Libri e mostre sono accomunate da una cosa: il racconto. Da una parte si legge e dall’altra si assiste, ma in entrambi i casi la restituzione è un dialogo. Mariana Siracusa, di Galleria-Libreria SPAZIO, è una libraia che conosce bene il valore delle parole, che è poi quello dell’inaspettato, e sa anche che l’architettura, la città, lo spazio pubblico, funzionano bene solo se ad accompagnarli c’è una storia da raccontare.
Cosa significa essere una libraia oggi?
Essere una libraia significa instaurare un dialogo con chi entra. Per cui l’obiettivo non è tanto vendere il singolo volume – certo, siamo anche felici di vendere – ma proporre una selezione di titoli che non necessariamente vengono subito in mente. Il grande problema dell’acquisto online è l’interfaccia, la barra di ricerca: devi sapere già cosa cerchi per arrivare a un risultato. Altrimenti c’è la selezione di Amazon, che oggi è sempre più calibrata e precisa, ma inevitabilmente limita la crescita individuale. Chi frequenta SPAZIO trova 300 titoli eterogenei, una selezione certamente parziale che ha i suoi limiti e i suoi punti di forza, ma che speriamo possa proporre anche l’inaspettato: è sempre bello quando qualcuno arriva in cerca di qualcosa di specifico ed esce, felice, con un titolo completamente diverso. Perché aprire un libro è sempre una porta su qualcosa di nuovo. Insomma, il dialogo è ciò che è importante ed è possibile forse solo in piccole realtà. Se questa fosse una libreria Feltrinelli, dove entrano 50 persone contemporaneamente, sarebbe impossibile essere al servizio di tutti.
E com’è esserlo in Porta Venezia, con questo spazio aperto sulla strada?
Lo spazio l’ho trovato davvero per fortuna: era un negozio di busti e corsetti, un luogo storico e meraviglioso, dove c’erano ancora le sarte, le macchine da cucire, tutto un altro immaginario. E per me era fondamentale avere le vetrine su strada: invita chiunque a entrare, non necessariamente l’architetto o l’interessato. Soprattutto nei primi anni entrava gente proprio perché non capiva cosa fosse questo spazio, perché troppo bianco, troppo vuoto, poi le mostre avevano sempre un titolo stampato sulle pareti e il titolo era sempre diverso. Un anno abbiamo allestito una mostra sullo sport e le persone entravano chiedendoci se ci occupassimo di sport. Un’altra volta una mostra su Venezia, e ci chiedevano se fossimo un’agenzia di viaggi. Per certi aspetti, questo era anche un primo modo per avere un dialogo con le persone del quartiere. Abbiamo anche una piccola selezione di libri illustrati per bambini, e le nonne incuriosite entrano e chiedono, e finiscono per dare un’occhiata ai libri d’architettura perché hanno il figlio architetto, il nipote che si occupa di paesaggio, un fratello fotografo. Questo aiuta molto: è il passaparola. E comunque, tutti i giorni entra ancora qualcuno per chiederci «Ah, ma siete nuovi?». Sarà il bianco delle pareti che cancella, non saprei.
Oltre a libreria, SPAZIO è anche uno spazio espositivo. Cosa accomuna la selezione, il pubblico e le mostre che programmate?
Ogni mostra inizia da una curiosità. Per esempio, la ricerca per l’attuale selezione di guide di architettura alle città del mondo, Nelle città del mondo / World Cities: A Short Bibliography, comincia da una serie di domande sull’oggetto Guida, dalla consapevolezza che ci sono libri che commercialmente funzionano bene, ma da lettore esperto capisci che sì, la grafica funziona e può anche diventare un caso editoriale, ma se guardato con occhio critico ti accorgi che si sarebbe potuto fare un lavoro un po’ più sofisticato. Insomma, alcuni casi editoriali sono inspiegabili per chi con i libri ci lavora ogni giorno. E da lì, le domande: perché non fare vedere qualcosa di diverso, ampliare la panoramica, dare al lettore meno esperto la possibilità di aprire un orizzonte, nel caso specifico della guida di architettura? Non sempre le mostre riguardano i libri; abbiamo messo in mostra disegni, fotografie, modelli, ma sempre con una piccola selezione bibliografica legata al tema, anche con libri rari e fuori catalogo che di solito non teniamo (abbiamo sempre e solo libri nuovi). Ogni piccola mostra è un ragionamento attorno a un tema, e questo è anche un modo per raccontare.
