con la maglietta Brigate Rosse a quei tempi era dio.
Quali erano gli spazi dove si facevano i concerti a Roma nei primi anni 80?
Quelli più grandi erano il Tendastrisce, il Palasport – dove i Talking Heads fecero uno storico concerto per il tour di Remain In Light con The Selecter di spalla, ripreso anche dalla Rai -, poi c’era il Tenda Seven Up a Piazza Mancini. Le cose più piccole e di nicchia avvenivano al Uonna Club, che aveva un’attitudine punk ma dove poi passava di tutto, anche un sacco reggae. Il Uonna era sulla Cassia, dove stava anche la seconda sede del Folkstudio, dopo quella a Trastevere. A quei tempi, Roma era come un grande paese: immagina che fino all’avvento di Nicolini (assessore alla cultura tra il 1976 e il 1985 e inventore dell’Estate Romana, NdR), uscire la sera era una cosa che ti identificava come strano, le persone normali uscivano solo di pomeriggio. E poi c’erano le leggi speciali, un sacco di persone venivano arrestate pensando che avessero informazioni sulle Brigate Rosse. Era una situazione assurda, quindi è chiaro che quando si è allentata è nato un entusiasmo nuovo, qualsiasi cosa diventava un evento.
C’è stata una scena, un genere musicale a cui ti sei sentito o ti senti oggi più legato?
Una cosa che non sono mai riuscito a fare è inquadrarmi all’interno di meccanismi che fanno parte di bande dove si ascolta un certo tipo di musica. Mi sono vestito da punk, da mod, sono andato ai raduni di northern soul a Rimini da cui magari uscivo con una voglia pazza di ascoltare il country, proprio perché poi avevo sempre il timore di omologarmi. Questa impossibilità di restare fermo dentro un genere o una scena è un approccio che poi ho applicato più avanti anche con Goodfellas. Certamente c’è una forte radice mod nella mia formazione e la passione per il soul si lega a quella: l’ho scoperto da ragazzino, mi sono innamorato dei classici – Sam & Dave, Otis Redding, James Brown – e poi, tra viaggi in America prima e internet dopo, ho cominciato a conoscere le cose più rare. Insieme al reggae, penso siano le mie due musiche, quelle che ancora mi fanno alzare i peli.
Il disco soul definitivo?
Live at the Harlem Square Club di Sam Cook.
La radice mod della tua formazione torna negli anni 80 con la passione per lo ska, un ritorno che in Italia diventa abbastanza dilagante e che contribuisci a diffondere…
Intorno alla metà degli anni 80 ho ripreso con la batteria, che non suonavo dai tempi del liceo. Scoppia questo ritorno dello ska: a Milano cominciano a formarsi i Casino Royale, a Bari ci sono i Different Stylee, primo gruppo reggae in Italia, poi gli Africa Unite a Torino, la Banda Bassotti a Roma, i FUN che facevano soprattutto Oi! ma anche ska, guidati da questo personaggio molto controverso, Er Tubo – grandissimo batterista e dj di Radio Onda Rossa, che poi passerà dall’essere skinhead di sinistra a capo dell’estremismo di destra romano – che prende noi ragazzini sotto la sua ala protettiva… L’ultimo anno di scuola facevamo sega per andare con lui a suonare le cover di Specials e UB40. A quel punto formo un gruppo, The Mobsters, anche con persone che avevano suonato in altre formazioni, tra cui i FUN, e cominciamo a fare parte di questo circuito ska – c’erano gli Statuto a Torino e anche in Inghilterra c’era una rete di piccole etichette devote ai ritmi in levare. Registriamo una prima demo per la britannica Unicorn Records, che ci mette in una compilation dedicata a questa scena. Cominciamo a suonare molto in Italia, tanto che la Klang Records ci pubblica un album. A questo punto siamo nel ‘90. Nel frattempo c’è l’occupazione dell’università con la Pantera, l’esplosione delle Posse, lo ska che diventa una delle musiche trainanti di quel periodo, ma diventa uno ska terrificante, scarno – noi con i Mobsters avevamo la sezione fiati, ci ispiravamo allo ska Giamaicano.
Come ti procuravi i dischi, per essere informato di quello che succedeva fuori dall’Italia in questi ambiti più underground?
C’era questa vecchia distribuzione – Good Stuff – guidata da Fernando Pallone, che iniziò l’attività vendendo a casa sua i dischi che comprava in Inghilterra: avevo sviluppato una passione per il reggae e, ad esempio, da lui presi un sacco di roba della Trojan… A quei tempi, o andavi a Londra oppure quelle cose non le recuperavi. Adesso è un frullatore, hai accesso a qualsiasi cosa, prima i dischi erano delle reliquie, cose che finivi con il conoscere a menadito perché le ascoltavi per mesi. Poi questo Fernando Pallone, insieme ad Alberto Castelli, Lampa Dread (una delle figure in assoluto più importanti del reggae a Roma, NdR) e altre persone, organizzavano concerti reggae a Roma. Ne ricordo uno dei Misty In Roots addirittura a Piazza Navona.
