Da ottobre 2015, un nuovo progetto si è aggiunto al circolo virtuoso di realtà che a Milano si occupano davvero di ricerca e sperimentazione in ambito artistico. Letteralmente, Plunge è un tuffo a capofitto, l‘ „immersione“ – sonora e spesso anche visiva, in un contenitore sempre diverso e sempre legato al suo contenuto, ma privo di distrazioni che intacchino l’esperienza dell’ascolto. Il suo DNA è giovane e ambizioso, come i tre componenti che ne fanno parte: Gabriele Berio, Matteo Meda e Michele Palozzo, età media poco sopra i vent’anni – in evidente controtendenza rispetto agli standard italici – e la ferma volontà di contribuire a influenzare e arricchire il tessuto culturale di Milano, proponendo un tipo di ascolto autentico piuttosto che legato all’intrattenimento. Undici gli appuntamenti della prima stagione, dove nomi internazionali (relativamente) „quotati“ – Rafael Anton Irisarri, Lawrence English, Ensemble Economique, Lubomyr Melnyk – sono stati accostati a uno sguardo sempre molto attento all’underground elettronico e sperimentale italiano – da Caterina Barbieri a Luca Sigurtà, passando per SaffronKeira, Matteo Uggeri e Giovanni Lami – e a installazioni videosonore come „Agoraphonia“. La nuova stagione riparte il 23 settembre al Ligera e tra le novità di quest’anno c’è la collaborazione con San Fedele Musica per tre appuntamenti della nuova stagione di INNER_SPACES, tra cui quello inaugurale che ospiterà Fennesz, T.E.S.O. e e-cor ensemble. Dai concept ogni volta diversi per ogni appuntamento, ai rapporti con le realtà che hanno segnato la via in questo ambito a Milano fino alle difficoltà di trovare gli spazi giusti, Plunge si racconta attraverso le tre voci dei suoi fondatori e le sue idee: che sono tante e tutt’altro che confuse.
ZERO: Cominciamo con alcune coordinate “di rito”: da quale tipo di background provenite e quale è stato il vostro territorio di convergenza che vi ha portati a dare vita a Plunge?
MICHELE: Proveniamo da esperienze di vita e di studio piuttosto diverse tra lettere, filosofia ed economia. Due di noi si sono occupati di giornalismo musicale, un altro di birrifici… In maniera banale si può dire che a unirci è stata l’indole “avventurosa” nei confronti della musica contemporanea e la volontà di agire in prima persona nella produzione culturale di Milano.
Ogni appuntamento di Plunge ha un concept specifico e di questo parleremo più avanti, ma qual è l’idea iniziale attorno a cui si è sviluppato il progetto? In questo senso il nome immagino sia un significante non casuale… E quanto questa idea è rimasta in nuce nella vostra testa, quanto avete impiegato per realizzarla?
MICHELE: Il nome ronzava in testa a Matteo da qualche tempo: attribuirlo a un progetto collettivo incentrato, fra le altre cose, sull’esperienza dell’ascolto immersivo ci è sembrato più che logico, e inoltre ci piace molto: è sintetico, evocativo e distintivo. La fase ideativa, in verità, ha avuto una gestazione piuttosto breve, perché c’era molta voglia di partire e avevamo tutti bisogno di cominciare a mettere in pratica il mestiere, crescendo e imparando man mano, un evento dopo l’altro.
MATTEO: L’idea in realtà è molto più semplice di quel che sembra – e forse non siamo esenti da colpe nell’averla raccontata in maniera troppo complessa. Si tratta di proporre in città, ideandole, producendole e curandole, situazioni in cui possa aver luogo una fruizione autentica e senza compromessi delle forme d’arte proposte. L’esatto contrario di quegli spazi, di cui le città europee pullulano, in cui l’arte è (volutamente) un corollario, un ornamento, e in cui la fruizione avviene in maniera indiretta e parziale. Per esempio, quando vai in un club e balli, o quando vai ad ascoltare una band in sottofondo mentre bevi una birra, stai fruendo della musica in modo puramente funzionale – in senso evasivo, nel caso specifico. Un po‘ come la differenza tra guardare la tv a cena e un film al cinema. Naturalmente esistono film che necessitano di essere visti al cinema e altri pensati apposta per intrattenere in tv. Ecco, quello che Plunge si propone di fare è creare momenti in cui si fruisca dell’arte in sé e per sé, e l’esperienza di fruizione di un’opera – che si tratti di un’installazione, di un live musicale o di uno spettacolo teatrale – sia accompagnata in maniera coerente dal contesto in cui si sviluppa, anziché il contrario. E di farlo, naturalmente, selezionando proposte che meritino e necessitino tale tipologia di fruizione. Da qui la metafora dell’immersione, che rimanda a qualcosa come un “circondarsi” senza tramiti, senza intermediari, senza distrazioni.
