Chi è a conoscenza della definizione di „ingegnere del suono“ a volte può erroneamente presumere che si tratti di una posizione esclusivamente tecnica e perdere di vista la creatività richiesta dal ruolo. Ciò che Luca Pretolesi fa durante il mixaggio e il mastering è un’operazione a dir poco virtuosa, portando le tracce a un livello completamente nuovo. Il suo approccio artistico offre una nuova prospettiva alle canzoni, rilasciando la vibrazione che potrebbe rimanere sepolta sotto suoni non lucidati a dovere.
Originario di Genova, Luca ha ritrovato nella musica dance una seconda natura. La sua odierna notorietà dipende in gran parte dal numero di dj e produttori di alto profilo che cercano il suo talento: solo nell’ultimo anno Diplo, DVBBS, Lil Jon, Gareth Emery e Snoop Dogg (tra i suoi clienti più fedeli).
In occasione della sua partecipazione come teacher alla JägerMusic Lab, presente nel terzo episodio della docu-serie che racconta l’esperienza della scuola a Berlino, noi di Zero lo abbiamo intervistato, chiedendogli qualche chicca del passato e alcune curiosità sul suo lavoro attuale.
Chi sei? Da dove vieni? Cosa fai nella vita?
Mi chiamo Luca Pretolesi e sono nato a Genova. Ho vissuto tra la mia città natale, Milano, e la Riviera romagnola, in particolare Cattolica e Riccione, poi nel 2001 mi sono traferito a Las Vegas. Nella mia seconda vita, iniziata a metà degli anni Duemila, sono un producer-mixing-master engineer, cioè cerco in varie forme di occuparmi della qualità audio, che si tratti di mixare e masterizzare un sound, oppure proprio creare dal principio un brano. Parallelamente insegno le mie tecniche di lavoro tramite attività di sharing come masterclass o workshop, ma anche online, divulgando la mia esperienza e il mio approccio.
Qual è stato il tuo primo approccio alla musica elettronica?
Ho incominciato ad appassionarmi da giovanissimo. In realtà non ho mai avuto nessun lavoro nella vita che non fosse derivato dalla musica. Ho iniziato a 15 anni facendo il dj nei localini turistici della costa ligure, poi tra i 16 e i 18 anni, a cavallo tra l’era analogica e quella digitale, ho avuto la fortuna di studiare a Professione Musica, una scuola a Milano che ormai non esiste più, in cui si insegnava tecniche di mixaggio, registrazione su nastro, ma anche a utilizzare tutte le nuove tecnologie del momento come campionatori, sintetizzatori e via dicendo.
Le mie prime influenze provenivano, in particolar modo, dall’ultima scena elettronica e new wave, di cui facevano parte Depeche Mode, The Human League e Yazoo. Fino poi ad arrivare alla primissima scena house di Chicago e techno di Detroit che mi ha coinvolto successivamente in prima persona e dove penso di aver dato il mio contributo.
Quale ruolo ha avuto Milano nella tua crescita?
In realtà ero abbastanza introverso in quel periodo, non ero il ragazzino che andava in giro. Non andavo a ballare nei club, ma neanche agli eventi in generale, non ero così. Io passavo veramente il mio tempo a lavorare su quello che diventò poi la mia professione, ma che era la mia passione. Non frequentavo gli ambienti milanesi e non ascoltavo molta radio, ma le mie influenze arrivavano principalmente dagli ascolti in vinile che condizionavano il mio modo di lavorare. Ero ossessionato dalla ricerca e nel capire come venissero prodotti e fatti certi suoni, arrivando allo scheletro delle tracce. Milano non mi ha influenzato molto.
Raccontaci l’avventura della Walky Cup del 1989 all’Acquafan di Riccione. Quali analogie e differenze ci sono tra un contest di 30 anni fa e uno contemporaneo come JägerMusic Lab?
Io sono ligure e ovviamente passavo molto tempo in Liguria. Avevo un micro studio a Chiavari e lì vicino c’era un negozio di dischi che si chiamava Good Music, dove spesso passavo del tempo. Nel vicinato mi ero fatto una modesta reputazione, grazie alle tecnologie che usavo per lavorare ai miei set, mettendo in synch strumenti analogici e campionatori. Il proprietario dell’attività mi disse che era partner di Radio Deejay per la Walky Cup e stavano cercando dj che partecipassero alla competizione, chiedendomi una cassetta da spedire per le selezioni. Credo sia stato proprio Molella a fare le scelte e andai a Milano a incontralo per formalizzare la partecipazione. Avevo appena 18 anni ed è stata una bellissima esperienza.