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Siamo nei primissimi anni 90, ovvero nel momento in cui a Roma prende forma una realtà che per oltre vent’anni ha segnato la musica live della capitale, il Circolo degli Artisti. Di cui tu sei stato il primo direttore artistico. Come è andata?
Tra il 1990 e il 1991 parto per il servizio militare – in Sardegna, come fuciliere assaltatore: un anno buttato – e quando torno a Roma trovo un gruppo di amici che aveva cominciato a organizzare feste jive e swing, una moda esplosa un po’ per via del disco di Joe Jackson, Jumpin’ Jive, e un po’ per una tendenza legata alla cultura rétro, post mod, post skin. Questo gruppo di amici si fa chiamare „I cugini di Joe di Maggio“ e una delle sale in cui organizzano queste feste è quella del vecchio Circolo degli Artisti, vicino Piazza Vittorio. Siamo nel 1991, il Circolo era un’associazione culturale al cui interno c’era l’associazione culturale di teatro La Scaletta, gestita da Romano Cruciani e Gianluca Celidonio, che vede nel nostro gruppo di persone – e credo in particolare in me, che ero un fomentatissimo – un potenziale. Accade che Romano e Gianluca devono partire con l’associazione per una tournee in Sud America e gli serve qualcuno che gestisca il posto il loro assenza. Immagina che allora il Circolo era simile alla seconda sede in via Casilina Vecchia, con un palco perché c’era una scuola di teatro. Mi lasciano la gestione dello spazio durante la loro assenza: la serata jive diventa una serata reggae – che allora erano solo al Forte Prenestino, dove c’era la Tortuga, il precursore di One Love Hi Powa, che tutti i giovedì apriva i microfoni improvvisando sui dischi reggae. Questa sala comincia anche ad attrarre persone che organizzano concerti a Roma: Francesca Bianchi, che poi ha lavorato alla Virgin e oggi organizza eventi con Hugo Sanchez, la quale ci porta gruppi come Consolidated, un gruppo industrial-rap-gay, o Test Department.
Come si chiamava la serata reggae?
Black And Dekker, ispirata all’omonimo album di Desmond Dekker, era tutti i venerdì e mettevo fondamentalmente reggae, dub, un po’ di ska… Ai tempi, il dj storico del reggae era Lampa Dredd, che conoscevamo tramite il giro ska e prima che facesse One Love Hi Pawa. In quel momento esplode in città l’interesse verso questi suoni e la storia vuole che lui e il Forte siano stati fondamentali in questo senso.
A questo punto, sempre all’alba dei 90, come era la situazione per la musica live a Roma?
C’erano le realtà occupate, con il Forte Prenestino in cima a tutte, c’erano il Tenda Strisce e il Palladium – che però erano per produzioni più grandi – e poi c’era il Circolo, di cui mi viene affidata la direzione artistica quando Romano e Gianluca tornano e trovano la sala sempre piena di gente.
Come è stato inventarsi direttore artistico di un locale?
Intanto avevo fatto un po’ di esperienza in passato, tenendo le fila dei Mobsters: ero quello che manteneva i contatti con l’etichetta, con i locali in cui si andava a suonare, che scriveva agli altri gruppi per scambiare i dischi, che andava alla posta a spedirli. Cominciai a prendere contatti con le agenzie, ad esempio Rock’n’Dogs, oggi attuale Live NationCorrado Rizzotto, oggi Vivo Concerti e prima ancora Indipendente. E poi ero aiutato dal fatto di stare insieme a una ragazza americana, con la quale in estate mi trasferivo a New York, e ogni volta tornavo con un sacco di novità, che nell’era pre-digitale era un aspetto cruciale. Ricordo di aver portato dischi dei Cypress Hill, Wu-Tang Clan, roba che allora qui nessuno conosceva. Per quanto riguarda la gestione, inizialmente era molto casereccia, oltre al direttore artistico facevo anche quello di produzione, l’ufficio stampa, scaricavo gli strumenti delle band e ricordo che passavo il lunedì a mandare comunicati stampa con il fax. Il Circolo comunque cresce, e convinco Romano Cruciani a investire anche sull’impianto e altri aspetti della gestione. Il periodo d’oro della prima versione del Circolo degli Artisti è stato tra il 1991 e il 1995, in cui il Circolo diventa la prima realtà a Roma con una programmazione continuativa, dove bastava fare una tessera di 5000 lire con cui spesso si entrava anche gratis ai concerti. Diventiamo anche un riferimento per le etichette, che facevano lì gli showcase sapendo che la sala si sarebbe riempita. Poi iniziano le chiusure/riaperture, perché si comincia a sapere che lo spazio verrà destinato al mercato.