Un aspetto a mio avviso rilevante è la vostra età – due su tre intorno ai vent’anni: anche al di là degli standard italiani, siete davvero giovani. Anche per questo motivo, per certi versi, mi ricordate Communion: grande entusiasmo – che si manifesta nella crescente intensità degli appuntamenti -, cura nella progettazione, ricchezza delle idee, riferimenti concettualmente con spessore. Aspetti che forse si perdono un po‘ con l’aumentare dell’età, magari controbilanciati dall’esperienza o, quando va bene, dal fatto di avere un po’ più di fondi per le produzioni. In che modo questo fattore anagrafico è stato per voi un limite e una potenzialità?
MICHELE: Personalmente ringrazio di essere ancora incluso nei “circa 20 anni”, essendo il più anziano del gruppo (27, ndr)! Penso che nel produrre eventi culturali sia molto importante far passare l’idea di un progetto, non soltanto di quello complessivo ma anche della serata specifica, far capire che dietro la scelta degli artisti coinvolti, del concept e degli apparati grafici ci sia sempre un carattere di unicità. Per questo tendiamo a definire “curatoriale” il nostro approccio – sperando di non abusare del termine –, volto a predisporre le tappe di un percorso che offra punti di vista “guidati” sulle realtà musicali che ci interessa promuovere e che crediamo possano interessare al pubblico di una città eclettica e insaziabile come Milano. Il fattore anagrafico ci ha permesso, e forse ci permetterà ancor più nei prossimi anni, di farci notare da enti e istituzioni che potrebbero essere interessate a collaborare con forze giovani e determinate come la nostra, ma allo stesso tempo ci penalizza nella misura in cui non ci imponiamo in termini di immagine e non cerchiamo facili compromessi, salvaguardando anzitutto la nostra identità.
GABRIELE: Banalmente, credo di avere molto più tempo ora di quanto ne avrò tra qualche anno, l’avere una situazione professionale ancora in via di evoluzione permette di muoversi più liberamente tra ambizioni e progetti. Insomma, ho ancora tanto tempo davanti per cercare di costruirmi un bel percorso, e poco da perdere.
MATTEO: Il fatto di essere ancora semi-mantenuto e di stare frequentando una facoltà universitaria molto flessibile a livello di tempi e impegni, mi aiuta a poter dedicare energie mentali e tempo materiale al progetto – pur in mancanza di un ritorno economico. Certo, serve un’organizzazione mentale mica male per star dietro a tutto e non perdersi… Ma in questo senso la giovane età è un bel vantaggio. A livello professionale, invece, i maggiori problemi li ho avuti in passato: l’avere costantemente a che fare con persone di 10/15 anni più grandi provoca talvolta una svalutazione della risorsa professionale che si è, e un certo paternalismo finisce per governare dinamiche relazionali che dovrebbero rimanere funzionali al lavoro e alla sua buona riuscita, intaccando pesantemente quest’ultima. Ma credo sia parte del gioco, è la cosiddetta “gavetta”, almeno fino a quando qualche pelo bianco non comincerà a sbucare qua e là. E francamente non ho fretta.
Esplicitando una parte della precedente domanda: quali sono state le difficoltà maggiori che avete riscontrato nella prima stagione? Ci sono state invece delle soddisfazioni?
GABRIELE: Beh, purtroppo non tutte le serate sono state un gran successo di pubblico e i fattori che influiscono sulla buona riuscita di un evento sono molti e non sempre controllabili. La conseguenza è che non sempre gli eventi risultano autosostenibili economicamente e questo, essendo Plunge una realtà autofinanziata, non è un problema da poco. Altre volte vorremmo riuscire a portare tale artista o organizzare tale serata ma non sussistono purtroppo le condizioni necessarie per farlo, che sia la mancanza di location adatta o i costi di produzione troppo alti. Le soddisfazioni ci sono ogni volta che rimaniamo entusiasti delle performance degli artisti, anche se a livello di pubblico la serata non è stata un successo. Ma anche a livello umano le soddisfazioni sono tante, Plunge ci dà la possibilità di conoscere tanti artisti, tecnici e collaboratori con cui spesso stringiamo ottimi rapporti.