Il racconto e la relazione tra librai e vicinato s’è dimostrata, nei mesi di lockdown, il salvagente che ha permesso ad alcune attività di rimanere in piedi. Sono le librerie di quartiere che funzionano perché riescono ad avere una rete di relazioni, di prossimità. Quanto è importante il raccontare?
Sia le mostre che i libri sono accomunati dal piacere del racconto, che se vuoi appartiene tanto al mestiere dei librai che dei curatori. Le mostre vengono solitamente allestiste con una certa lentezza, nell’arco di qualche settimana, e capita spesso che entri qualcuno e dica la sua, suggerendo temi o disposizioni, spingendoci a raffinare certe scelte e addirittura portandoci a volte a riconsiderare la selezione, … è un work in progress. Il curatore, proprio come il libraio, cerca di essere sempre in ascolto: il cliente affezionato fa richieste, suggerisce, offre input che arricchiscono la selezione ma soprattutto arricchiscono personalmente. Può anche capitare che la proposta di mostra arrivi dai frequentatori della libreria: entra una persona che ti propone un tema meraviglioso a cui non avevi mai pensato e di cui non sai assolutamente niente, e si fa; è ancora una volta l’occasione per fare ricerca, scoprire temi e titoli nuovi. C’è ovviamente un formato che cerchiamo di rispettare, come il pieghevole che accompagna ogni lavoro, l’aspetto narrativo, la selezione dei contenuti, che in fondo io devo almeno in parte condividere.
Lo spazio esiste da quattro anni, ti sei sempre occupata di architettura, libri e allestimenti prima di aprire SPAZIO?
Io sono argentina, ma ho studiato design a Milano, ho fatto un dottorato e poi sono subito ripartita. Sono stata a Montreal in Canada per quattro anni, ho lavorato come ricercatrice in un centro di ricerca internazionale dove tutto era fantastico, come in tutti i posti dove ci sono risorse, un grande archivio, una grande biblioteca e un pubblico appassionato che segue il lavoro dell’istituzione… sono posti in cui intellettualmente cresci molto. Ma dopo alcuni anni diventa una questione di crescita personale: o resti o te ne vai. E per me era anche l’occasione per cambiare scala. Perché quando lavori per un’istituzione lavori per una macchina che ha la sua burocrazia, certi tempi e certi obiettivi. Tornare a una piccola scala significa avere più flessibilità. Ovviamente non hai le stesse risorse ma c’è certamente una ritrovata libertà, e soprattutto l’opportunità di seguire un percorso che col tempo diventa il tuo.
E come hai trovato Milano al tuo ritorno?
Quando decisi di tornare non ero sicura di stabilirmi qui, avevo il ricordo di un’altra Milano e ho trovato una città molto diversa, aperta all’estero, capace di richiamare tantissime persone. Milano è molto migliorata, è una città che ha dato sempre maggiore importanza allo spazio pubblico. Diciamo che il giorno in cui renderanno pedonale tutta via Spallanzani sarà un win-win per tutti noi! Il problema di questa città resta il traffico, le macchine, il casino. Insomma, la cosa meravigliosa delle città d’arte in Italia è che il centro storico è sempre chiuso al traffico. E questa è una ricchezza enorme per lo spazio pubblico. Bisognerebbe procedere in questa direzione, smarcare la distinzione tra pubblico e privato – che comunque qui permane – e rendere più immediato il coinvolgimento e il rispetto dell’individuo per lo spazio condiviso. Per esempio, ogni giorno qui si fa qualcosa per tener pulito il marciapiede, tra cani e quant’altro – tutti amiamo gli animali, ma con un po‘ civiltà si starebbe meglio –, e ogni volta mi ricordo dei viaggi fatti in Giappone, dove i luoghi che si affacciano sulle strade commerciali sono belli perché c’è sempre il commerciante che si prende cura di una porzione di marciapiede. Non è costretto, ma un segno di disponibilità al dialogo, di apertura all’esterno. Non ti curi solo del tuo piccolo interno, ma espandi la cura allo spazio pubblico. E se ognuno desse il suo piccolo contributo, lo spazio pubblico sarebbe un’altra cosa. Bisogna riuscire a mettersi in testa che lo spazio pubblico è di tutti, mentre forse qui siamo ancora dell’idea che se non è mio non è di nessuno. Il pubblico siamo noi, noi siamo il pubblico.
