La nuova liuteria è quella pratica che somiglia molto, e deve forse molto, al DIY: personalizzazione di strumenti, specificità sonore, componenti elettroniche e analogiche. La formazione e le suggestioni di Fabio Macchiavelli (1993), compositore, musicista e „nuovo liutaio“ da poco entrato nella casa editrice SZ Sugar, passa d’altronde per il metal, le percussioni, il conservatorio e la composizione, arrivando fino alle performance, e già qui si potrebbero immaginare, forse, le condizioni per una concordanza tra pedaliere di distorsioni, rumorismo, atti scenici e „musica colta“. Se per certi aspetti ci sono tutte queste caratteristiche, il punto dell’opera di Machiavelli è precisissimo: far rispondere gli strumenti alle esigenze compositive, vale a dire modificarli fino a inventarli per ottenere specifiche e inedite qualità sonore, lasciando all’occorrenza totale arbitrio alle macchine sonore. Insomma, Macchiavelli ha una ricerca personalissima ed estremamente peculiare. Una specie di sintesi delle diverse pratiche della liuteria contemporanea applicata alla composizione, e dalla quale quest’ultima prende avvio nella scrittura delle sue opere. Dunque, in occasione della sua performance „Machines inside me“ in Triennale Milano per l’Hyperlocal Club dedicato al Centro di Milano, lo abbiamo incontrato per approfondire la sua visione della musica contemporanea.
«Vedo il mondo della musica elettronica particolarmente in salute, molto più in salute delle accademie, delle scuole, dei teatri e di chi si occupa delle produzioni (con le dovute e importanti eccezioni).»
Anna Leonardi: Partiamo da lontano, puoi raccontarci quale è stato il tuo percorso nel mondo musicale?
Fabio Machiavelli: Quando ero piccolissimo mia madre accompagnava mio fratello, più grande di me, alle prove della banda del paese, e lì si assisteva tutti insieme. In verità io non ho particolari ricordi, ma mi si racconta che a un certo punto ho iniziato a prendere in mano piccole percussioni cercando di seguire il ritmo della banda. Poco più tardi ho iniziato a seguire i corsi di batteria e percussioni a scuola, e ho continuato ininterrottamente per molti anni. Durante l’adolescenza ho anche aperto un piccolo studio di registrazione, in cui venivano vari artisti della mia zona e dove registravo anche del mio materiale, per lo più di genere metal. Già sapevo che avrei voluto fare della musica la mia professione, ma ero lanciato in direzioni completamente diverse rispetto a quello di cui mi occupo oggi. Verso i sedici anni mi sono iscritto in conservatorio, al corso di strumenti a percussione. Non ricordo bene quali motivi mi spinsero, ma in conservatorio dovetti nascondere le mie inclinazioni verso la musica metal. Iniziai dunque a scoprire gli ambiti della musica cosiddetta “colta” più sperimentali e d’avanguardia, e mi sono velocemente stufato di suonare la musica scritta da altri. Così mi sono iscritto al corso di composizione e ho iniziato a comporre musica scritta (fino ad allora avevo composta solo musica non scritta). Durante gli anni di studio, e soprattutto durante gli ultimissimi anni prima del diploma l’attività compositiva ha preso pian piano il sopravvento sulla mia attività da performer. A oggi direi che vesto pubblicamente il ruolo del performer solo in rarissime occasioni, e solo quanto sono richieste competenze performative meno “accademiche”.
AL: Quanto il tuo essere uno strumentista influenza la scrittura musicale? Hai modo di eseguire la tua musica?
FM: Eseguo nel privato del mio studio tutta la musica che scrivo; anzi, da un certo punto di vista si potrebbe dire che scrivo la musica che eseguo. Ogni volta che realizzo un brano parto sempre dalla mia esecuzione sugli strumenti (non solo percussioni o simili), e procedendo nella scrittura studio le parti che realizzo per verificarne la fattibilità, l’efficacia e le criticità. Dunque il mio essere strumentista influenza pesantemente tutto quello che scrivo. Cosa che ha molti vantaggi ma anche un grandissimo limite: non sono in grado di scrivere musica che non so eseguire (almeno a livello amatoriale). Per quanto riguarda l’esecuzione pubblica della mia musica, saltuariamente capita, ma è una cosa che cerco di evitare il più possibile.
AL: Da dove nasce l'idea della costruzione degli strumenti?
FM: La prima volta che ho pensato di costruirne uno completamente nuovo, o comunque pesantemente modificato, stavo scrivendo un brano per chitarra sola. In quel periodo ero solito preparare gli strumenti e utilizzare l’elettronica per ottenere specifici risultati sonori. A un certo punto le difficoltà di far rispondere i mezzi strumentali alle mie esigenze personali erano talmente tante che ho ipotizzato che anziché “plasmare” uno strumento già esistente affinché funzionasse come io volevo, sarebbe stato più facile costruirne uno nuovo che avesse già tutte le qualità che cercavo. A oggi mi sembra che l’ipotesi sia corretta, quantomeno per quanto riguarda la mia personalissima esperienza.