MICHELE: Quella che abbiamo consapevolmente intrapreso è una strada, di questi tempi, molto impegnativa e ambiziosa, che ci ha visti più penalizzati in termini di visibilità e di “concorrenza” – incidentale e paritaria, da parte di realtà che conosciamo e stimiamo – ancor prima che sul fronte finanziario. È sempre una grande soddisfazione poter arrivare al termine di una serata senza intoppi, con eccellenti performance musicali e un pubblico, folto o meno che sia, arricchito dalle scoperte che offriamo loro. Al termine della prima stagione, tuttavia, ci è rimasta la voglia di avere un pubblico stabile o ancor meglio in continua crescita, e ciò costituisce uno dei principali obiettivi per la nuova.
Plunge nasce più direttamente da un’esigenza/passione personale verso la sperimentazione sonora o avete percepito una certa ricettività anche collettiva, il fatto che la città stesse vivendo un momento di grande fermento per cui era possibile colmare un vuoto, rispondendo a una necessità del territorio?
GABRIELE: Direi entrambe le cose. Da un lato non nascondo che l’esigenza personale di organizzare questo tipo di serate sia stata proprio la spinta che mi ha portato a prender parte al progetto. Dall’altro, l’esistenza stessa del progetto parte dal presupposto che a Milano non venga dato abbastanza spazio a certe sonorità e discorsi artistici.
MATTEO: Colmare un vuoto di sicuro, rispondere a una domanda non proprio, nel senso che secondo me la domanda dipende dall’offerta e non viceversa, altrimenti dovremmo disilluderci che il nostro lavoro possa contribuire a influenzare il tessuto culturale della città dove operiamo – il che lo renderebbe, almeno per me, completamente inutile e privo di senso. A Milano c’è fin troppa scelta se si tratta di clubbing, di multimediale legato alla moda o al design, di sperimentazione in quella direzione contaminata intrattenimento-ricerca, ma poca se parliamo di cultura dell’ascolto, dell’osservazione. Fatto salvo per realtà come O‘, Standards, TRoK, qualche serata di Macao e per eventi come INNER_SPACES o Electropark Exchanges, da quando si è ridotta l’attività di S/V/N/, che era un po‘ il collettore primario di tutto questo, le situazioni in cui l’ascolto autentico è al centro della scena non sono molte, o comunque lavorano in maniera piuttosto incostante. E in ambito multimediale e di arti performative la penuria è ancora maggiore. Il teatro è un capitolo a sé, c’è un underground fertilissimo ma che fronteggia difficoltà ancora maggiori di quelle legate al suono o all’arte visiva. Il nuovo formato di INNER_SPACES comunque è sicuramente una bella “risposta”, finalmente una rassegna lunga una stagione che offre con continuità occasioni per esperienze d’ascolto dirette, attraverso un sistema acustico progettato apposta per questo.
Ci sono delle realtà e dei luoghi in particolare che hanno influenzato la nascita e lo sviluppo di Plunge?
MATTEO: A prescindere dal rapporto professionale che mi ha legato a loro nel recente passato, il primo nome da menzionare iè sicuramente quello di S/V/N/. Più che per le sonorità che hanno trattato e trattano, più o meno vicine a quelle che interessano Plunge, per il principio illuminante della sinergia tra proposta artistica e spazio, di cui la prima BUKA rimane una dimostrazione formidabile. Non dimentichiamoci peraltro che metà di INNER_SPACES, fino all’anno scorso, era opera loro. Poi ovviamente Macao, un po‘ erede di quell’esperienza, in particolare progetti come Communion e Vasopressin, che dimostrano la validità della mia tesi rispetto alla dipendenza univoca della domanda dall’offerta. I ragazzi del Tavolo Suono hanno ribaltato le gerarchie e i connotati dell’intrattenimento musicale a Milano, costruendo dal nulla o quasi una vera e propria scena cittadina, divenendo un punto di riferimento per un pubblico che oggi lo preferisce alle discoteche commerciali. Vasopressin è andato anche oltre, riuscendo nell’impresa di catalizzare un’attenzione incredibile su suoni fino a prima pressoché sconosciuti al di fuori di una nicchia di pochi intimi. Certo, il lavoro da fare è ancora tanto e la nostra scommessa è ancora più ambiziosa perché va oltre il concetto stesso di intrattenimento e lo rifiuta, ma se così non fosse non avrebbe senso per noi continuare a lavorare.