La differenza fra 30 anni fa e oggi per quanto riguarda l’organizzazione di un contest è abissale. La Walky Cup era un evento in cui sono nati tantissimi talenti. Io ero un ragazzino ligure, ma erano presenti tanti altri giovani di altre città e realtà musicali, molti hanno avuto un discreto successo. Quell’anno io arrivai in finale, ma vinse Francesco Zappalà, Daniele Davoli arrivò quinto e Mauro Picotto si esibiva mixando col calzino e scratchava con il piede. Era una competition fatta per la televisione, in diretta su Italia 1, e creata per avere impatto sul pubblico a casa. Mentre gli odierni JägerMusic Lab hanno un’esposizione, un livello e un approfondimento differente: una real life experience di una settimana in una città come Berlino, mirata a lasciare al partecipante qualcosa che si porterà dietro per tutto il suo percorso professionale da producer.
Che approccio avevi allo studio in quel periodo? Come progettavi un brano? Hai nostalgia e dei buoni ricordi delle strumentazioni analogiche e delle cassettine? Hai ancora quel tipo di strumentazione nel tuo studio oggi?
Io utilizzavo la tecnologia spremendola. Premetto, non ero un ragazzino ricco e ogni strumento che mi potevo permettere imparavo a usarlo molto, ma molto bene, riuscendo a ottenere grossi risultati. Con gli anni ho avuto di certo la nostalgia di qualche dotazione che poi ho riscoperto. Oggi sto ricostruendo un rac con compressori ed equalizzatori lo-fi dei primi anni 90, quindi non vintage anni 70 e 80 molto costosi, ma strumenti cheap che in quegli anni hanno creato veramente un suono dal fascino particolare e difficile da replicare.
Che mondo rave hai lasciato in Italia nel momento in cui hai scelto di cambiare vita? Perché Las Vegas e com’è stato il tuo primo approccio al mondo USA?
Quando ho lasciato l’Italia, Las Vegas era completamente reset, zero, non esisteva una scena, non c’era proprio. L’idea di venire qui non era strategica, non volevo approfittare di qualcosa che esisteva, ma ero stimolato dal fatto che potevo distaccarmi da quella che era diventata routine per me. Ho avuto la fortuna di avere successo da molto giovane, però da fine anni Novanta ai primi Duemila per me è stata una fase un po‘ flat in Italia, dandomi uno stimolo maggiore nel reinventarmi professionalmente. Negli Stati Uniti mi sono innamorato della scena producer, dove ho sentito che il mio contributo poteva veramente avere un impatto, perché vedevo gli americani fare con tanta buona volontà cose che noi in Europa avevamo già risolto e capito quindici anni prima. Per gli yankee era tutta una cosa nuova, mentre io avevo già una certa esperienza che ho avuto il piacere di condividere con producer underground dei tempi, successivamente diventati superstar mondiali.
Agli inizi della mia carriera c’è stato un momento magico della scena rave che ruotava principalmente nell’area di Roma, dove io spesso mi esibivo. Feste incredibili: partivo in macchina con mia moglie, che hai tempi era la mia fidanzatina, viaggiavamo per 6 ore, suonavo al rave, dormivamo sui sedili e infine tornavamo a casa. Momenti indimenticabili.
Poi hai lasciato totalmente i palcoscenici per dedicarti al mixaggio e al master , spiegaci un po’ il tuo lavoro e la sua evoluzione fino a oggi, con che tipo di strumentazione lavori? Come imposti ora i tuoi progetti?
Diciamo che era finita la fase dove avevo veramente il piacere nel produrre le mie cose, portarle in giro e metterci la faccia. Ho avuto l’esigenza, o la voglia, a un certo punto di diventare un po‘ la figura backstage che aiutava l’artista on stage a fare il meglio. In Italia io mi trovavo già in una buona condizione: mixavo molto bene le mie cose e aiutavo anche altri a volte, quella era un po‘ la mia caratteristica. Io amavo la fase di mixing e molti miei colleghi mi facevano i complimenti a riguardo. Se chiedevi a Luca il ragazzino cosa voleva fare da grande, ti rispondeva che voleva stare in studio, quello era il mio punto d’arrivo. Sono riuscito a focalizzarmi nella professione che ho sempre coltivato.
Per quanto riguarda lo studio a Las Vegas, c’è stata una grossa evoluzione e il successo mi ha dato la possibilità di reinvestire sulla tecnologia. Al momento lavoro con tre studi dal setup identico, ma il mio laboratorio personale è organizzato su una custom console, frutto di una decina d’anni di fatiche. Poi ho un mio flusso di lavoro che rispetto, cercando di utilizzare sempre le stesse macchine per mantenere la personalità, il mio suono ed evolvere le mie tecniche.
Per JägerMusic Lab sei uno dei teacher più importanti. Nella terza puntata della docu-serie dai consigli su come produrre una colonna sonora per un video. Che valore dai al rapporto tra musica e immagini?
I miei gusti estetici per quanto riguarda il video sono cambiati molto negli anni. Ora sono in questa fase minimale dove apprezzo certi director che fanno prodotti veramente alternativi, come chi cura i video per esempio di Skrillex dal gusto volutamente chic e rétro, o i clip anni 80 molto freddi. Per assurdo mi piacciono anche le cose più hi-tech. Vedo il video musicale come qualcosa che dovrebbe colorare la musica e non la musica ad appoggiarsi al video. Chiaramente se invece si tratta di una colonna sonora di un film a livello di toni e colori bisogna pensare al contrario.