Ti ricordi qualche concerto memorabile al Circolo, magari qualche prima volta di alcuni gruppi a Roma, in quel periodo d’oro?
Il primo epico fu quello dei Fishbone, dei neri che facevano uno strano crossover, mischiando ska e hardcore, erano dello stesso periodo dei Red Hot Chili Peppers ma più underground. Ricordo che il Circolo era pieno e il concerto era a metà luglio: alla fine non c’era più nessuno con la maglietta addosso! Era l’estate nel ‘92. Poi c’è stato il periodo Ninja Tune, con i dj che venivano a suonare, tipo Coldcat, un sacco di gruppi metal che facevano sempre sold out, Carcass, Morbid Angel, e molti gruppi hardcore, perché era diventato anche un punto di riferimento per quella scena a Roma, non solo nell’incrocio con il rap. Ci fu il primo concerto in assoluto a Roma di Beck, vennero i Gorilla Biscuits con cui avevo fatto amicizia a NY e che poi tornano come Quicksand, gli Agnostic Front… Erano tempi in cui la fila per entrare iniziava a Piazza Vittorio e arrivava fino all’entrata del Circolo, in via Lamarmora.
Però va detto che si entrava gratis, era un po’ the place to be, quindi un sacco di gente non sapeva neanche cosa c’era la sera. Poi in quel momento nasce anche Il Locale, vicino al Bar del Fico, dove poi cresce la scena cantautoriale romana degli anni 90 – Max Gazzè, Niccolò Fabi, Daniele Silvestri – un posto molto carino. A quel punto, il Circolo è sempre così pieno che non contento, nel 94, lì di fronte apro un bar, il Cirrosy’s, che è stato a suo modo un posto leggendario: avevamo un juke box, riviste internazionali, le pareti tutte affrescate da artisti newyorchesi, arrivati sempre tramite la ragazza americana con cui stavo. Gli anni d’apertura furono dal ‘94 al ‘97, e a quel punto via Lamarmora era diventata una specie di Campo de’ Fiori ma alternativa, con rapper, la scena hardcore, tutto che si mescolava.
Hai parlato di quella reggae, ma a parte i concerti, che altre serate e scene sono passate in via Lamarmora 28?
Al Circolo iniziamo a sperimentare, era il periodo del crossover, nella serata reggae cominciamo a mettere hip hop, anche noi apriamo i microfoni, prima con i neri francesi figli degli ambasciatori che iniziano a rappare, poi arrivano Danno, Masito, Primo Brow, Sangue Misto, quindi diventa una serata di riferimento per quei suoni. Il Circolo era frequentato anche da chi era attivo anche nei centri sociali, il Forte Prenestino ma anche il 32 a San Lorenzo.
È in quel periodo che inizia anche la tua storica amicizia con Luciano aka Luzy L?
Sì, diciamo che essendo un po’ uno di quei tipi che dormivano poco e erano sempre ovunque, andavo anche alle prime feste che si facevano nella torre del Forte e che già si chiamavano Toretta. Feci amicizia con Luciano e lo convinsi, a fare una serata a settimana al Circolo – il giovedì, in cui metteva tutta roba sixties: soul, r’n’b, northern soul, musica che avendo quel background amavo moltissimo. Giocando con il nome Toretta, la serata si chiamava Parucca Night e coinvolgeva anche un altro amico, dj e grande appassionato di musica, Corry X (insieme a Luzy L creatore di Toretta Stile, NdR). Anche questo appuntamento diventa un successo clamoroso, con le file il giovedì sera per ballare northern soul.
Questa amicizia più avanti si sviluppa in un progetto/serata che anche oggi credo avrebbe un grande seguito, The Jet Set. Ce ne parli?
The Jet Set nasce sempre nella Toretta del Forte Prenestino, con velleità elitarie, anche se poi diventa molto grande. Credo sia stata la prima festa itinerante a Roma, cambiavamo sempre location, ed è andata avanti dal ‘96 al ‘99. Suonavamo musiche da colonne sonore e sonorizzazioni, che ora vanno tanto di moda e che cominciai allora a collezionare, comprandole a due spicci a Porta Portese. Iniziammo con i classici, Morricone, Micalizzi, per poi avventurarci nelle colonne sonore più underground, allora ristampate da etichette come Crippled Dick Hot Wax! che inizia a fare compilation come Beat a Cinecittà, un culto delle colonne sonore più oscure. Luzy ed io ci occupiamo della musica, ma con noi c’è anche DDG, storico video maker romano; siamo stati i primi a fare le installazioni video durante i dj set e la cosa bella è che li facevamo con i super 8: arrivava in motorino stracarico, con proiettore super 8, film, bobine.