Quali sono invece le realtà con cui nel vostro anno di vita avete collaborato di più e con quali farete rete nel corso della prossima stagione?
MATTEO: La nascita di Plunge la dobbiamo almeno in parte all’aiuto che ci hanno dato un po‘ tutte le realtà milanesi che ho citato sopra. TerzoPaesaggio – l’associazione che produce, tra gli altri, il progetto S/V/N/ – ci ha fatto da sponda amministrativa e da partner in tante occasioni, Macao ha ospitato il nostro primo evento, O‘ e Standards sono stati e restano alleati importanti in termini di forniture tecniche e promozione, Fillo di TRoK è un consulente prezioso e fidato. Nella seconda fase, cruciale è stato ed è Masada, che è un po‘ la nostra base, il migliore tra gli spazi con cui lavoriamo stabilmente, il più bello e quello con il maggior potenziale, nonché quello su cui abbiamo investito di più – e che, a sua volta, ha maggiormente investito su di noi. Anche quest’anno una buona parte dei nostri appuntamenti si svolgerà lì. Poi un altro punto fermo è Ligera, culla storica dell’underground milanese che ha accolto e accoglie tutt’oggi i nostri appuntamenti più avventurosi. Ultima collaborazione fondamentale è quella con Spazio Concept, una piattaforma che si appoggia su più spazi e che condividerà con noi un percorso legato meno alla musica e più all’arte contemporanea in senso performativo. Abbiamo intavolato da tempo anche una rete extra-milanese, specie a Torino con Superbudda e il progetto “fratello” En Avant, forse l’unico sul territorio nazionale a proporre un lavoro simile al nostro. E poi, ovviamente, c’è San Fedele.
Quali sono stati gli appuntamenti chiave che, nella prima stagione, hanno definito maggiormente l’identità della rassegna e che, secondo voi, sono stati di “svolta” anche nella percezione dall’esterno?
MATTEO: Di sicuro il primo appuntamento con Lawrence English, a oggi anche il più popolato in termini di pubblico; la serata a Masada con Lubomyr Melnyk, forse il più atipico degli appuntamenti che abbiamo curato e di gran lunga quello di maggior successo; la “prima” di Ecliptica, sempre a Masada, in cui di fatto abbiamo inaugurato un format condiviso con TerzoPaesaggio, cui vorremmo dare un seguito; infine citerei anche Agoraphonia, la “prima” assieme a Spazio Concept e primo vero appuntamento più legato al contemporary che alla musica in senso stretto – una direzione in cui proseguiremo appunto con Spazio Concept in questa stagione.
Citavo prima il fatto che ogni appuntamento ha un concept specifico: come vengono immaginati e costruiti?
MICHELE: Molto spesso l’idea parte da un artista specifico che ci interessa presentare, dal quale derivano poi una suggestione visiva – rispecchiata nelle grafiche dell’evento – e un titolo che la richiami in maniera più o meno diretta. È quasi sempre un gioco di accostamenti tra input visivi ed espressioni musicali, talvolta piuttosto diverse tra loro e quindi ancor più interessanti da far incontrare in un dato contesto. Nella scelta degli artisti ci viene in aiuto non soltanto la passione quasi bulimica per gli artisti del nostro tempo, ma anche le candidature spontanee e i consigli di fidati colleghi che ci pervengono sempre più spesso.
Entrando più nello specifico, come vengono scelti i vari guest e quali sono gli ambiti a cui sentireste di associare di più la ricerca di Plunge?
MATTEO: L’idea è di presentare realtà artistiche – non solo musicali e sonore, anche se rimane l’ambito in cui ci siamo mossi prevalentemente nella prima stagione – che siano in grado di offrire esperienze di fruizione particolari delle loro opere, siano performative, installative o visive, e i cui linguaggi siano dunque frutto di ricerca della materia artistica – sia essa il suono, il visivo, le sorgenti digitali. E di farlo all’interno di eventi specifici e con una propria identità, che rendano possibile fruire di tutto questo in maniera “diretta”, autentica, non mediata, “immersiva”.