AL: Ci puoi dare un'idea della nuova liuteria e del rapporto con la musica elettronica?
FM: Per quanto riguarda la nuova liuteria, noto con non molta sorpresa che molti degli addetti ai lavori che se ne occupano, siano essi compositori, performer o musicologi, interpretano l’argomento in modo talmente personale e specifico, tanto che talvolta si potrebbe pensare che non stiano parlando delle stesse questioni. Non mi sorprende, dicevo, poiché la conseguenza forse più interessante e universale di tutte quelle pratiche che possiamo includere nel cappello della “nuova liuteria” è la personalizzazione del risultato. Quindi, più che dare un’idea della nuova liuteria, posso provare a dare un’idea della mia idea di nuova liuteria. Il termine in sé è un poco fuorviante, credo, perché evoca un qualche tipo di pratica costruttiva artigianale la quale non deve necessariamente essere presente (anche se spesso lo è). Personalmente ritengo che un’attività rientri nell’ambito della nuova liuteria quando coesistono queste due condizioni: (1) lo strumento per il quale si scrive non è considerato come un mezzo chiuso e finito, ma come parte di un sistema più complesso (ad esempio il sistema strumento-amplificazione-diffusione); (2) non si accettano “passivamente” le qualità sonore del mezzo strumentale scelto, ma si interviene sul mezzo affinché esso ne acquisisca di specifiche (verosimilmente assenti in condizioni ordinarie). Dunque, la mia definizione proposta è piuttosto ampia e volendo democratica, ma mi sembra di notare che queste sono le due caratteristiche sempre presenti. Naturalmente poi ci sono tutti quegli autori che si spingono ben oltre, creano sistemi complessi che alcuni, tra cui io, chiamiamo apparati strumentali, e modificano gli strumenti, ne costruiscono di nuovi, costruiscono hardware e si cimentano in tutte queste pratiche costruttive.
Per quanto riguarda il rapporto con la musica elettronica, è difficile parlarne senza esempi specifici. Si possono certamente fare alcune considerazioni. Innanzitutto, alcune pratiche della nuova liuteria sono ascrivibili al contesto della musica elettronica propriamente detta, e qui si può guardare all’integrazione di sistemi elettronici (analogici o digitali) all’interno dell’apparato strumentale per la sintesi sonora oppure per il filtraggio del suono.
Ma più in generale mi sentirei di parlare del rapporto tra la nuova liuteria e l’elettronica in senso ancora più ampio: l’elettronica può essere “semplicemente” un elemento presente in uno o più livelli dell’apparato strumentale che si realizza; come detto può funzionare da elemento di sintesi sonora, dunque essere essa stessa la fonte sonora, oppure può filtrare il suono di un’altra fonte (magari acustica, ad esempio un violino). Ma può anche essere un’elettronica che estende le possibilità esecutive sul mezzo strumentale, come nel caso degli strumenti elettro-meccanici; in questo caso la componente elettronica è in qualche modo (con le dovute precauzioni e considerazioni) un surrogato, o se preferiamo un’estensione, di un performer umano. Credo che già così si intuisca la vastità e la complessità dell’argomento. Rimando alle prime cose che ho detto: il rapporto tra nuova liuteria e musica elettronica riguarda ancora una volta le soluzioni e gli interventi di personalizzazione dei mezzi che opera un artista.
AL: Quanto pensi che sia importante la parte visiva rispetto alla comprensione sonora del tuo lavoro?
FM: È una domanda a cui non so rispondere né in generale, né se ci si riferisce nello specifico ai brani che verranno eseguiti il 2 luglio per Hyperlocal Club Centro, ma ci provo. Per quanto riguarda Machines Inside Me, il brano con diversi strumenti auto-costruiti, è stato composto senza pensare a ciò che si vede, all’aspetto degli strumenti o alla disposizione dei materiali. Dunque, teoricamente nasce come un brano da ascoltare, non come una performance con un importante impatto visivo. Certamente ho notato che molto spesso il pubblico (ma anche gli addetti ai lavori) sono molto interessati all’aspetto degli strumenti, alla relazione tra ciò che vedono e ciò che sentono, dunque al gesto dei performer. Quindi, per cercare di dare una risposta chiara, ritengo che per questo brano non sia indispensabile la parte visiva per comprendere ciò che avviene a livello sonoro: è un caro vecchio brano di musica che può essere registrato e ascoltato in auto. Tuttavia, mi rendo conto che la componente visuale ha un suo fascino collaterale, e può aiutare il pubblico. Per quanto riguarda il secondo brano (che in realtà è il primo), This is my violin!!11!1!11, in questo caso l’aspetto visivo è invece molto importante non solo per il pubblico ma anche per me. Credo che il brano sia autonomo nella sua componente esclusivamente sonora, tuttavia vi è una fortissima relazione (fisica e concettuale) tra il suono e la gestualità performativa che è un po’ il cuore pulsante del brano. Non dico altro perché sarebbe uno “spoiler”. Temo infatti che questo brano, e soprattutto la sua componente visuale, abbia il problema dei romanzi gialli: se sai il finale diventa meno interessante la fruizione.