The Jet Set poi arriva anche al Brancaleone, luogo dove nasce la prima rassegna/mini festival, Supernova, organizzato con Pietro Fuccio di DNA Concerti, dove noi ci occupavamo dei dj set e lui di portare gruppi affini a quei suoni, ricordo sicuramente in quel contesto un concerto dei To Rococo Rot. Con The Jet Set tocchiamo il nostro apice con Massenzio, storica rassegna di cinema nell’ambito dell’Estate Romana (la prima edizione di Massenzio fu nel 1978, voluta da Renato Nicolini, che fa proiettare i film al Foro Romano, NdR). Facevamo The Jet Set nel Parco del Colle Oppio, in una location clamorosa dove c’era il grande schermo che mandava i film usciti durante l’anno, le persone che venivano a ballare si vestivano anni ‘50/’60 e i turisti quando passavano lì sotto restavano letteralmente a bocca aperta. Dopodiché questo progetto condiviso con Luzy si esaurisce quando esce fuori la parola lounge, che progressivamente prende una connotazione negativa…
Come eravate arrivati a fare questa serata al Massenzio?
Grazie a Radio Città Futura, realtà dove sono nate tantissime cose interessanti dal punto di vista culturale per Roma, che con uno sponsor era riuscita a portare vari contenuti, alcuni anche molto alternativi, al Massenzio. Radio Città Futura aveva una residenza al Circolo degli Artisti e io ero uno degli speaker di Città Futura dal 1993.
Anche Planet Rock, (seminale trasmissione di Radio Rai, condotta da Luca De Gennaro, Fabio De Luca e Gennaro Iannuccilli andata in onda dal 1991 al 1996, NdR) aveva una sorta di residenza al Circolo degli Artisti: nell’era pre-internet era la trasmissione che dovevi ascoltare per essere aggiornato sulle nuove uscite, ma a un certo punto fu chiusa dalla Rai, quindi si cominciarono a fare delle serate a suo sostegno, che diventarono delle serate meravigliose. Il Circolo in quegli anni è un collettore di tutto ciò che c’era di fico a Roma, era diventato un posto dove tutti volevano fare qualcosa.
Sei stato anche un conduttore radiofonico. In che periodo?
Prima nella radio del PCI, che ai tempi si chiamava Roma Italia Radio, dal 1989 circa, e poi a Radio Città Futura. Il merito fu di Daniela Amenta, giornalista storica e scrittrice, che è stata la prima a credere in me e mi ha introdotto in quel mondo. Successivamente ho avuto anche una lunga collaborazione radiofonica, dal 2003, con il programma di Radio 3 Battiti. Ora è un po‘ scemata, ma ogni tanto mi capita ancora di fare conduzioni con loro.
Nel frattempo siamo arrivati alla fine degli anni 90. Come finisce la tua esperienza con il Circolo e come inizia quella di Goodfellas?
La mia esperienza al Circolo non finisce esattamente rose e fiori, nel periodo di chiusure e riaperture in via Lamarmora non c’è molta chiarezza, mi rendo conto che per anni sono stato sottopagato e sfruttato da Romano Cruciani – anche se per onesta intellettuale, a posteriori, devo anche dire che mi ha dato la possibilità di fare un lavoro che ho amato, in cui ho imparato tante cose sbagliando e avendo le spalle coperte. Sono stato un privilegiato. Se penso che ho fatto il primo concerto degli Afterhours a Roma e c’erano 10 paganti… In ogni caso, tra la fine del ’97 e inizio ‘98 il Circolo chiude e io mi allontano da quella realtà – anche perché poi, con un colpo di mano, Cruciani riesce a farsi assegnare l’area del nuovo Circolo in via Casilina Vecchia dopo che in realtà era stata assegnata ai ragazzi che, ancora oggi, gestiscono l’Init. A quel punto, comincio a sondare altri territori e vado da un’altra realtà molto importante a Roma, che aveva sempre una serata al Circolo: Disfunzioni Musicali.
Hai lavorato anche per Disfunzioni?
Non esattamente. Disfunzioni aveva una distribuzione, che si chiamava Helter Skelter, che però in quel momento è in grandissima crisi. Comincio a lavorare per loro, ma in realtà essendo una società piena di buffi, passavo le mie giornate a mandare fax, chiedendo scusa al fornitore per farmi mandare i dischi e aspettando che qualche etichetta che mi desse retta.
È a questo punto che vede la luce Goodfellas.