MICHELE: Tutto ha avuto inizio dalla sperimentazione elettronica, con la quale il pubblico di Milano è già familiare ma forse non del tutto: sinora abbiamo voluto scommettere su artisti italiani e stranieri che, perlopiù, non vengono invitati in città, ma che invece per noi sono risorse umane e musicali davvero preziose. Detto questo, c’è molta voglia di sconfinare in altri generi per non rimanere troppo legati a certe sonorità: per noi la dimensione dell’ascolto ha davvero una valenza universale, che va dal “frastuono più atroce” alla musica del silenzio di certe avanguardie d’oltreoceano.
Un aspetto importante del vostro lavoro – e che sottolineate sul sito di Plunge – è “l’ampliamento dei linguaggi”…
MATTEO: Sono e siamo convinti che vi siano linguaggi artistici differenti che possono accrescere reciprocamente i propri significati. Sicuramente l’interazione audio-video ne è un esempio, anche se fra i più spinosi e abusati e che tende per questo spesso a perdere efficacia. Un altro esempio è quello del cinema proiettato sonoramente – e in questo un gran lavoro lo sta facendo San Fedele con i CIN’ACUSMONIUM – o del multimediale applicato all’arte performativa. L’interazione tra i linguaggi è, probabilmente, la frontiera di ricerca artistica più fertile e quella su cui ha più senso investire. E uno degli aspetti che come Plunge siamo più interessati a promuovere.
L’attenzione ai nuovi suoni è un aspetto chiave per Plunge: quanto la proposta di novità è cifra specifica del suo percorso?
MICHELE: La novità delle proposte l’abbiamo quasi sempre data per scontata nel senso che, con le dovute eccezioni e con il massimo rispetto per gli artisti giustamente già affermati, l’idea di proporre ascolti nuovi, non ovvi, magari anche “problematici”, è una prerogativa del nostro approccio. Amiamo fare scoperte e stupirci in prima persona quando un live set si rivela particolarmente emozionante e in qualche modo aggiunge qualcosa alla nostra esperienza di ascoltatori.
Allo stesso modo, se i main guest sono spesso stranieri, c’è sempre una presenza italiana: anche qui, quanto la ricerca tra musicisti che non fanno mai parte di un trend ma rivelano un’attenzione particolare da parte vostra a “certo” underground è caratterizzante?
MATTEO: Questo è un aspetto distintivo e a cui personalmente sono molto legato da tempo. Ricordo ancora quando ho scoperto per la prima volta l’esistenza di un Archivio Italiano dei Paesaggi Sonori, realtà con cui tra l’altro oggi siamo in contatto e con cui abbiamo collaborato e collaboreremo stabilmente, restandone molto stupito. Nel gruppo di sound artist che compongono l’Associazione afferente l’Archivio ci sono alcuni fra gli autori che preferisco in assoluto – da Alberto Boccardi e Giulio Aldinucci a Francesco Giannico, Enrico Coniglio, Nicola Di Croce, Fabio Perletta e Pietro Riparbelli, tanto per fare qualche nome. Artisti che ovviamente hanno in buona parte una carriera avviata e sviluppata al di fuori dell’Archivio, e che sono più noti all’estero che in Italia. Potrei citarne tanti altri anche lontani dall’ambito del soundscape, da Matteo Uggeri a Gianluca Favaron, da Anacleto Vitolo a Cristiano Deison, giusto per dire i primi che mi vengono in mente al momento. Trovo semplicemente incredibile che a oggi, eccezion fatta per pochi intimi che si sono costruiti una propria “rete”, per artisti italiani di tale qualità attivi in questo panorama sia così difficile trovare spazio in Italia, anche in situazioni che danno spazio occasionalmente a realtà simili straniere. Con Plunge c’è dunque un impegno deciso a valorizzare anche questo patrimonio, la speranza è che il nostro non rimanga un caso isolato.
Un vostro punto di vista sulla situazione della musica dal vivo a Milano: qual è la rete di realtà che più sono impegnate nell’ambito della ricerca e quali i punti di forza e quelli di debolezza, in particolare relativi ai suoni elettronici e sperimentali?
GABRIELE: Le prime realtà a cui penso e che portano avanti un discorso del genere sono sicuramente le già menzionate Standards, San Fedele e lo storico Spazio O’. Il problema con la musica live a Milano è che è troppo legata a dei trend, anche nell’ambiente della musica elettronica e sperimentale. Capita spesso di ritrovarsi in situazioni in cui sembra che la maggior parte della gente presente sia lì solo perché “fa figo” esserci.