Ti è mai capitato di lavorare su una colonna sonora di film?
Ho lavorato a mixing e production per un film animato di Snoop Dogg che si chiama Turbo. Abbiamo creato la colonna sonora con una musica un po‘ hi-tech, tipo Kraftwerk dei tempi, volutamente molto lo-fi, utilizzando batterie elettroniche come la 606 o 505 con quella vibe di fine anni 80. È stata un’esperienza molto bella.
Ci sono dei film, delle serie tv o delle immagini che ti hanno o che ti ispirano tutt'oggi?
Al momento, anche se sarò uno dei tanti, ho apprezzato molto “Stranger Things” perché mi ci ritrovo: ragazzini di 12 anni nell’epoca in cui anch’io avevo quell’età, alla fine degli anni 80. Insomma sono io, il ragazzino con la bmx e la musica. Io che amavo veramente gli strumenti analogici e cercavo di analizzare quei suoni provenienti da sintetizzatori dal costo disumano. Mentre un film dell’epoca che rimane tutt’ora in assoluto il mio preferito è “1997: Fuga da New York”. Ho la colonna sonora in vinile e l’ho rivisto diverse volte, poi sono stato deluso dalla versione nuova, ma rimane un pezzo di storia. Mi ricordo in particolare che sul retro della copertina del vinile c’erano scritte tutte le tipologie di strumenti utilizzati per la colonna sonora, ora non accadrebbe mai.
Hai la possibilità di lavorare ad livelli altissimi, per artisti come Diplo, Major Lazer, J Balvin, Jovanotti, Giorgia. Che risultato si aspettano da te? Come hai raffinato il tuo orecchio per il mercato della pop-music odierna?
In realtà con alcuni di loro ci lavoro da prima che diventassero artisti molto popolari, quindi in qualche modo il mio sound è partito con loro in modo molto organico. Le reference che utilizzo per lavori come Major Lazer, per esempio, sono cose che abbiamo creato noi, quindi non c’è molta tensione, anzi c’è più stress a lavorare con artisti nuovi. Mentre con Jovanotti c’è molto rispetto e conoscenza reciproca da molti anni, quando lavoriamo assieme è fantastico perché lui ha questa visione estremamente aperta e artistica. Lorenzo è uno dei pochi che veramente apprezza il mio input a livello creativo nel mixing più di altri. Giorgia ha una voce incredibile con un timbro così attuale, ho mixato il suo album precedente.
Penso che la cosa più stimolante che ti può dare il mondo pop rispetto a quello dance è la sua influenza, perché condizionato da tutti i generi esistenti. Il livello è molto più alto e la concorrenza tra gli engineer pure, una motivazione in più per fare bene.
Quando senti un tuo brano alla radio su cui hai lavorato ore, ti capita avere qualche ripensamento?
Quando ascolto in radio una mia canzone attendo che arrivi la traccia successiva, perché sono sempre molto curioso di ascoltarla nel contesto con altri brani. Ho avuto tracce come Mi Gente o Lean On che mi perseguitavano ovunque andassi per il mondo, è stato un incubo. La fortuna è che quando una traccia diventa così famosa, rimane un punto di riferimento per gli altri, segna un trend.
Sei ufficialmente cittadino americano, come ti trovi ora negli Stati Uniti? Cos’è cambiato in questi vent’anni nel paese a stelle e strisce?
Ho sempre apprezzato gli USA, ma quello che ho notato negli ultimi 5-6 anni, dovuto anche alla crescita dei social media, è che questo paese ha preso un’influenza internazionale che prima non aveva. Quando sono arrivato io qui era uno stato „chiuso“ a una certa cultura e a un certo modo di lavorare, mentre negli ultimi anni, nella città in cui vivo in modo particolare, c’è un approccio e una vibe più cosmopolita. Per assurdo ci siamo aperti di più, nonostante il presidente attuale, culturalmente e a livello di tecnologie e approccio, per esempio al continente asiatico e all’Inghilterra. Anche dal punto di vista fashion: l’americano 15 anni fa si vestiva veramente da gringo, mentre ora è un mix di tutte le scene mondiali. Qui mi trovo bene, molto bene direi.
Che consigli hai dato ai partecipanti e quali dai a tutti gli appassionati che provano a far diventare la musica il proprio lavoro?
Numero uno: enjoy the process, cioè cerca di cogliere soddisfazione dalle piccole cose e poniti degli obbiettivi raggiungibili a media distanza. Divertiti nell’arrivare al primo traguardo, poi quando ci arrivi ponitene degli altri, ma che arriveranno in modo automatico. Non porti vette impossibili da raggiungere, oggi i social misurano il successo in una maniera veramente sbagliata: un producer per sentirsi realizzato deve diventare il nuovo Skrillex e questo non avviene ovviamente, quindi porsi fortemente quell’obbiettivo non fa gustare gli step, piccoli ma importanti.