Esatto. Goodfellas nasce da quattro lavoratori di Helter Skelter che non venivano pagati. Oltre a me c’erano Stefano Zurlo, fondatore di Helter Skelter come socio – che poi vende la maggior parte delle quote a Disfunzioni Musicali, negozio di dischi con tantissimi dipendenti, ma che poi con la crisi ha cominciato ad avere dei problemi. Gli altri due erano Iacopo Iafolla, che insieme a Stefano sono ancora a Goodfellas, e Bruno Brin. Goodfellas nasce da noi quattro soci, più una piccola quota di Disfunzioni e un’altra piccola quota di una società fiorentina che si chiamava Abraxas, la quale ci gestiva il magazzino. Questo è l’organigramma, una specie di Armata Brancaleone senza soldi. All’inizio si tratta di convincere le persone con cui mi relazionavo prima per Helter Skelter e che non pagavo, a lavorare con la neonata distribuzione. A quel punto Disfunzioni è in crisi, ci manda via dal sottoscala dove ci aveva ospitati, esce dalla società e noi ci prendiamo uno spazio al Pigneto, in via Fortebraccio. Lì abbiamo l’ufficio vendite, l’ufficio promozione, l’ufficio marketing, ma il magazzino è sempre stato a Firenze. Abraxas era una società che stava diventando grande, sono stati i primi a credere nel vinile e già da fine anni 90 cominciano a stampare le colonne sonore italiane e a venderle in tutto il mondo, ma anche ristampe di punk, hardcore, soul… Tutto in vinile, con licenze che rispetto al cd ovviamente costavano molto meno. Sono arrivati con circa 10 anni di anticipo. Noi diventiamo i distributori dei loro prodotti in Italia e in più io facevo scouting.
Aprire una nuova distribuzione nel 2000 non è stata una scelta azzardata, o quantomeno un gesto molto ottimista? Quale era la situazione delle distribuzioni musicali allora in Italia?
Sicuramente mi considero un ottimista. Tieni conto che Goodfellas nasce quando in Italia ci sono già grandi distribuzioni super attive: Wide – che aveva le cose più cool – Self, Audioglobe, Family Affair, Evolution, quindi noi ci prendevamo gli scarti, iniziando a contattare le etichette che non si filava nessuno. Con la crisi del disco molti di questi distributori però hanno chiuso, anche perché erano attività enormi, gente che c’aveva le Ferrari e le ville – io con la musica c’ho campato, non sono mai diventato ricco. A quel punto, quando gli altri distributori cominciavano a chiudere, io mi sono scatenato.
Quali sono state le prime etichette, magari internazionali, che ti sei andato a scovare, su cui hai fatto scouting?
La prima etichetta che mi piaceva tantissimo a livello estetico era la Man’s Ruin, l’etichetta di riferimento dello stoner americano, da cui sono usciti i Queens of the Stone Age e fondata da Frank Kozik, un illustratore famosissimo che ha fatto tante copertine anche importanti, conosciuto a San Francisco – una specie di despota, ricordo che dietro la sua scrivania aveva i quadri di Mao Tse-Tung, Mussolini e Hitler; un’altra era stata la Ipecac di Mile Patton, con cui si è creato anche un rapporto di amicizia. C’erano etichette famose in Italia che non avevano distribuzione, quindi ho lavorato come un pazzo, il lavoro si era finalmente informatizzato. Abbiamo tenuto duro, stringendo la cinghia e cominciando a produrre vinili, a inventarci varie cose, tra cui l’idea di ristampare la new wave italiana, che ha funzionato molto, con un marchio ad hoc che si chiama Spittle Records, con cui abbiamo pubblicato anche cose tipo Crollo Nervoso, il cui merito va soprattutto a Simone Fringuelli, quarto socio di Goodfellas che opera dalla sede fiornetina della società.
C’è stato un momento di crisi per Goodfellas?
Certo, all’inizio, nei primi Duemila abbiamo passato una grande crisi, tanto che io mi sono anche pentito – a fine anni 90 vivevo facendo il dj ed era una signora vita.
Però in realtà la reazione che subito dopo ha Goodfellas a questa crisi è andare controcorrente, aprendo un negozio di dischi.
Verso la metà dei Duemila a Roma cominciano a chiudere vari negozi di dischi, tra cui, appunto, Disfunzioni Musicali. Quindi ci stipiamo tutti nel piano di sopra dell’ufficio in via Fortebraccio e apriamo un negozio al piano di sotto, Goodfellas Records.
Poi questo posto diventa stretto e dall’altra parte del ponte troviamo lo spazio che poi diventerà quello di Radiation Records. A quel punto, siamo anche così matti da aprire un franchising in tutta Italia – una follia che è durata pochissimo, era il periodo della crisi nera, quando chiudevano tutti. Quindi l’ufficio resta a Fortebraccio e facciamo una proposta a Bruno Brin, che era socio, e Marco Sannino – che a quei tempi lavorava per Goodfellas e che per me è un piccolo genio per come gestisce il negozio – i quali lo rilevano, permettendoci di tenere in piedi la struttura senza tagli drammatici. A quel punto, in Goodfellas siamo noi tre – Stefano, Iacopo e io – i ragazzi di Firenze, Rossana Savino che ci faceva da ufficio stampa e poi è subentrato Luca Collepiccolo, che prima lavorava per Wide. Luca l’ho conosciuto da ragazzino quando organizzava concerti hardcore al primo Circolo, e ancora oggi è nella squadra. Per tornare alla crisi, gli anni drammatici sono stati tra il 2008 e il 2010: chi passa quella crisi, che ha falcidiato tantissime realtà, poi riesce a sopravvivere. A noi ha chiuso contemporaneamente la Venus, il più grande distributore Italiano, e Fnac lasciandoci un buco economico enorme. Quando c’è un fallimento i dischi rimangono dentro il negozio, bisogna aspettare che il curatore fallimentare li rivenda e piano piano saldi i debiti, ma è impossibile recuperare la cifra che ti spetta. E all’improvviso ti ritrovi con vari flussi di denaro che si bloccano.