MATTEO: Indubbiamente a Milano ce la passiamo alla grande, specie rispetto alle altre città italiane, Roma in primis. Ma se vogliamo astrarre dal paragone e parlare in maniera specifica, il buco sta proprio lì dove ci inseriamo noi, nella disponibilità e nell’offerta di spazi – sia in senso fisico, “luoghi”, che in senso figurato, “situazioni” – in cui la fruizione dell’arte si mantenga esclusivamente sul piano estetico ed emozionale, slegata da fattori terzi come l’intrattenimento, il trend, l’evasione e via dicendo. Anche gli esempi virtuosi li ho elencati poco sopra: non mancano, ma almeno per noi, non è abbastanza. E ripeto, se lo fosse, se non percepissimo ancora un vuoto da colmare, un progetto come Plunge non avrebbe senso di esistere.
E a proposito della disponibilità di luoghi/situazioni, un aspetto importante credo siano i contenitori, nel senso che a Milano ci sono delle “residenze”, come Standars, O’, o il Tavolo Suono di Macao, seppur aperto a collaborazioni esterne, ma c’è anche una discreta quantità di rassegne itineranti. Con Plunge, che tipo di problemi avete incontrato nella scelta/ricerca delle location?
GABRIELE: La natura stessa del nostro progetto necessita una forte attenzione al rapporto tra concept/sonorità della serata e luogo fisico. Non sempre è facile riuscire a trovare il luogo adatto, non ci si può “accontentare” di una location qualsiasi se esteticamente non regge con il concept della serata. Capita quindi che non si riesca a organizzare un evento per mancanza di uno spazio adatto. Ovviamente ci sono anche aspetti economici da tenere in conto, alcune location richiedono un affitto, altre non danno in gestione il bar… A livello di possibilità è sicuramente più complicato rispetto ad avere un contenitore proprio da poter gestire autonomamente.
MATTEO: Una bella domanda a cui rispondere, non in quest’intervista ma in generale per gli addetti ai lavori di questo settore, rimane sempre «come fare a vendersi?». Non ovviamente nel senso di „svendersi“, ma nel senso di convincere potenziali partner, siano essi sponsor, titolari di spazi, media e stampa o che altro della validità del tuo progetto e del suo potenziale. Ecco, probabilmente la difficoltà maggiore è stata questa, difficoltà trasversale che vivo sia quando cerco disperatamente di lavorare a un ufficio stampa funzionale, sia quando si è andati alla ricerca di spazi. Gli spazi a Milano non mancano, questa è una discreta frottola che piace usare a molti come scusa. Mancano spazi disposti a credere in un progetto come il nostro e a investire su di noi a lungo termine. Non è di certo un problema esclusivamente milanese, diciamo che però qui chi ha in mano gli spazi migliori o cerca il guadagno immediato con affitti stellari, o ti ospita solo se la tua proposta è conforme ai suoi gusti. Per fortuna ci sono poche ma fondamentali eccezioni come Masada, Ligera e Black Hole – con cui non abbiamo ancora mai collaborato, ma che possiamo assolutamente inserire nella lista -, ma rimangono casi sporadici.
Quanto la volontà di uscire dal classico format concerto + dj set e la contaminazione tra esperienze diverse sono parte integrante dell’identità di Plunge?
MICHELE: Una volta, al termine del nostro secondo evento, Napo dei Uochi Toki ci ha espressamente ringraziato per non aver fatto un dj set al termine del concerto. Non siamo aprioristicamente contrari all’idea di un fine serata più “ballabile”, o più spesso una selezione prolungata di ascolti, ma crediamo esistano alcuni casi e alcuni luoghi in cui ha senso farlo e altri no. Non dev’essere insomma una forzatura né una doverosa aggiunta a qualcosa che per noi ha già il suo senso compiuto nella dimensione live.
Arriviamo a INNER_SPACES: alla sua terza edizione, possiamo considerarla una rassegna piuttosto radicata sul territorio di Milano. Come è nata questa collaborazione con San Fedele Musica?