Un consiglio della tua selezione per capire un po’ meglio la città?
In questo momento non ho nulla di specifico su Milano. Però si può guardare altro pensando a questa città. C’è Discovering Dowtown Cairo, una guida sul Cairo appena uscita, dove si parla di architettura anche attraverso il racconto di chi abita gli edifici selezionati. È un fumetto in cui è l’architettura che parla, offrendo una narrazione che riguarda alcune abitudini di utilizzo degli spazi. Questa, per esempio, è una cosa che a Milano potrebbe riuscire altrettanto bene.
Oppure Hollywood Arensberg, che racconta la vita di Louise e Walter Arensberg, una coppia americana appassionata d’arte: i più grandi collezionisti di Marcel Duchamp. Avevano allestito in casa tutta la loro collezione. Guardando le foto del libro, penso che a tutti i milanesi tornino in mente le stanze della casa Boschi Di Stefano, qui in Porta Venezia. Sono entrambe case stracolme d’arte, con ogni centimetro di parete occupato da quadri. Spero che prima o poi qualche milanese faccia un libro come questo, ricostruendo tutti gli allestimenti della casa Boschi Di Stefano nel corso degli anni. In ogni caso tanti ora stanno lavorando su Milano; la città sta costruendo molto, si sta ampliando, e ci sarebbe bisogno di raccontare tanto il com’era che il come sarà.
Anche questo è un libro interessante, un altro caso editoriale: Thanks for the View, Mr. Mies. Riguarda il quartiere di Lafayette Park, a Detroit, uno dei progetti più belli di Mies van der Rohe che riesce nella seconda metà degli anni Cinquanta a integrare architettura e paesaggio con grande successo. L’idea del progetto è che le macchine non vengano eliminate, ma nascoste da un dislivello inverdito tra l’architettura e la strada, che risulta ribassata rispetto agli edifici. È importante perché qui si legge come i processi d’inverdimento delle città siano una tendenza ben collocata nella storia dell’architettura e del progetto urbano, e non appannaggio di oggi.
Oppure queste due guide dell’architettura moderna del Nord Italia, ItaloModern, in cui ci sono anche molti esempi milanesi. In questo caso sarei molto curiosa di sapere chi, tra tutte le persone che l’hanno comprata, è andato a vedere anche le tante belle architetture della provincia.
Infine, The Strip: è ancora un esempio di un lavoro che si potrebbe fare anche a Milano. È un libro su Ginza, che è la strada commerciale di Tokyo, dove ci sono le case di moda, i grandi negozi, le grandi firme. Il titolo ricorda il lavoro di Ed Ruscha su Los Angeles negli anni Sessanta, ma indagando un po’ si scopre un riferimento ancora più sofisticato al lavoro del giapponese Yoshikazu Suzuki che ha fotografato Ginza allo stesso modo già negli anni Cinquanta. Se si confronta la Ginza di allora con quella di oggi, ci si rende conto che nessun edificio di allora è rimasto in piedi. Questo lavoro si potrebbe fare su molte città. Per esempio, ricordo che Gio Ponti pubblicò su Domus delle foto pazzesche di Corso Buenos Aires negli gli anni della merce, i Sessanta, con le vetrine sfavillanti ma popolari. Oggi Corso Buenos Aires ha un altro aspetto. Ecco, costruire un libro così potrebbe ancora interessare, darebbe molto da pensare. Ci sono ancora persone che hanno vissuto quel periodo, bisognerebbe cominciare a scrivere le loro storie, a registrare i loro racconti di quegli anni. Potrebbe essere un progetto importante per una città come Milano che sta cambiando a una velocità sempre più sostenuta. Ormai si parla sempre di Milano in relazione al futuro ma spesso si dimenticano le tante piccole storie che hanno costruito l’oggi.