Facci qualche nome: etichette che hai individuato in tempi non sospetti? Gruppi che hai scoperto e portato in Italia con Goodfellas?
Tra le etichette ci sono la Hyperdub di Burial, il circuito Jagjaguwar, Sacred Bones, Secretly Canadian, l’etichetta di Sufjan Stevens. Quanto ai gruppi, direi Jon Spencer Blues Explosion, che allora non conosceva nessuno, Elliott Smith, i White Stripes, che ho lavorato fino a Elephant – che fa talmente il botto per cui loro firmano un accordo a un livello diverso per la distribuzione in Europa. Noi facciamo questo lavoro qua fino a un certo punto, è sempre stata la nostra specialità lavorare i gruppi entro un certo livello: sei una specie di infrastruttura, come sono i piccoli club rispetto ai grandi, le piccole agenzie rispetto alle grandi. C’è uno sviluppo della professionalità diverso, prima era tutto pioneristico, per non dire a cazzo di cane. Poi la nostra è una realtà in cui si lavora di squadra, ognuno apporta il suo contributo, lavorando più o meno esposto agli occhi esterni.
Oggi com’è l’assetto di Goodfellas? Quanti siete, quali attività oltre alla distribuzione svolgete?
In questi anni abbiamo progressivamente rilevato l’attività di distribuzione di Abraxas, poi abbiamo assunto i loro impiegati e ci siamo comprati il loro magazzini. Adesso Goodfellas è composto da 4 soci e ci sono 12/13 dipendenti. Oggi siamo anche un editore musicale, ci siamo lanciati nella produzione – in particolare di musica indie italiana -, abbiamo un ufficio di promozione, facciamo da service per stampare cd e vinili, facciamo anche un lavoro di base per piccoli gruppi che vogliono distribuirsi il disco ed essere inseriti nei database – perché ormai la distribuzione è cambiata, si lavora molto sui database, tanto che i dischi fisici praticamente non li vedo più. Considera che il catalogo Goodfellas è di oltre 50000 titoli, una cifra enorme. Nel frattempo, in Italia ha anche aperto Amazon e avendo un catalogo così grande siamo diventati uno dei loro migliori fornitori: Goodfellas è stato il primo in Italia a chiudere un accordo diretto con Amazon nella discografia, anche se ora ce l’hanno quasi tutti. Recentemente siamo diventati distributori di libri, di questo se ne occupa Massimo Roccaforte, e casa editrice, il primo libro esce il 18 maggio ed è la biografia dei Cramps, di Dick Porter. Abbiamo sviluppato la parte digitale e diciamo che siamo dei vecchi che sanno stare al passo coi tempi. Perché nel frattempo siamo invecchiati, non c’è niente da fare.
Riavvolgiamo il nastro: tra la direzione artistica del Circolo, Helter Skelter e Goodfellas, tu lavori anche come dj. Intanto dacci un quadro del tipo di serate che c’erano a Roma tra anni 90 e Duemila.
Nella metà degli anni 90 a Roma esplode il fenomeno dei rave – agitatori e dj storici di questa scena sono Warbear, Luchino degli Assalti Frontali, Leo Annibaldi e tutta la banda di dj del Forte Prenestino, gli occupanti della Fintech ma anche Pol G, che canta nei Primati, rapper di Assalti Frontali e che suonava nei Brutopop. Al Brancaleone e al Forte comincia a girare la jungle – che non mi dispiaceva, perché aveva quel campione grezzo con l’mc sopra che ricordava un po’ l’hip hop – e la drum and bass, che invece mi ha sempre fatto schifo; escludendo anche il mondo delle discoteche, di techno, house, discomusic, con Prezioso, Fargetta e Lory D, io posso dire che giravo nel circuito sfiggy: quello di centri sociali, club, baretti, Circolo e poi Forte Prenestino, Brancaleone, Lanificio, che ai tempi si chiamava Centro Pietralata.
Ed eravamo rimasti esattamente al ’99, con The Jet Set.