AL: Ci potresti illustrare il progetto creato in Biennale di Venezia ed elaborato per questa occasione in Triennale?
FM: Machines Inside Me è un brano di 20 minuti per tre strumenti auto-costruiti elettromeccanici e due performer. Tra il 2022 e il 2023 ho iniziato a sviluppare questi tre strumenti; mi sono occupato della progettazione, dello sviluppo dell’hardware e del software per farli funzionare. Con l’aiuto di mio padre Alessandro (che è un falegname) ho realizzato i primi prototipi delle componenti in legno, i quali sono poi stati modificati e migliorati fino a raggiungere le versioni finali. Più o meno nell’aprile del 2023 sono arrivato alle versioni finali degli strumenti che avevo costruito, i quali avevano acquisito tutte le caratteristiche e le qualità sonore che stavo cercando per la composizione del brano. La caratteristica che salta subito all’occhio (o all’orecchio) è che ci sono due performer e tre postazioni con tre strumenti: uno di questi infatti è completamente automatizzato, o come dico di solito “si suona da solo”. Gli altri due sono automatizzati al cinquanta per cento e quindi utilizzati dal performer umano. Durante l’esecuzione del brano le componenti elettromeccaniche automatizzate degli strumenti realizzano una performance, la quale è costantemente orchestrata e variata in tempo reale dai performer umani (in questo senso i ruoli sono invertiti rispetto a quello che succede di solito). Il titolo del brano è piuttosto didascalico, cosa a mio avviso positiva in questo caso, nel senso che definisce precisamente ciò che si vede e ne propone una chiave di lettura che, per quanto basilare possa essere, ritengo sia sufficiente per una comprensione minima dell’opera. Lo si deve interpretare non come se fosse detto dall’autore (non si tratta delle macchine che sono dentro di me come persona), ma dai protagonisti sonori del brano, ossia gli strumenti stessi. All’interno degli strumenti si trovano infatti tutte le macchine che ne permettono il corretto funzionamento, l’amplificazione, la produzione e il filtraggio sonoro, ecc…
AL: Come vedi il mondo della musica elettronica oggi e dove si colloca il tuo lavoro in questo senso?
FM: Penso che sia il momento migliore in assoluto per quanto riguarda la produzione di nuova musica, compreso il mondo della musica elettronica. Questo perché oggi vale letteralmente tutto, si può fare ogni cosa e non vi sono limiti di alcun tipo. Questo naturalmente a livello teorico; poi bisogna scontrarsi con i limiti imposti dalle produzioni e dai budget, che sono limiti in un certo senso sormontabili (non sempre, ma mi piace essere ottimista). Dunque vedo il mondo della musica elettronica particolarmente in salute, molto più in salute delle accademie, delle scuole, dei teatri e di chi si occupa delle produzioni (con le dovute e importanti eccezioni).
Per quanto riguarda il collocamento del mio lavoro non saprei ben dire. Mi avvalgo dell’aiuto dell’amico e collega Luca Guidarini che qualche settimana fa durante la serie di seminari e incontri sulla musica del XXI secolo tenutisi presso il dipartimento di musicologia di Cremona ha definito il mio lavoro come una sintesi delle varie pratiche tipiche della nuova liuteria più recente: sintesi digitale, costruzione strumentale, progettazione di sistemi di amplificazione e diffusione, utilizzo di elementi acustici ad attivazione elettromeccanica, filtraggio del suono in tempo reale. Temo di non saper essere più preciso, al momento.
AL: Ci vuoi dire che tipo di musica ascolti e darci qualche consiglio?
FM: Temo di essere un ascoltatore banalissimo, e di non poter che dare la più tipica delle risposte: ascolto un po’ di tutto. E intendo davvero in senso letterale. I consigli per l’ascolto ritengo siano davvero difficili da dare, nel senso che dovrebbero essere dati in modo mirato a singoli individui, un po’ come un farmaco prescritto dal medico («Dottore, non riesco a modulare!», «Si ascolti i corali di Bach, quattro volte al dì»). Tuttavia, visto che me lo si chiede: Fallujah (e nello specifico il disco The Flash Prevails), una band Metal con forti componenti elettroniche; Kelley Sheehan, compositrice appartenente a pieno titolo all’ambito della nuova liuteria; Alexander Khubeev, compositore russo; e per concludere con un po’ di pop che non fai mai male, Madame.