MATTEO: Personalmente ero in contatto con San Fedele da tempo, nel senso che come giornalista ho seguito per OndaRock un buon numero di appuntamenti durante le prime due edizioni, e nel corso della mia collaborazione con S/V/N/ (che quest’anno non è più tra le realtà che organizzano la rassegna, NDR) mi sono trovato anche a lavorare dall’altra parte in tandem con loro. Ciò non toglie che quando è arrivata l‘ e-mail in cui ci chiedevano di partecipare ad alcuni degli appuntamenti della stagione ne siamo rimasti tutti positivamente stupiti. L’onore è grande, anche perché a mio avviso rimane l’unica iniziativa milanese che abbia saputo veramente isolare l’ascolto come elemento unico di un’esperienza problematica e particolare, tagliando fuori ogni contingenza e ogni accidente, grazie anche alle incredibili potenzialità dell’Acusmonium SATOR.
GABRIELE: INNER_SPACES è una rassegna grande e ambiziosa e nutro da sempre molta ammirazione nei confronti di San Fedele Musica per aver portato certe sonorità a un livello più istituzionale e formale a Milano. Trovo che per Plunge sia un grande traguardo, che mai mi sarei aspettato di raggiungere dopo un solo anno di attività.
MICHELE: Per noi è stato davvero un onore essere contattati da San Fedele, per curare tre serate di una rassegna che seguiamo da sempre e che ha molto in comune con gli obiettivi che perseguiamo sin dall’inizio. In questo caso hanno sicuramente giocato un ruolo fondamentale il nostro entusiasmo e la costanza con cui abbiamo realizzato i primi eventi, dimostrando forse di aver fatto scelte interessanti e azzeccate.
L’inaugurazione del 26 settembre parte subito con un guest importante come Fennesz: ci raccontate come è stata ideata la serata, anche relativamente al set di apertura con e-cor e TESO, e che tipo di live dobbiamo aspettarci?
MATTEO: Si tratta in entrambi i casi di due live in cui un patrimonio “classico” viene rielaborato attraverso linguaggi musicali appartenenti in toto alla contemporaneità. Lo show di Fennesz si concentrerà principalmente su un progetto di rielaborazione di alcuni campioni provenienti dalle sinfonie di Gustav Mahler, ripensati e filtrati attraverso i suoi classici elementi espressivi – chitarre trattate, field recording e suoni digitali. A questo si legheranno rielaborazioni di alcuni brani provenienti dall’ultimo album Bécs. Il lavoro di T.E.S.O. è forse il più ambizioso: una sinfonia concreta costruita utilizzando campioni orchestrali di Mahler ed elementi corali dalle opere di Arvo Pärt. Infine e-cor ensemble propongono una loro rielaborazione in chiave digitale del secondo movimento di Tabula Rasa di Pärt, Silentium.
Che idee avete per questa seconda stagione e quali sono a grandi linee i percorsi che immaginate di approfondire?
MICHELE: Con la nuova stagione vorremmo tentare quella apertura a generi differenti di cui sopra, accendendo i riflettori sul fervido panorama dell’improvvisazione acustica ed elettronica. In tal senso, cominceremo il 30 settembre con il live per piano solo di Eve Risser, una performer rivoluzionaria che ha reinventato il suono del pianoforte preparato. All’inizio dell’anno prossimo dovremmo ospitare anche un trio free jazz d’eccezione, ma preferiamo non anticipare nulla…
Se aveste sufficiente budget, quale sarebbe il guest „dei sogni“ che vi piacerebbe ospitare?
GABRIELE: Un sogno che è andato molto molto vicino ad essere realizzato era portare Roly Porter in un bellissima location fuori da Milano. Non sia mai che accada più avanti, quindi non faccio ulteriori spoiler! Un altro sogno è Tim Hecker, possibilmente in una chiesa.
MATTEO: Se devo parlare sulle ali della fantasia, a me piacerebbe poter realizzare un festival di 4-5 giorni in grado di trattare trasversalmente suono, arte digitale, multimediale, performativo e teatro sempre nel senso in cui trattiamo l’arte con Plunge, quindi dedicato alla sperimentazione e alla ricerca, senza artifici né contingenze del caso, in location diverse ciascuna scelta in quanto funzionale ed esteticamente coerente con quel che vi si presenta, magari con pure una giornata di “convegni” tematici sul modello FAM. A livello di artisti avrei solo l’imbarazzo della scelta di chi collocarci, tra cui anche alcuni che qui in Italia non si sono mai visti o si sono visti raramente, come Bvdub, Celer, Masakatsu Takagi, Taylor Deupree. Ovviamente ci vorrebbe un finanziamento sul modello MiTo, per il quale ci servirebbe essere MiTo, e dunque trattare di tutt’altro. Per ora…
GRAZIE A URSSS PER I FANTASTICI VIDEO