Quando finisce Jet Set mi comincio ad appassionare a questo ritorno della new wave, entro in contatto con la DFA e inizio a scrivermi con James Murphy, che ancora non era così famoso – erano i tempi dei primi 7 pollici dei Rapture. Nel frattempo era esplosa questa moda del mash up, per cui si usava la parte strumentale dei pezzi e ci si metteva sopra l’a cappella rap. E avevo questa serata che si chiamava Come As you Are, tra il 2003 e il 2004, tutti i venerdì al Metaverso, che nel era diventato famoso per la serata Phag Off: pure quel giro veniva a ballare nella nostra serata, che però aveva un’impronta più etero. Diciamo che in qualche modo la prima L-Ektrica nasce da quell’idea lì, poi sono stati bravissimi a sviluppare il loro concept e la loro identità. Nel febbraio 2006 nasce la mia seconda figlia e in casa mi viene dato un aut aut (risate, NdR). Per quattro anni ho fatto il padre, finché non mi sono separato e ho ripreso a fare il dj (nuovamente risate, NdR).
Arriva quindi il momento in cui la tua passione per le colonne sonore condivisa con Luzy L incontra un’altra importante realtà occupata di Roma, L’Angelo Mai.
Con Luciano avevamo già in mente di riprendere con Jet Set. Un giorno, ci capita di incontrare questo tizio, che si chiama Silver Boy, che faceva una serata di nome Edwidge e aveva iniziato a fare il dj con i dischi di sonorizzazioni e colonne sonore che, in un momento di necessità, anni prima mi ero venduto e svenduto. Era il 2011 e abbiamo pensato di unire le forze, l’Angelo Mai ci dà fiducia e ci affidano un sabato al mese. Anche grazie a una ragazza più giovane con cui stavo allora la serata, che prende il nome di Magnetica, unisce queste sonorità legate alle colonne sonore, ma pure soul, calypso e cumbia – una specie di frullatore, che poi è una delle cose che più mi piace fare – a varie idee collaterali: sfilate di moda, movie flash mob, serate a tema. Con noi collabora anche un bravissimo visual artist, La Colonna Infame. E diventa la serata di punta dell’Angelo Mai.
La tua incarnazione più recente, in veste di dj, è però quella con gli amici (letteralmente) di Go Bang. Come è nato questo nuovo team dietro la consolle?
Go Bang è nato alla festa per i miei 50 anni. Eravamo al Monk e come sai, l’estate lì in giardino si mette musica, si fanno aperitivi e dj set a volume magari non altissimo. Per l’occasione, erano convenuti un po’ di vecchi amici che hanno cominciato a reclamare, «Basta con ‘sti aperitivi, volemo balla’!». Quella sera in nuce è nato Go Bang, che poi si è sviluppato durante delle chiacchierate e cene estive, coinvolgendo, oltre a me, Andrea Benedetti, Francesca Trickbabe, Emiliano Cataldo e Slump. Si tratta di un appuntamento mensile al Monk, un contenitore che abbia una parte ballabile, una sorta di post studio 54 che includa la parte finale della disco, la primissima house, ma anche la new wave legata al ballo. Il nome arriva da una traccia di Arthur Russell, genio musicale morto prematuramente nel 1992 ed icona trasversalissima, tra musica bianca e nera, tra pop e sperimentazione. In questo contenitore, ognuno di noi sviluppa il proprio suono nella direzione che preferisce, dall’afro al funk alla techno, da Grace Jones ai Roxy Music. Ultimamente stiamo collaborando con il Coropuna, l’ex fish market, vicino al Lanificio, dove fanno cucina tra peruviano e giapponese e n genere io mi occupo della prima parte del dj set, in cui metto cumbia.
E da dove arriva quest’altra passione?
È legata al mio amore per la musica africana, brasiliana, peruviana e colombiana. È una musica con un valore simile al soul e al reggae, perché è musica popolare con molto groove, destinata a far star bene la gente, a farla ballare. Quindi perfetta per un dj.
Ci fermiamo nel presente – anzi, nel passato recente – per avvicinarci alla rivisitazione della colonna sonora di Amore Tossico. Colonna sonora che non pubblichi con Goodfellas ma con Penny Records, la tua etichetta. Come nasce?
Ai tempi di Magnetica, nel 2012. Con quella stessa ragazza che menzionavo prima facevamo dei pic nic e portavamo sempre dietro questo mangiadischi che si chiamava Penny. L’idea è nata così.
Le prime uscite di Penny Records sono state delle raccolte tematiche di soul e calypso: pensavo al concept e andavo da Scarful, con cui trovavamo dei riferimenti attraverso cui elaborava la grafica. Scarful si è occupato di molte delle illustrazioni di Penny e di recente è stato succeduto da Stand – ex graffitaro storico di Roma e bravissimo illustratore, che poi è proprio quell’Emiliano Cataldo che ti menzionavo a proposito di Go Bang. Queste compilation sono andate alla grande in tutto il mondo, sono seguite varie ristampe e il discorso si è allargato quando ho iniziato ad immaginare che, sulla base della mia conoscenza delle colonne sonore, potesse avere senso realizzare delle raccolte a tema criminale – una tematica che dai Mobsters a Goodfellas mi ha sempre, diciamo, affascinato.
È a questo punto che comincia la collaborazione con David Nerattini de La Batteria.
Con David siamo amici dai tempi del Circolo; è produttore hip hop, ha fatto le basi dei Colle der Fomento, ha suonato con Frankie Hi-Nrg, ed è forse il più grande esperto di library music in italia – anche perché lavorava dentro la Flippermusic, uno dei più grandi editori di Library. Quando gli propongo di aiutarmi per quelle raccolte, mi dice che per Flippermusic aveva tirato su un progetto in cui si recuperava il suono delle sonorizzazioni italiane. Che era la La Batteria, di cui è batterista.
Quindi nel 2013 si crea questa congiuntura con la festa di lancio della serie Criminale di Penny, all’interno di Magnetica e con il live de la Batteria – inutile specificare che a quel tempo già esistevano i Calibro 35, che però hanno un’impronta più rock rispetto a La Batteria che suonano decisamente più italiani, con la batteria quasi hip hop di David. La Batteria è l’unico gruppo nuovo che ho fatto con Penny, altri italiani di cui mi piacerebbe fare i dischi sono i C’mon Tigre e Squadra Omega.
Che poi, solo qualche distratto non si sarà accorto che la library music proprio negli ultimi anni sta diventando un culto sempre più diffuso…
Certo, ci si sono buttati in tanti, e infatti le licenze adesso rispetto anche a tre anni fa costano molto di più. Io poi ho ristampato Alessandroni, Daniela Casa, ma poi queste cose le ha scoperte anche un’etichetta come Finder’s Keepers che ovviamente può andare da Flipper coi soldi in bocca e chiedere l’esclusiva per le licenze. A me di entrare in queste dinamiche non interessa, anche perché ho la sensazione, di nuovo, di essere inquadrato all’interno di un ambito preciso, con dei limiti. In realtà è una grandissima cazzata di cui mi sono sempre pentito ma in cui persevero, quella di fare le cose prima e mollarle quando scoppia la moda. Perché poi arriva qualcuno che ci fa i soldi.
Come è nata l’idea di una ristampa e una rivisitazione della colonna sonora di Amore Tossico?
Nasce sempre dal confronto con David, parliamo in continuazione di quel film e della sua colonna sonora, del forte rapporto emotivo che ci lega a quella pellicola, come ti dicevo già all’inizio. Quindi, a un certo punto ci mettiamo di tigna e troviamo il contatto di Detto Mariano. Un personaggio fondamentale della musica italiana: faceva parte del clan di Celentano, ha composto un sacco di canzoni famosissime, era l’arrangiatore di Mina, Battisti, Albano, ha scritto la versione italiana di Jeeg Robot, tante di colonne sonore – anche discutibili – degli anni 80. È il sor maestro.
Con La Batteria andiamo da lui, proponendogli il nostro doppio progetto, dove la rivisitazione non fosse una cover ma un reverse – un po’ come la copertina – una rilettura di quelle partiture: se quella originale era stata composta con un sintetizzatore, la versione de La Batteria sarebbe stata elettrica. A Detto lasciamo un cd del gruppo e la rassegna stampa, ma lui per qualche ragione fraintende il progetto, pensando che l’operazione sfruttasse il suo nome, ma senza omaggiare nessuno dei suoi pezzi. In realtà aveva letto solo la rassegna stampa e non aveva ascoltato il disco… Si offende e ci chiede anche una cifra abbastanza alta. È stato sempre piuttosto ostile in ogni passaggio dell’operazione, ma ormai volevamo il suo benestare. Registriamo la colonna sonora e credo che la tensione di questa situazione abbia contribuito a rendere la rivisitazione de La Batteria molto potente ed efficace. Gli facciamo sentire il disco e lui si scioglie completamente. Tutte le volte che ci vediamo, adesso sono due ore di complimenti a vicenda. Ci ha dato la sua benedizione e presentiamo il disco con alcune date in tutta Italia (13 Maggio a Brescia, 14 Maggio a Bologna, 21 Maggio a Roma e 10 Giugno a Milano, NdR).
Il tuo rapporto con il cinema però è legato anche a un altro versante, però…
Quello del consulente musicale. Ho lavorato per S is for Stanley di Alex Infascelli, che ha appena vinto un David di Donatello, e poi molto per Fandango e Cattleya, a un sacco di commedie di Muccino e per Terraferma di Crialese. Su cui però ci metto cose come Sufjan Stevens e Sharon Jones. Del resto, sono pur sempre quello che ha portato la Daptone in Italia.